giovedì 27 settembre 2018

L'AUTISTA: UN ESORDIO TRA NEO-NOIR E WESTERN

Mi pare ormai evidente come una fetta sempre più consistente del mercato cinematografico statunitense, in particolare quella relativa a produzioni medio-piccole che potrebbero essere paragonate ai film diretti da registi indipendenti per sussidiarie delle majors negli anni '90 in seguito agli exploit commerciali di autori quali Quentin Tarantino e Paul Thomas Anderson, sia occupata dai lavori finanziati o distribuiti da Netflix e che quindi, purtroppo per chi ama ancora il cinema in quanto dispositivo e spettacolo collettivo, possono essere gustati solamente attraverso gli apparecchi casalinghi, dalla smart tv fino al tablet. Da un lato questo può deprimere qualunque cinefilo ma d'altro canto bisogna riconoscere con grande onestà che molte di queste produzioni non verrebbero mai a concretizzarsi senza le possibilità di rischio che può permettersi il colosso dei servizi on-demand, quel rischio che una pellicola poco pubblicizzata, priva di star internazionali o semplicemente esterna a un qualche franchise di successo possa rivelarsi un grosso buco nell'acqua al botteghino. Per questo mi sento di ringraziare vivamente Netflix per aver permesso l'arrivo in Italia di L'autista (Wheelman in originale), esordio al lungometraggio di Jeremy Rush del 2017. Una piccola opera prima, da un punto di vista prettamente produttivo, che molto probabilmente sarebbe passata inosservata nelle sale ma che nel catalogo del gigante statunitense dello streaming riesce a trovare un suo modesto spazio nonostante il suo unico nume tutelare sia Frank Grillo come attore protagonista (non a caso invischiato totalmente nel progetto in quanto produttore insieme a Joe Carnahan), personalità arrivata a una certa fama partecipando a Captain America: The Winter Soldier (Anthony e Joe Russo, 2014) e Anarchia - La notte del giudizio (The Purge: Anarchy, James DeMonaco, 2014) ma chiaramente non un divo capace di attirare milioni di dollari come Leonardo DiCaprio.

La semplice, nell'accezione migliore dell'aggettivo, traccia narrativa scritta dallo stesso regista si concentra su un'unica folle notte vissuta dall'anonimo protagonista interpretato da Grillo, uscito da meno di un anno dal carcere ma costretto dai debiti contratti proprio durante la detenzione a partecipare a delle rapine nel ruolo di autista (durante tutto il film viene chiamato autista e nei credits figura come Wheelman), Quello che sembra l'ennesimo lavoro da portare a compimento più velocemente possibile si rivela in realtà un intricato affare nel quale l'uomo si ritrova, suo malgrado, a dover resistere al fuoco incrociato di due malavitosi che affermano di essere i mandanti del colpo e dunque i destinatari del denaro che si trova nel bagagliaio dell'auto di Wheelman. La vicenda diventa ancora più drammatica nel momento in cui vengono coinvolte le persone che quest'ultimo ama di più.

Potrebbe trattarsi di un semplice caso di affinità elettive eppure è innegabile come si senta l'influenza del cinema di Carnahan all'interno di questo L'autista, quell'abilità di scrittura nel dare sostanza a un'idea semplice ma stimolante attraverso la sagacia del dialogo e l'asciuttezza dello sviluppo, il tutto rielaborando stilemi di generi ben codificati. Proprio come nei migliori lavori dell'autore di Smokin' Aces (2007) e The Grey (2011) Rush non tenta di inventare ex novo o di sperimentare arditezze da opera prima da festival per quanto concerne la struttura narratologica ma, al contrario, mescola e rielabora suggestioni provenienti dal meglio che il cinema di genere ha offerto negli ultimi anni. L'ingarbugliato intrigo tra diverse bande criminali che richiama proprio Smokin' Aces, il protagonista senza nome e infallibile autista prestato alle rapine di chiara derivazione da Driver l'imprendibile (The Driver, Walter Hill, 1978) e il quasi omonimo Drive (Nicolas Winding Refn, 2011) o la scelta di ambientare quasi tutto il film all'interno dell'abitacolo di un automobile come in Locke (Steven Knight, 2013) sono tutti riferimenti fin troppo palesi per non assurgere da suggerimento al pubblico che quello al quale stanno assistendo è un film di genere fin nel midollo e, aggiungo io, della miglior specie. L'epopea notturna di Frank Grillo, grazie anche alla durata breve, risulta una cavalcata urbana che non perde mai tensione tramite la saggia scelta di concentrare tutta l'attenzione della cinepresa sul protagonista, sul suo perpetuo spostamento tra le strade di una città illuminata da neon che tentano di mascherarne l'assenza quasi totale di quegli uomini che dovrebbero viverla realmente, similmente a quanto visto nella filmografia di Michael Mann. L'autore di Heat (1995) e Collateral (2004) rappresenta probabilmente, insieme al precedentemente menzionato Hill, la fonte d'ispirazione maggiore per l'esordiente Rush, non solo per l'ambientazione ma anche per la costruzione della figura di Wheelman, un antieroe solitario, schivo e incapace di scendere dal proprio "cavallo meccanico" e abbandonare di conseguenza una vita perennemente in pericolo proprio come i personaggi moralmente ambigui impersonati più di venti anni fa da Al Pacino e Robert De Niro. L'autista si potrebbe definire un vero e proprio cowboy metropolitano, un Clint Eastwood motorizzato come gli uomini duri che popolano i lavori di un amante del western quale Walter Hill e lo stesso attore divenuto in seguito director di alcuni tra i lavori più crepuscolari del genere (si pensi a Gli spietati del 1992).
Se nella costruzione del racconto i pilastri che guidano la penna del regista e sceneggiatore del lungometraggio risultano evidenti ben più personale si dimostra la forma. L'incipit in questo senso è un chiaro manifesto del talento visivo di Rush: un piano sequenza lungo più di cinque minuti (ripreso in un secondo momento in una versione meno estesa) con la macchina da presa fissa all'interno dell'abitacolo dell'automobile protagonista quasi quanto Wheelman che inquadra, alla stregua di una telecamera nascosta, la discussione precedente alla rapina in campo lungo, senza mai stringere o zoomare. Successivamente, con l'esplodere dell'azione, il cineasta aumenta con perizia il ritmo del montaggio evitando al contempo di rinunciare a una perfetta leggibilità dell'inquadratura, specie nel caso dei rapidissimi dettagli su ruote, volante, cambio e altre parti dell'automobile riprese frequentemente come a voler sottolineare il peso della stessa all'interno della storia, sfiorando quasi una sorta di feticismo per la meccanica e la velocità che riporta alla mente precedenti illustri (dal Cronenberg di Crash del 1996 fino, andando a ritroso, al futurismo di Marinetti e soci).

L'autista, tirando le somme, non potrebbe mai arrogarsi il titolo di film del 2017, non possiede la presunzione/ambizione, a seconda dei punti di vista, di molte opere prime o dei blockbuster che dominano il mercato ma rappresenta un piccolo gioiello per chiunque apprezzi il cinema di genere e l'abilità di plasmare determinati canoni narrativi con una ricerca estetica estremamente personale, per non parlare della performance quasi completamente in solitaria di un Frank Grillo sempre più convincente, capace di valere anche da solo la visione del film.

martedì 25 settembre 2018

READY PLAYER ONE: LA LETTERA D'AMORE DI SPIELBERG AI CREATIVI

Steven Spielberg non ha certamente bisogno di presentazioni, per quanto vi siano detrattori della sua visione della settima arte e oggi non abbia più l'appeal commerciale di qualche anni fa (si pensi alle nuove generazioni che magari conoscono per sentito dire Tarantino e Kubrick ma non il re della Hollywood anni Ottanta e Novanta) questo autore per resta un vero e proprio sinonimo di cinema. Un cinema quello del regista nato a Cincinnati che non conosce confini, distinzioni di genere o infantili distinzioni tra arte colta e popolare. La dimostrazione di ciò è il continuo alternare nella filmografia spielberghiana di pellicole "impegnate" ad altre più dedite all'intrattenimento e nel giro di pochi mesi, tra il 2017 e il 2018 assistiamo proprio all'ennesimo passaggio da una sponda all'altra di questo cineasta bifronte: prima viene distribuito nelle sale The Post, basato su una storia vera di grande impegno civile, e successivamente nel corso di quest'anno Ready Player One, che ho scelto di analizzare. La pellicola, tra le poche non scritte dallo stesso autore di Lo squalo (Jaws, 1975), è l'adattamento dell'omonimo romanzo scritto da Ernest Cline, a sua volta co-sceneggiatore della stessa. Nonostante le perplessità di molti circa la capacità di un settantenne di portare su schermo un'opera legata indissolubilmente alla cultura videoludica e al digitale il lungometraggio risulta essere a oggi uno dei maggiori incassi dell'anno, con tanto di recensioni per la maggior parte positive, anche se lontane da quelle trionfali per il precedente lavoro candidato a numerosi Academy Awards.

Protagonista del film è Wade Watts (Tye Sheridan), diciassettenne che vive in un 2045 dominato da una gravissima crisi economica lenita solamente da Oasis, un gioco di ruolo online sviluppato dal geniale James Halliday (Mark Rylance) con l'aiuto del suo unico amico Ogden Morrow (Simon Pegg) arrivato ad avere un successo tale da segnare letteralmente la vita dell'intera popolazione mondiale. In punto di morte l'ideatore del videogame ha dichiarato di aver lasciato sparsi nel mondo virtuale tre easter eggs (contenuti nascosti) legati alla propria vita che una volta trovati permettono a colui che li scopre per primo di acquisire tutte le azioni dello stesso Halliday della propria azienda da miliardi di dollari. Questo fa sì che chiunque riesca a portare a termine la caccia al tesoro diventi l'uomo più potente dell'intero pianeta e dunque alla ricerca dei tre preziosi si lanciano non solo semplici appassionati di Oasis come Wade ma anche la società presieduta dal perfido Nolan Sorrento (Ben Mendelsohn), la quale utilizza tutti i suoi potenti mezzi economici e persino la forza per riuscire a ottenere il controllo assoluto del videogame che controlla il mondo. La caccia agli easter eggs sembra in una fase di stallo finché protagonista non incontra Samantha (Olivia Cooke), ragazza a capo di un gruppo di resistenza nei confronti dei soprusi di Sorrento e per questo intenzionata a trovare i tre oggetti nascosti. Tra i due ragazzi, sebbene inizialmente si conoscano soltanto attraverso i loro avatar, nasce un amore che, coadiuvato dalla sincera amicizia con altri tre giovani conosciuti sempre online, svelerà loro la via per salvare Oasis.

Dopo aver studiato cinema per anni e giocato con sempre maggiore consapevolezza ai videogiochi da quando ho memoria posso francamente ammettere che è impossibile riassumere in poche righe la ricchezza di Ready Player One. Se, come affermato precedentemente, molti erano dubbiosi circa la possibilità che un attempato regista cresciuto in un'era completamente o quasi analogica potesse riuscire a non svilire la cultura videoludica, l'odierno sviluppo online del medium e anche la sua spettacolarizzazione attraverso la nascita degli eSports (tornei agonistici in cui veri e propri campioni si sfidano in un determinato gioco) e la trasmissione su piattaforme come Twitch e YouTube di sessioni di gaming Spielberg, come solo i grandi artisti sanno fare, suga ogni perplessità trattando con la sua consueta, enorme sensibilità questo fenomeno e per di più riesce ad raccontarlo scovandone le similitudini con il cinema e il rapporto in generale tra vita e arte, lo stesso di cui si occupavano secoli fa geni del calibro di Oscar Wilde e Gabriele D'Annunzio. Il 2045 immaginato dalla pellicola rappresenta una distopia che si limita a estremizzare la deriva escapistica che contraddistingue la nostra contemporaneità, specie in concomitanza con l'esplosione della crisi economica del 2008, le tensioni politiche tra le potenze occidentali e il terrorismo islamico numerose altre diatribe politico-sociali che avvelenano le nostre esistenze al punto da costringerci a rifuggire la realtà attraverso la fantasia, l'intrattenimento e dunque anche i videogiochi cooperativi o competitivi online, dove chiunque può assumere una seconda identità anche completamente diversa da quella reale, alla stregua di ciò che accade sui social network.

Un bacchettone qualsiasi avrebbe trattato la materia narrativa nata dalla penna di Cline puntando il dito contro la finzione insita nei mondi digitali, contro la voglia di evadere dei giovani, l'inutilità dei videogiochi e l'enorme mole di citazioni provenienti dall'immaginario nerd anni '80 presente nel romanzo sarebbe stato sciorinato semplicemente per accattivarsi un certo tipo di pubblico. Tra le mani di Spielberg, al contrario, l'avventura di Wade e dei suoi amici si trasforma nell'ennesimo Bildungsroman di qualità eccelsa della sua filmografia ma con al suo centro un tema che un artista del genere sente più di chiunque altro: la creatività. Il regista non condanna mai tutte quelle persone che tentano sbancare il lunario o semplicemente di dimenticare per qualche ora una vita miserabile attraverso Oasis perché questo enorme universo digitale rappresenta un'ambiente che fondamentalmente espande al massimo le possibilità creative di chiunque vi giochi, dove una ragazza può apparire come un alto e prestante uomo, un'altra può sfrecciare sulla moto di Kaneda vista in Akira (Katsuhiro Otomo, 1988) e un undicenne può diventare un maestro ninja. Per espresso volere del suo ideatore, a differenza di quanto accade con molti degli odierni videogiochi, il MMORPG del film non possiede quasi nessuna restrizione, nessuna pubblicità permettendo dunque a ogni suo utente di esprimere al massimo la propria immaginazione e di conseguenza di farne dei veri sceneggiatori dello script di Oasis. Si potrebbe dire che quest'ultimo rappresenti l'utopia di ogni sognatore, ciò che sarebbe dovuto essere il web 2.0 prima che le questioni economiche diventassero priorità, la concreta realizzazione di ogni creativo. Ecco la parola chiave. Tutta la pellicola ruota attorno allo scavo nella vita, nella psicologia e nelle emozioni vissute da Halliday, un uomo profondamente solo, incapace di costruire dei rapporti con gli altri nella vita fattuale eppure dotato di una tale immaginazione da aver unito tutto il mondo attraverso un universo parallelo che non frena la fantasia come accade nella quotidianità. La vittoria finale di Wade, colui che, stando alle parole di Samantha e alla conferma successiva di Ogden colui che più di tutti conosce e comprende il singolare game director defunto, non assume il semplice happy ending richiesto da un blockbuster per accontentare una platea più ampia possibile ma il compimento di una vera e propria lettera d'amore che Spielberg invia a tutti quei sognatori che hanno anteposto la propria visione dell'arte, della vita e dell'essere uomini a questioni di utilità, di sfruttamento altrui o di convenienza materiale. Dietro al volto del personaggio interpretato con straordinaria capacità empatica da Mark Rylance è affascinante rintracciare, come in un gioco, le possibili ascendenze da personaggi reali, soprattutto conoscenti del regista come George Lucas o Francis Ford Coppola, eccezionali storyteller sedotti e abbandonati da un mondo spietato come quello Hollywoodiano, ma in fondo ciò che conta per Spielberg non è certo a quale grande creativo si sia ispirato (potrebbe essere persino un riferimento autobiografico il suo), così come non è fondamentale rintracciare ogni singola citazione dall'immaginario pop anni '80 e '90, del quale comunque la pellicola si pone come una enciclopedia fornitissima. L'essenza del lungometraggio si trova tutta nelle semplici quanto sagge parole di Halliday con le quali ringrazia il suo giovane successore per aver giocato alla sua opera ma allo stesso tempo lo ammonisce su quanto sia importante raggiungere un equilibrio tra la creazione di mondi immaginari e la vita reale, l'unica nella quale si può davvero essere felici.

Purtroppo in questa sede mi è davvero impossibile sintetizzare la vastissima mole di suggestioni narrative, formali, poetiche presenti in Ready Player One e per questo ho deciso di focalizzarmi sulla centralità della creatività e del rapporto con il mondo di coloro che amano sognare. Vi ricordo che senza queste figure, spesso bistrattate perché diverse dall'idea di vincente che abbiamo in mente, non potremmo alleviare i dolori che accompagnano le vite di tutti noi con opere d'arte come quella in questione. Grazie Steven per avermi fatto giocare al tuo gioco più recente.

lunedì 24 settembre 2018

DAYBREAKERS: VAMPIRISMO COME CONTAMINAZIONE

A cavallo tra i primi due decenni del terzo millennio il cinema mainstream subisce una vera invasione di produzioni legate alla figura ormai archetipica del vampiro spesso però portandolo all'esterno del suo classico contesto horror. L'esempio chiaramente più famoso di questa tendenza, probabilmente anche il fautore della stessa, è rappresentato dalla saga iniziata con Twilight (Catherine Hardwicke, 2008), capace di proporre al pubblico una versione del nosferatu adattata ai canoni del teen drama più incline al romanzo rosa. Il successo commerciale del film e dei suoi sequel inevitabilmente mostra la via a registi e sceneggiatori per sfruttare questo tipo di mostro così noto agli spettatori all'interno di contesti nuovi rispetto alla tradizione e tra questi ho deciso di porre la mia attenzione sull'operazione svolta da Michael e Peter Spierig, autori di Daybreakers, da loro scritto oltre che diretto a partire da un soggetto originale del 2004, dunque precedente alla moda menzionata ma sicuramente arrivato in sala nel 2010 sulla spinta di quest'ultima. Il lungometraggio, realizzato con un buon budget, riesce a ottenere un modesto successo al botteghino raccogliendo inoltre recensioni discrete, un risultato non banale in un momento storico nel quale la maggior parte della critica e degli spettatori più esigente avverte una certa saturazione del tema vampiresco.

Ambientata in un futuro apocalittico, la seconda opera dei fratelli australiani vede la popolazione umana completamente sopraffatta da tempo dai vampiri, i quali godono al nostro posto di tutti i comfort che solitamente contrassegnano la nostra contemporaneità. Il protagonista, Edward Dalton (Ethan Hawke), è un ematologo che lavora per una delle maggiori aziende mondiali per la distribuzione di sangue umano e che dunque si trova in prima linea nella lotta alla profonda crisi generata dalla carenza di uomini. A rendere ancora più esplosiva la situazione politica e sociale del sistema creato dai nosferatu è la pericolosissima trasformazione che colpisce inesorabilmente chiunque non riesca a nutrirsi per lunghi periodi e che finisce per renderli esseri tanto feroci quanto privi di raziocinio, delle vere mine vaganti pronte a esplodere senza curarsi delle vittime. Edward lavora, per risolvere il problema, a una sostanza da sostituire al sangue degli esseri umani ma con scarsi risultati fino a quando l'incontro con un gruppo di superstiti della nostra specie non gli aprirà gli occhi su una nuova prospettiva di salvezza per la popolazione mondiale.

La forza delle immagini e la quasi totale assenza di dialoghi dell'incipit mostrano quanto Daybreakers sia debitore di quel cinema di genere personalissimo e metaforico che contraddistingue la filmografia di John Carpenter e dunque ben lontano dal filone inaugurato da Twilight. Proprio come l'autore di Halloween (1976) Michael e Peter Spierig rievocano alcuni topoi dei generi classici per poi mescolarli, abbattere i confini di ciascuno di essi e così rielaborarli per poter raccontare il mondo in cui tutto viviamo attraverso espedienti simbolici. In questo caso la coppia di registi adottano due registri visivi prevalenti per narrare una parabola di superamento di una crisi di risorse, morale ed economica evidentemente affine a quella scoppiata nella nostra realtà nel 2008, aggravandola delle fondate preoccupazioni per come l'Occidente e i paesi economicamente più forti sfruttino la Terra alla stregua di una miniera. Il mondo descritto nel film appartiene e viene dominato dai vampiri, creature fantastiche nate all'interno dei romanzi gotici e sdoganate definitivamente dagli horror della Hollywood classica ma in questo contesto tali esseri vengono mostrati in tutto e per tutto simili ai cittadini delle nostre città e proprio per questo, da un punto di vista formale, gli autori adottano uno stile che rimanda al noir, urbano, spezzato a metà dai fortissimi contrasti chiaroscurali sia negli interni di gelidi uffici che negli esterni notturni che ricordano il cinema di Michael Mann. L'approccio estetico cambia completamente solamente quando Edward incontra Elvis (Willem Dafoe), un meccanico ex vampiro tornato umano dopo aver rischiato di carbonizzarsi al sole. Dal momento in cui il protagonista entra completamente e con fiducia nel microcosmo di umani capitanati da tale "miracolato" le tinte oscure e notturne del film virano verso esterni luminosissimi, una prevalenza di campi lunghi segnati da una quasi esasperata rifrazione della luce sull'obiettivo che invece riporta alla mente il cinema ribelle della New Hollywood, gli esordi di Terrence Malick e quel giovanilismo contrapposto alle rigidità del sistema linguistico oltre che etico della vecchia guardia rappresentata dal cinema classico. L'intera pellicola assume dunque una natura ibrida, contaminata da istanze narrative ed estetiche provenienti da più direzioni, distanti spesso sia concettualmente che cronologicamente, e proprio la contaminazione presente nella forma trova la sua ragione d'essere nella centralità che essa ottiene nel racconto ideato dagli stessi Spierig. Il vampirismo dei fratelli australiani è un vero e proprio morbo, un contagio che colpisce e si diffonde attraverso il morso, la violenza bestiale e il sangue come il misterioso virus che trasforma gli uomini in zombie nelle pellicole di George Romero, contraddistinte non a caso da una forte critica sociale. L'ematologo interpretato con la solita grande umanità da Hawke mostra esplicitamente come lui continui a sentirsi umano anche una volta divenuto una creatura della notte e insiste a più riprese su come il suo scopo ultimo sia quello di trovare una cura alla condizione sua e dei suoi simili, considerandoli dunque persone malate e non superuomini immortali come asserito dallo spietato proprietario delle industrie di produzione di sangue umano con il volto di Sam Neill. La conferma alle ragioni del protagonista arrivano dalla spietata guerra civile che scoppia tra ogni strato sociale della popolazione e soprattutto la condizione di quelli che vengono definiti "subsiders", vampiri trasformati dalla fame in esseri motivati solamente dalla ricerca di nutrimento e giustiziati senza pietà dai non-morti comuni, come in un vero e proprio ridimensionamento degli strati più poveri della popolazione per permettere a quelli più ricchi di poter mantenere intatti i loro standard di vita. Un rischio che la nostra realtà, specie in un paese ancora segnato in profondità dalla crisi economica e da un vuoto sia morale che politico, non può considerare così fantascientifico e del quale i due registi trovano un antidoto semplice solo all'apparenza: la riscoperta dell'umanità insita in ognuno di noi, rimasta fin troppo a lungo sopita in nome di deliri di onnipotenza che non tengono conto dello sfruttamento intensivo e ingiustificato delle risorse del nostro pianeta e persino del prossimo.

sabato 22 settembre 2018

MARTYRS: GLORIFICAZIONE E DANNAZIONE DELLO SGUARDO

Sono passati ormai dieci anni dall'uscita, piuttosto travagliata in realtà, nelle sale di Martyrs eppure ancora oggi continua a rappresentare una visione tra le più dure per chiunque sia debole di stomaco così come per gli amanti del gore. Presentato al Festival di Cannes dello stesso anno, il secondo lungometraggio del francese Pascal Laugier, pupillo del regista de Il patto dei lupi Christophe Gans, dopo aver faticato persino a trovare finanziatori a causa della violenza estrema che mette in scena arriva nelle sale mondiali in pompa magna, forte proprio dall'aura di film maledetto che si crea all'interno dei festival e dunque ottiene un discreto successo di pubblico ma spacca completamente l'opinione critica, divisa tra chi ne ammira coraggio e visceralità e chi invece bolla l'opera come una mera spettacolarizzazione sadica di torture da accomunare a quel filone dell'horror statunitense definito, in maniera dispregiativa, "torture porn" (si pensi in primis a Saw, diretto nel 2004 da James Wan).

Diviso in tre atti piuttosto ben distinti, il film in analisi segue la discesa nell'abisso del dolore da parte di una coppia di ragazze, Lucie e Anna. La prima è sopravvissuta a un lungo periodo di detenzione in una fabbrica abbandonata dove è stata torturata e distrutta psicologicamente dai suoi aguzzini e la seconda è l'unica persona a prendersi realmente cura di lei quando questa, dopo essere fuggita miracolosamente, viene ricoverata in ospedale. Circa quindici anni dopo l'arrivo della sfortunata giovane nella vita di Anna Lucie trova finalmente la coppia che l'aveva torturata e si vendica uccidendola a sangue freddo, insieme ai figli. L'amica accorre immediatamente nella casa dell'avvenuto massacro per coprirne le tracce ma le visioni dell'ex reclusa diventano sempre più costanti e incontrollabili, tanto da spingerla al suicidio. Sconvolta da quanto è appena accaduto la protagonista chiama, dopo più di due anni, sua madre a telefono, consapevole di aver buttato completamente la propria vita nell'ossessivo rapporto con Lucie ma mentre tenta di dialogare con la donna scopre un passaggio segreto all'interno dell'edificio che sarò fondamentale per il terzo e ultimo atto della pellicola.

In numerose interviste Laugier ha asserito come il suo secondo lungometraggio sia nato come risposta a un periodo di grande dolore vissuto e di sconforto verso la vita stessa ed effettivamente in Martyrs proprio la sofferenza risulta la benzina che muove il motore del film, fin dall'incipit in stile found footage che mostra la traumatica infanzia di Lucie, sopravvissuta a sevizie fisiche e psicologiche talmente potenti da averne segnato per sempre l'esistenza. La speranza, la positività, il bene in senso ontologico sembra completamente assente all'interno dell'universo immaginato dal cineasta francese dato che nessuna delle figure messe in scena pare riuscire a muoversi in tale direzione e finisce sempre per arrecare dolore al prossimo oppure ignorare i patimenti altrui. La sfortunata reduce da giorni di torture finisce per diventare essa stessa un'omicida, la sua unica amica pur di assecondarla si rende complice dei suoi deliri violenti e persino i medici abbandonano Lucie a se stessa senza preoccuparsi della sua mente ormai vicina al collasso. Proprio l'ignavia dei dottori, capaci solo di assistere inermi alla discesa verso il baratro della loro paziente, introduce quello che è a mio avviso il vero cuore pulsante dell'opera e il concetto sul quale riflette maggiormente il regista con essa: lo sguardo e l'atto di osservare. L'intero film è permeato di figure che osservano l'altro e soprattutto la sofferenza del prossimo, a partire proprio dalla già citata prima sequenza che si rivela in realtà un filmato girato dai medici per mostrare lo status della loro difficile paziente. Per Laugier lo sguardo diventa soprattutto il veicolo attraverso il quale l'uomo entra dunque in contatto con il dolore delle altre persone cercando di mantenere una sorta di distanza di sicurezza, come quei generali che osservano l'esito di una battaglia da lontano, senza partecipare del massacro dei propri uomini e del nemico, eppure il regista sembra affermare che sia in realtà impossibile separare colui che osserva dall'oggetto del suo sguardo. Nel corso della pellicola viene a chiarirsi come le visioni (certamente prodotte da errate percezioni mentali ma pur sempre legate al senso della vista) di Lucie siano dovute al senso di colpa per non aver salvato una ragazza incatenata durante la fuga dai suoi aguzzini, così come la detenzione finale di Anna, apice del percorso di distruzione di ogni possibilità di una vita normale, viene provocata indirettamente dalla sua decisione di assistere alla vendetta dell'amica e dalla scelta di non fuggire nel momento in cui scopre il passaggio segreto nella casa della famiglia Belfond. Ecco dunque che nell'atto finale del lungometraggio l'autore di Saint Ange (2004) enuncia esplicitamente la centralità del guardare introducendo una sorta di società segreta, chiaramente ispirata alla Gestapo come organizzazione ma per metodi di tortura più vicini ai soldati statunitensi di stanza in Iraq, che da decenni rapisce giovani donne e le sevizia per riuscire a farle diventare martiri, letteralmente testimoni, in grado di entrare per pochi minuti in contatto con il mondo dell'aldilà e poterlo appunto testimoniare agli adepti. L'ossessione di questa "setta" per la scoperta di un mondo oltre i nostri sensi, percepibile soltanto attraverso la vista di coloro che si ergono tra la massa riuscendo a sopportare le sofferenza più cruente, conferma completamente quanto il cuore dell'opera sia rintracciabile nel connubio dolore-sguardo, un dittico legato indissolubilmente dalla glorificazione mistica che ne fanno i seguaci dell'organizzazione guidata dalla misteriosa Mademoiselle e dalla conseguente dannazione di vittime e carnefici, dei quali in un certo senso fanno parte persino gli spettatori, i primi colpevoli del peccato di guardare per diletto uno spettacolo di tale crudeltà, proprio come i pagani secondo Tertulliano o gli appassionati di horror per Michael Haneke in Funny Games (1997).

Sminuire Martyrs come un semplice film d'exploitation pronto a capitalizzare la morbosa attrazione del pubblico contemporaneo nei confronti di scene di violenza sempre più estreme mi sembra francamente una presa di posizione che dimostra un approccio superficiale al film, al suo contenuto, alla sua costruzione narrativa e persino al suo impianto formale, criticato in molte recensioni per un rifiuto quasi totale della composizione classica dell'inquadratura e per l'uso spasmodico di macchina in spalla e steady cam, scelte estetiche che a mio avviso risultano conseguenti proprio alla feroce critica mossa nei riguardi dell'atto del guardare e soprattutto del piacere che se ne trae. In fondo se siamo riusciti a guardare per intero il lungometraggio, sembra suggerirci Laugier, perché non dovremmo riuscire a osservare anche il dolore reale altrui senza muovere un dito?

mercoledì 19 settembre 2018

DARK PLACES: L'INFERNO DANTESCO DELLA MEMORIA

Il grande successo di critica e pubblico ottenuto da Gone Girl di David Fincher (2014) ha spalancato le porte del cinema mainstream ai romanzi della scrittrice statunitense Gillian Flynn, autrice peraltro della sceneggiatura della pellicola con Ben Affleck e Rosamund Pike. Sulla scia di questo momento di grande fama da parte dei romanzi della stessa nel 2015 è arrivato nelle sale Dark Places - Nei luoghi oscuri (Dark Places), diretto e adattato per il grande schermo da Gilles Paquet-Brenner e prodotto dalla star del film, Charlize Theron. Nonostante l'enorme richiamo offerto dall'attrice sudafricana, specie dopo il trionfo di Mad Max: Fury Road (George Miller, 2015), l'opera viene distribuita limitatamente negli USA e anche all'estero non conquista i favori degli spettatori, probabilmente a causa di aspettative troppo legate alla formula del già citato lavoro di Fincher.

Charlize Theron interpreta Libby Day, unica sopravvissuta al massacro della sua famiglia nel 1985 per il quale è stato condannato all'ergastolo il fratello maggiore Ben (Corey Stoll), già invischiato in accuse di pedofilia legate al satanismo. Da quell'infausto giorno la protagonista ha vissuto solamente tramite le donazioni di tutte quelle persone che le hanno inviato denaro dopo averne conosciuto la storia attraverso televisione e giornali ma dopo tanti anni la sua tragedia è ormai finita nel dimenticatoio e con essa i conseguenti mezzi di monetizzazione della stessa. In estremo bisogno di denaro Libby riceve un'offerta da Lyle (Nicholas Hoult), proprietario di alcune lavanderie che le chiede di collaborare con le indagini in corso di svolgimento da parte del suo club di appassionati di crimini irrisolti. L'uomo e altri membri dell'associazione sono convinti che Ben sia innocente e vorrebbero riaprire il processo a suo carico ma hanno pochi giorni per procedere e nessuna prova, se non la consapevolezza oggettiva che le indagini svolte siano state piene di vizi di forma e contraddizioni dovute alla fretta di incastrare il giovane con la passione per l'heavy metal. Il bisogno di soldi di Libby fa sì che superi le sue iniziali perplessità, convincendola ad affrontare finalmente il suo passato.

Strutturato narrativamente come un puzzle formato da tessere sia passate che presenti che si incastrano con il passare dei minuti Dark Places si distacca completamente dall'impostazione con repentini ribaltamenti dei punti di vista presente in Gone Girl e probabilmente questo non ha giocato a suo favore nel momento del suo arrivo in sala. Certamente il lavoro di Fincher possiede una ricerca estetica e uno scavo profondo all'interno delle contraddizioni morali del modello sociale occidentale sui quali probabilmente il film analisi non può contare ma sarebbe un errore metodologico evidente paragonare i due film semplicemente perché tratti da due romanzi della medesima autrice. Il film diretto dal cineasta francese palesa immediatamente la sua volontà di abbandonare ogni velleità di sorprendere il pubblico come in un giallo di Agatha Christie circa la verità dietro l'assassinio al centro dell'intreccio semplicemente perché il vero cuore dello stesso è il viaggio attraverso la memoria e l'offuscamento di questa da parte della protagonista. L'intero lungometraggio si dipana come una vera e propria discesa negli inferi da parte di Libby, sospesa per anni in un limbo sovvenzionato dalle donazioni ricevute nel quale non è mai divenuta davvero una donna adulta non avendo mai lavorato ed essendosi privata ogni relazione degna di questo nome con il mondo esterno. L'incontro con Lyle, la sua convinzione circa l'innocenza di Ben e l'estremo bisogno di soldi costringono la superstite a fare finalmente i conti con quel passato che è divenuto, per sua stessa ammissione, sempre più nebuloso, corrotto dalla rabbia e da un sotteso senso di colpa per aver mentito alla polizia. Debby per poter ricostruire la vicenda viene suo malgrado portata a dover attraversare una lunga serie di giorni infernali degni della Divina Commedia dominati da uno o una coppia di personaggi coinvolti nella strage della famiglia Day, ognuno sconvolto da un determinato peccato che ha contribuito all'incarcerazione del fratello della protagonista, compreso quest'ultimo. Dalla ragazzina che si era inventata la storia circa le molestie sessuali di Ben alla ex fidanzatina incinta l'unica sopravvissuta alla tragedia finisce per constatare come una lunga serie di menzogne tenute nascoste per decenni abbia distrutto la vita non solo del presunto assassino ma anche degli stessi bugiardi, divenuti tutti nel presente degli adulti soli e incapaci di superare il trauma, proprio come lei. La sbrigativa e priva di grandi colpi di scena risoluzione dell'enigma dunque diventa una autentica scelta di priorità da parte del regista, il quale, in quanto autore della sceneggiatura, opta volontariamente per porre la propria lente d'ingrandimento sul percorso di maturazione e di ricostruzione della protagonista, ennesima figura di essere umano dall'io fortemente scisso presente nel cinema contemporaneo e alle prese con le conseguenze più nefaste dell'incapacità della memoria dell'uomo di ricostruire fedelmente l'oggettività della realtà.

Dark Places, grazie anche alla presenza nel cast di attori di grande livello (da menzionare l'interpretazione di Chloe Grace Moretz nei panni della ragazza di Ben Day al tempo dell'omicidio), rappresenta un'interessante escursione attraverso il tentativo di una donna mentalmente ed emotivamente spezzata di ricomporre i pezzi della propria persona, arrivando finalmente a cominciare una vita reale solamente dopo aver affrontato i demoni che abitano il proprio infernale passato.

martedì 18 settembre 2018

HEADHUNTERS: IRONIA E NEO-NOIR IN NORVEGIA

Oggi e in special misura per il pubblico italiano il regista norvegese Morten Tyldum viene riconosciuto grazie a due pellicole hollywoodiane con numerose candidature agli Academy Awards come The Imitation Game (2014) e il successivo Passengers (2016) ma la sua carriera ha in realtà trovato un punto di svolta con il precedente Headhunters (2011), ultimo lavoro del cineasta girato in patria. Il film in questione non solo risulta un trionfo al botteghino del paese scandinavo, tanto da posizionarsi ancora al primo posto nella classifica dei più grandi incassi nazionale, ma riesce anche a convincere a pieno la critica europea e americana, spalancandogli così le porte per il dorato mondo delle grandi produzioni statunitensi.

La voce over che accompagna l'incpit del lungometraggio rivela fin da subito il protagonista assoluto dello stesso, Roger Brown (Aksel Hennie), un selezionatore del personale specializzato in top manager che per poter mantenere un tenore di vita molto elevato si occupa anche di furti di opere d'arte con l'aiuto di Ove, un fanatico delle armi da fuoco che lavorando in una società di videosorveglianza si occupa di disattivare i dispositivi di sicurezza delle case da saccheggiare. La vita del ladro viene a complicarsi quando durante l'inaugurazione della galleria d'arte di sua moglie Diana conosce Clas (Nikolaj Coster-Waldau), ex dirigente di una società leader nel settore delle tecnologie GPS con un passato in un'unità speciale dell'esercito. L'uomo, presentato al protagonista dalla moglie, sostiene di possedere una tela originale di Rubens, un'opera che potrebbe rappresentare il tanto atteso colpo grosso, quello che permetterebbe al "cacciatore di teste" (così si definisce in gergo il ruolo del selezionatore di personale) di poter vivere per sempre nello sfarzo che intende donare alla sua bellissima consorte.

Rivelare ulteriori dettagli sui risvolti narrativi di Headhunters sicuramente rovinerebbe a quanti di voi non abbiano visto il film il piacere di alcune svolte più o meno inattese della trama, eppure non è certo questo un thriller che vive per depistare lo spettatore o un mind-game movie in stile Shyamalan o Nolan. Sebbene al lungometraggio di Tyldum non manchi nessuno degli elementi più archetipici del noir classico e della sua declinazione moderna nota come neo-noir (dall'ambiguità morale del protagonista alle femme fatale fino al tentativo di depistare le indagini della polizia) l'intera struttura di genere viene riletta attraverso un filtro di macabra ironia, a cominciare dalla già citata sequenza iniziale in cui Roger elenca le regole che il perfetto ladro di opere d'arte deve seguire, quasi come in un film di Tarantino o Guy Ritchie. Con l'intricarsi della vicenda e soprattutto nel momento in cui viene rivelata la reale natura di Clas il grottesco humour in questione assume connotati sempre più algidi e marcati, connotando una certa affiliazione non tanto al filone pulp in voga negli anni '90 quanto caso mai ai singolari thriller girati da Woody Allen quali Match Point (2005) e Irrational Man (2015), specie per quanto concerne l'importanza estrema che riveste il caos, la fortuna all'interno delle vicende umane e come appunto il caso possa determinarle ben più del libero arbitrio. Il protagonista, infatti, sebbene molto astuto e con un notevole istinto di sopravvivenza non è certo dotato delle abilità fisiche e dell'addestramento militare di cui gode il suo rivale e così, senza voler rivelare troppo della trama, nel finale dovrà davvero molto alla sorte. Persino la messa in scena scelta dal director, ricca di campi lunghi e inquadrature fuori asse, pone attraverso la distanza rispetto ai personaggi e la presenza quasi asfissiante di colori freddi la cinepresa in un ruolo quasi di occhio divino che osserva con distacco le disavventure di uomini e donne coinvolte, trovando un unico vero momento di empatia nella sequenza in cui il protagonista confessa a sua moglie i motivi che lo hanno spinto a rubare opere d'arte e riempirla di regali costosi.

Headhunters in definitiva potrebbe davvero catturare l'attenzione di ogni appassionato di Woody Allen e della sua poetica concernente la dialettica fortuna/libero arbitrio ma con la forza dei suoi ottimi attori e dell'innegabile qualità delle sue immagini trova il modo di farsi ricordare da qualsivoglia tipologia di spettatore, rendendo dunque evidenti i motivi del suo successo unilaterale.

lunedì 17 settembre 2018

MAPS TO THE STARS: LA MORTE DI HOLLYWOOD E DELL'OCCIDENTE

All'interno del mio intervento su A Dangerous Method ho sottolineato come, inesorabilmente, con l'avvento del terzo millennio David Cronenberg abbia abbandonato la massiccia fisicità tipica del suo cinema precedente per continuare a indagare il rapporto tra l'umano e l'artificiale, il lato oscuro del progresso e della società post-capitalista attraverso storie e messe in scena maggiormente rarefatte e lontane dal cosiddetto body horror. Il culmine di questo processo è stato probabilmente raggiunto con Cosmopolis (2012), pellicola compressa in un abitacolo adibito a rappresentazione fisica dell'interiorità del protagonista e del subdolo mondo nel quale vive, ma l'ultimo lungometraggio girato dal cineasta canadese si pone come epiteto proprio della filmografia dello stesso, nonostante un titolo vagamente romantico quale Maps to the Stars. Diretto nel 2014 il film, l'unico girato negli Stati Uniti all'interno dell'ampia produzione di Cronenberg, viene presentato al Festival di Cannes dove riceve un premio per l'interpretazione di Julianne Moore ma al momento della distribuzione nelle sale divide critica e fan del regista, rivelandosi un flop al botteghino.

La flebile storia alla base del lungometraggio ruota attorno alla discesa nel baratro di alcuni figure che ruotano attorno al dorato mondo di Hollywood: Havana Segrand (Julianne Moore), un'attrice in crisi che lotta per ottenere la parte nel remake di un film recitato dalla madre defunta che ha accusato pubblicamente di reiterati abusi sessuali; Benjie Weiss, star adolescente di un franchise cinematografico appena uscito dal tunnel della droga ma messo nuovamente in crisi dal suo caratteraccio e dall'invidia per la co-star del suo ultimo film; Agatha Weiss (Mia Wasikowska), sorella del giovane appena arrivata a Los Angeles dopo aver passato anni in una clinica psichiatrica dopo aver dato fuoco alla casa di famiglia e aver fatto ingerire alcune pasticche al fratellino; Stafford e Christina Weiss (John Cusack e Olivia Williams), genitori dei due impegnati soprattutto ad arricchirsi sfruttando il prossimo (il primo è uno psicanalista che si atteggia a guru in televisione e che si occupa anche di Havana, la seconda lavora come agente del figlio). Le tragedie personali e familiari di queste figure si intrecceranno proprio con l'arrivo nella città degli angeli di Agatha, sotto lo sguardo che tenta in ogni modo di tenersi estraneo di Jerome (Robert Pattinson), autista di limousine e aspirante attore/scrittore.

Tentare di estrapolare in poche righe le complessità di un prodotto come Maps to the Stars risulta un compito estremamente arduo, se non impossibile, ma ciò che risalta fin dalla prima visione dello stesso è la crescente ferocia con la quale Cronenberg ritrae un piccolo estratto di un microcosmo che in qualche modo diventa sineddoche dell'intera società occidentale odierna. Se Cosmopolis affrontava di petto la questione del degrado etico attuale criticando senza molti giri di parole la mostruosità del capitalismo, la disumanizzazione della classe dirigente rappresentata dal giovane annoiato magnate interpretato da Pattinson, il film in analisi sceglie come di focalizzarsi su un obiettivo più ristretto per portare un attacco simile al precedente. Hollywood e lo showbiz in generale costituiscono oggi, in tempi di crisi economica oltre che morale, un sogno ancora più scintillante e dannato al tempo stesso rispetto a quanto visto in altre pellicole incentrate su questo ambiente quali Mulholland Drive di David Lynch (2001) arrivando a diventare una sorta di Olimpo da raggiungere a ogni costo, un Eden dal quale evitare di essere espulsi persino a discapito della propria umanità. In questo senso l'ultimo lavoro del regista canadese potrebbe essere paragonata ad altri lavori che descrivono il medesimo milieu come il recente The Canyons (Paul Schrader, 2013) o il classico Sunset Boulevard (Billie Wylder, 1950) ma a distinguerlo e renderlo appieno un prodotto della mente dell'autore di Videodrome (1983) è l'indagine psicanalitica tipica della sua filmografia post-2000 che sfocia in una vera e propria decisione di uccidere anche l'ultimo baluardo di bellezza all'interno di un mondo squallido e grottesco nella sua amoralità: il cinema. Con una sequenza realmente paradigmatica nella sua efficacia semantica Cronenberg mostra quella che sembrerebbe essere una soggettiva di Havana mentre viene accoltellata a morte da Agatha, la quale colpisce più volte la sua datrice di lavoro guardando direttamente in macchina. Proprio lo sguardo diretto all'obiettivo della cinepresa e la copiosa fuoriuscita di sangue dal medesimo punto a ogni fendente appare come un chiaro riferimento all'omicidio della settima arte da parte del meneur de geste dell'intera vicenda e dunque simbolo dell'intera umanità malata che popola lo star system e l'Occidente in toto. Non credo che sia un caso che il cineasta di Toronto non abbia girato più alcun lungometraggio e che anzi pare sia in procinto di abbandonare questo formato in favore della serialità targata Netflix: Maps to the Stars rappresenta, almeno a oggi, la lapide scolpita dal proprio autore per il cinema, un arte non più in grado di contribuire a migliorare la realtà e dunque divenuta ormai solamente uno spettro, proprio come quelli che popolano le menti vicine al collasso dei personaggi che popolano quest'opera. Proprio per questo il director rinuncia completamente a conferire una forma coesa e dotata di una propria personalità alla pellicola e opta per uno stile asettico ai limiti della sciattezza che sottolinea ancora una volta la fine della settima arte.

Probabilmente molti di voi potrebbero non digerire del tutto un lavoro come questo Maps to the Stars ma una visione attenta rivela quanto del suo autore vi sia all'interno, persino il suo sconfinato amore per quel cinema che adesso considera, con evidente dolore, solamente un'ombra sbiadita.

domenica 16 settembre 2018

NO ONE LIVES: L'OSCURA WELTANSCHAUUNG DI RYUHEI KITAMURA

Dopo aver posto all'attenzione il più recente Downrange (2017) mi è parso quasi obbligatorio riflettere anche su quello che può essere considerato il suo gemello o fratello maggiore (proprio da un punto di vista anagrafico) all'interno della filmografia statunitense di Ryuhei Kitamura: No One Lives, seconda fatica girata negli States nell'ormai lontano 2009. A differenza dell'altra pellicola da me analizzata questa viene prodotta con un budget nettamente più alto, sebbene lontano anni luce dagli standard dei blockbuster, e distribuita anche in sala in tutto il mondo, nonostante grandi limitazioni dovute alla censura che ne hanno pregiudicato gli incassi. Certamente l'opera in questione non può essere definita un grande successo né commerciale né di critica ma rappresenta a mio avviso una ottima rappresentazione dell'idea di cinema di quello che può essere considerato, con i suoi pregi e i suoi difetti, un vero e proprio autore e che in quanto tale merita sicuramente un maggiore approfondimento.

Dopo un incipit nel quale viene mostrato il rapimento di una ragazza dai capelli biondi la macchina da presa introduce quello che sembrerebbe essere il protagonista del lungometraggio, un anonimo personaggio identificato semplicemente come "Driver" (Luke Evans) in viaggio con la compagna Betty (Laura Ramsey). I due decidono di pernottare in un motel per riposarsi e su suggerimento del proprietario vanno a cenare in una tavola calda nelle vicinanze. All'interno del locale vengono disturbati da Flynn, una testa calda facente parte di una banda di rapinatori che hanno appena sterminato una famiglia durante un furto in casa finito male. Nonostante i rimproveri subiti dal capo Hoag l'uomo attacca la coppia subito dopo la cena mentre questi si trovano in macchina, li rapisce e porta l'auto nel suo nascondiglio. All'interno del veicolo non trova grandi beni ma "solamente" una ragazza, la giovane Emma Ward vista durante la prima sequenza. Nel frattempo Driver e Betty si risvegliano legati da uno dei membri della gang e inaspettatamente la donna si taglia la gola con il coltello usato dallo sgherro per minacciarla, scatenando così la furia del suo compagno e rivelandone di conseguenza la sua vera indole. Da quel momento il misterioso protagonista inizierà una caccia senza pietà per uccidere tutti i componenti della banda e riprendersi la studentessa che aveva sequestrato.

Proprio come già sottolineato a proposito di Downrange per Kitamura il cinema è soprattutto una questione di stile e intrattenimento, la sua visione dell'horror è molto più vicina a quella dell'attrazione, della stimolazione costante dei sensi per stordire e divertire il pubblico. No One Lives non fa eccezione e per questo utilizza la traccia narrativa quasi come un pretesto per permettere l'esplosione di uno spettacolo truculento e beffardo, sanguinolento e ironico allo stesso tempo ma questo non significa che il regista non lasci intravedere niente di sé all'interno di questa pellicola. Come confermato dal suo successivo gemello il film in analisi dimostra la grande conoscenza delle regole del genere e di quelle del racconto classico da parte del cineasta, caratteristiche imprescindibili per il suo gioco del ribaltamento dei ruoli: la scelta di ambientare le prime sequenze alla luce del sole e l'insistenza sui primi piani di Evans durante il viaggio con la fidanzata ingannano lo spettatore, lo invitano a entrare in empatia con il personaggio e anche la scrittura sembra suggerire come questi possa rappresentare il tipico eroe ma non appena il sole tramonta ecco che avviene la trasformazione. Driver comincia a rivelare i primi indizi sulla sua morale tutt'altro che cristallina e così di pari passo con la progressiva oscurità che invade la fotografia anche l'uomo mostra con sempre maggiore evidenza la propria natura di serial killer psicopatico, freddo, spietato e unito da un legame d'amore morboso con alcune sue vittime, come la sventurata Emma, costretta dalle sue sevizie a perdere tutta la sua innocenza pur di sopravvivere e dunque resa sempre più simile al suo aguzzino. La citata oscurità che permea la gamma cromatica del lungometraggio simboleggia a pieno la totale assenza di positività etica ed emotiva all'interno del racconto dato che nessuno dei personaggi in lotta per salvare la vita si dimostra davvero senza macchia. In completa antitesi con la prassi del classicismo americano le due parti che lottano sono in realtà due facce della medesima crudeltà, differenziate solamente dall'approccio: la banda di rapinatori ferisce il prossimo semplicemente per avidità, l'anonimo protagonista per scelta di vita, per istinto e per il piacere che ne trae. L'unico barlume di luce tra le tenebre del mondo immaginato da Kitamura risiede nella figlia di Hoag, l'unica ad avere a cuore le sorti non solo della famiglia ma persino della giovane appena incontrata in circostanze tutt'altro che quotidiane e la sua morte metaforicamente riassume proprio la comune malvagità di tutti i personaggi su schermo, dato che viene prima accoltellata da Driver e poi investita da Flynn. Il commento della stessa Emma sull'accaduto esterna nella maniera più sintetica e significativa possibile come con la ragazza sia morta quest'unico spiraglio di luce e dunque come nella Weltanschaung del regista nipponico l'innocenza sia destinata a perire.
Nel suo nichilismo non privo di ironia No One Lives si rivela tutt'altro che il tipico slasher o un semplice torture porn ma semmai una vera e propria manifestazione della poetica del suo autore, per certi versi simile al pessimismo espresso con humour acido da Mario Bava in Reazione a catena (1971) e John Carpenter in 1997: Fuga da New York (Escape from New York, 1981).

giovedì 13 settembre 2018

DOWNRANGE: L'IMPORTANZA DELLO STILE

Arrivato da pochi mesi sul mercato italiano attraverso l'ormai sempre più florido home video, specie per gli appassionati di cinema di genere, Downgrade (2017) rappresenta attualmente l'ultima fatica del cineasta nipponico Ryuhei Kitamura, autore sempre ben riconoscibile e perennemente impegnato sia con produzioni autoctone che con altre completamente o quasi statunitensi, proprio come quella in analisi. Dopo aver girato alcuni horror a medio budget negli USA come Prossima fermata: l'inferno (The Midnight Meat Train, 2008) e No One Lives (2009), due pellicole accomunate peraltro dalla presenza di due star nei ruoli principiali (Bradley Cooper nel primo e Luke Evans nel secondo), l'eclettico regista torna con questo lungometraggio a un progetto del tutto indipendente e dunque svincolato dal circuito della distribuzione di massa nelle sale ma nonostante ciò capace di conquistare numerosi consensi ai festival internazionali.

Il narrato, nato da un soggetto originale dello stesso Kitamura, propone al pubblico le disavventure di un gruppo di ragazzi, conosciutisi attraverso una app che permette di trovare un passaggio in auto a pagamento, il cui tranquillo percorso viene interrotto in una desolata strada dello sterminato continente americano dal fuoco sparato, senza alcun apparente motivo, da un cecchino nascosto tra i rami di un albero. Tra l'infallibile tiratore e i giovani si instaura così un crudele gioco al gatto e al topo nel quale l'unica speranza di salvezza per questi sembra essere la presenza di Keren, le cui inaspettate conoscenze del mondo della caccia e delle armi aiuta Jodi, Todd ed Eric a resistere.

Come hanno dimostrato i più rigorosi e mentalmente elastici studi sul cinema di genere questo tipo di pellicole si basano su precisi schemi narrativi che i registi più abili riescono a rinfrescare con piccole novità ma che restano in definitiva fedeli a determinate radici. Dovendo dunque mantenere inalterato il cuore di questi topoi nella costruzione del racconto il vero banco di prova per un autore di horror diventa il versante formale e questo Downgrade non solo conferma tale "regola" ma anzi potrebbe divenire un vero e proprio exemplum per chiunque voglia comprendere i meccanismi di questa porzione della settima arte. Kitamura, produttore, autore del soggetto e regista dell'opera, a sottolineare la natura prettamente personale del progetto, dirige un film che supera appena l'ora e mezza di durata, che inizia in medias res e che non si sogna neanche per un attimo di soffermarsi su riflessioni sottese o sulla costruzione psicologica ed etica dei personaggi, con l'unica eccezione di Todd, l'unico che nel corso dell'azione fuoriesce dal tipo dello stupidotto fidanzato con la bella biondina per dimostrarsi un uomo vero, con un passato, delle emozioni palpabili e una maturazione evidente con il passare dei minuti. Tutti gli altri caratteri non fanno altro che mantenere inalterati i ruoli archetipici del new-horror inaugurato da Tobe Hooper e John Carpenter, persino quando la sceneggiatura si diverte a sorprendere lo spettatore appassionato con improvvisi colpi di coda, uno su tutti la morte di Keren e la trasformazione della fragile Jodi in quella che sembrerebbe essere una final girl in piena regola. Senza rivelare nulla sull'ironico quanto nichilista finale appare evidente quanto a livello puramente narrativo il cineasta giapponese si concentri solamente su qualche variazione su tema rispetto ai canoni dello slasher e dei film d'assedio (si pensi a The Night of the Living Dead di Romero del 1968 o ad Assault on Precinct 13 del già citato Carpenter), come per esempio l'ambientazione in esterni, mentre tutta la sua attenzione si focalizzi sul versante estetico e formale. La pellicola fin dall'incipit si rivela un susseguirsi di inquadrature sempre diverse, una giostra che mette in mostra la spropositata inventiva del regista attraverso soggettive impossibili (da quella di uno pneumatico a quella dei proiettili), piani sequenza esasperati o movimenti di macchina che ribaltano con ardita eleganza il punto di vista della cinepresa. Certamente in alcuni frangenti tutte queste meraviglie visive restano delle finezze per il palato prive di qualunque significante ma è innegabile come riescano a stupire qualsiasi tipo di spettatore e al contempo anche a mantenere alta la tensione di un sadico gioco di sopravvivenza nel quale un minimo passo falso può costare la vita.

Downgrade si rivela in conclusione un efferato prodotto di ludico orrore, un sadico divertissement perfettamente aderente a quello messo in piedi dal cecchino con i giovani protagonisti. Un campionario delle abilità visuali di Kitamura nel quale forma e contenuto tendono a sovrapporsi attraverso il filtro della tensione come disimpegno.

martedì 11 settembre 2018

STARRY EYES: LA MUTAZIONE DA DONNA A STAR

Con un ritardo di ben quattro anni è finalmente giunto, direttamente in home video, l'horror Starry Eyes, diretto nel 2014 da Kevin Kölsch e Dennis Widmyer. Proprio come The Void anche questo film nasce grazie a una campagna di crowdfunding, anche se in questo caso solo parte del suo budget deriva dalle donazioni spontanee raccolte sul web, e incontra fin da subito ottimi riscontri da parte della critica statunitense, sebbene non così eclatanti da convincere qualche casa di produzione a credere nell'opera e distribuirla su larga scala nelle sale cinematografiche, relegandola dunque a una nicchia di appassionati quando, visti gli innegabili pregi che tra poco sviscererò, avrebbe potuto sicuramente diventare un piccolo caso, similmente a quanto accaduto con lo straordinario It Follows di David Robert Mitchell, uscito peraltro nel medesimo anno.

Protagonista assoluta della pellicola risulta l'aspirante attrice Sarah Walker (Alexandrs Essoe), alle prese, come molte sue coetanee trasferitesi a Los Angeles, con lezioni di recitazione, provini poco entusiasmanti e lavori umili con i quali mantenersi. Tra le facili ironie e una certa invidia dei suoi amici la giovane partecipa alle audizioni per il ruolo da protagonista nell'horror prodotto dalla nota Astraeus Pictures (casa che potrebbe in parte ricordare la AIP di Roger Corman) The Silver Scream. Inizialmente il provino sembra tramutarsi in un fiasco totale e così Sarah sfoga tutta la sua frustrazione in bagno con una crisi isterica durante la quale si strappa alcune ciocche di capelli. Il gesto viene misteriosamente visto dal regista e dalla sua assistente con un risultato ancora più singolare: i due le chiedono di ripetere l'evento e la ragazza, dopo qualche titubanza, obbedisce fino a cadere in una sorta di trance. Nei giorni successivi Sarah viene ricontattata dalla produzione che le chiede di presenziare a un nuovo incontro, durante il quale viene fatta spogliare e sottoposta a qualcosa di simile a un'ipnosi attraverso un potente riflettore acceso a intermittenza. Ormai convita di essere stata scelta per la parte nel film l'attrice lascia il lavoro e accetta senza alcun dubbio di incontrare a casa sua il produttore di The Silver Scream ma fugge non appena questi inizia a molestarla sessualmente. Il ritorno in mezzo ai suoi amici, tutti aspiranti artisti senza un soldo o un'idea concreta per svoltare, e il fatto che la sua coinquilina Tracy abbia raccontato delle molestie subite agli altri la convincono a richiamare la Astraeus per poter avere un nuovo incontro con il potente producer, durante il quale non solo accetta il ricatto sessuale con un rapporto orale ma soprattutto cede il proprio consenso a fare qualunque cosa necessaria per diventare famosa. Da quel momento in poi si trasformerà inesorabilmente in un'altra o meglio in qualcos'altro.

Incastonato in poco più di un'ora e mezza Starry Eyes rappresenta un allucinato viaggio attraverso l'incubo della ricerca della fama, rappresentato con un linguaggio filmico e narratologico tendente appunto all'onirico che omaggia senza alcun dubbio la filmografia di un maestro quale David Cronenberg, dai suoi inizi body horror fino ai più estetizzanti Cosmopolis (2012) e Maps to the Stars (2014), con il quale condivide inoltre l'ambientazione hollywoodiana e una simile riflessione sull'ossessiva ricerca del successo nel mondo dello star system. La coppia di registi non si tira certamente indietro nel momento in cui si trovano a mostrare la metamorfosi kafkiana di Sarah da esile bellezza giovanile in una bellissima quanto amorale donna e adepta di un culto esoterico formato da tutte quelle persone che, parafrasando uno dei discorsi del produttore di The Silver Scream, agiscono invece di riflettere e discutere e che così arrivano al tanto agognato successo. Dunque nell'allegoria dipinta dalla pellicola in analisi i magnati dell'industria, i burattinai dello star system diventano veri e propri seguaci di una setta satanica sempre in cerca di nuove vergini da plagiare, proprio come già visto in numerosi horror a sfondo demoniaco, come Rosemary's Baby (Roman Polanski, 1968), solo che in questo caso Sarah di virginale ha davvero ben poco: il film mostra con sempre maggior chiarezza nella sua prima metà come la protagonista solamente in superficie si adatti alla vita dei suoi amici aspiranti attori o registi ma che in realtà aspiri a tutt'altra grandezza e senza alcuno scrupolo morale. Si pensi a come accetti di replicare meccanicamente delle crisi nervose davanti a dei perfetti sconosciuti o di spogliarsi dopo pochi istanti di riflessione e alla nausea che gli provoca la vicinanza a quei ragazzi che, secondo lei, non fanno niente di concreto per diventare importanti e realizzare le proprie aspirazioni. In questo caso la coppia di director sembra suggerire che probabilmente non sempre gli attori o le attrici che subiscono forti pressioni da possibili datori di lavoro possono essere considerate semplici vittime e che in fondo molte di queste persone accettano di perseguire la via più breve verso la ribalta, sacrificando volontariamente una parte di se per tramutarsi in delle star. Tramutazione resa visivamente, come accennato precedentemente, senza risparmiare momenti di estremo gore in cui la carne della giovane protagonista sembra andare in cancrena per permetterle di morire in quanto aspirante attricetta e rinascere come diva. Una metamorfosi simile a quella di un insetto ma rappresentata attraverso il bagaglio visuale del Cronenberg di La mosca (The Fly, 1986) e raggiunta solamente tramite il sacrificio letterale di quelle che Sarah ritiene zavorre che ne bloccano l'ascesa, ovvero tutti i suoi amici e persino Tracy, la più affettuosa nei suoi riguardi.

In tempi segnati dalla denuncia di numerosi ricatti, di molestie e persino abusi sessuali veri e propri da parte di uomini di potere verso attrici più o meno note la potenza di un film come Starry Eyes, realizzato, è giusto ricordarlo, quattro anni fa e dunque ben prima dell'esplosione del caso Weinstein, viene amplificata all'inverosimile, specie dal momento in cui riesce con grande efficacia a gettare un'ombra di dubbio su certi assunti di carattere morale che vorrebbero dividere semplicisticamente il mondo tra bianco e nero, vittime e carnefici, lupo e Cappuccetto Rosso. La realtà e spietata, il marcio è ben radicato nella nostra società tutta riflettori e copertine (il riferimento alla locandina del film sulla quale dovrebbe apparire Sarah pare proprio riferirsi a questo) e dunque basta una sola scelta perché un ragazzo possa seguire le orme di un odierno Dorian Gray.

sabato 8 settembre 2018

THE END? L'INFERNO FUORI: L'APOCALISSE ROMANA

A confermare la lenta ma innegabile rinascita del cinema di genere in Italia, o quanto meno un'apertura sempre maggiore del mercato mainstream verso pellicole horror, thriller o cinecomic nostrani, arriva in questa estate The End? L'inferno fuori, opera prima di Daniele Misischia prodotta dai Manetti Bros, strenui difensori della cinematografia di genere italiana fin dagli anni '90, probabilmente il periodo più buio per questo tipo di produzioni. Certamente il solo fatto di essere stato distribuito in sala costituisce un motivo di grande orgoglio per un regista esordiente come il pupillo dei fratelli autori di Ammore e malavita (2017) ma a mio avviso la ricezione sia da parte del pubblico che dalla critica si sta rivelando fin troppo severa verso questo film, specie se confrontata con le lodi sciorinate nei confronti di tanti prodotti indipendenti anglofoni, spesso distribuiti da Netflix, sicuramente notevoli ma quasi mai superiori rispetto al film in analisi.

Il primo lungometraggio diretto da Misischia ruota completamente attorno a Claudio (Alessandro Roja), un giovane e altezzoso manager alle prese con un'importante giornata di lavoro nella Roma affascinante e caotica al tempo stesso che noi italiani conosciamo fin troppo bene. Dopo aver dimostrato il proprio carattere egoista e sferzante con delle sfuriate verso il proprio autista, la sua ex amante e la moglie (alla quale presta la voce Carolina Crescentini) il protagonista resta bloccato in ascensore. Un imprevisto che si rivelerà una fonte di salvezza per l'uomo nel momento in cui la capitale viene falcidiata da un'epidemia che trasforma uomini e donne in feroci essere antropofagi.

Esattamente come nel caso dei suoi mentori è impossibile non riconoscere all'autore di The End? L'inferno fuori una conoscenza non solo enciclopedica dell'horror e in particolare del filone zombie ma anche una consapevolezza profonda dei topoi dello stesso e di quei meccanismi narrativi, formali e strutturali che lo caratterizzano. L'apocalisse messa in scena dal giovane cineasta recupera dal pioniere dello zombie movie George Romero il ricorso a una sola location e la claustrofobia provocata dall'assedio al quale viene costretto il protagonista eppure è evidente come le creature della pellicola siano ben più simili ai famelici e scattanti infetti visti nei più recenti 28 giorni dopo (28 Days Later, Danny Boyle, 2002) e L'alba dei morti viventi (Dawn of the Dead, Zack Snyder, 2004). Sarebbe possibile addirittura rintracciare degli echi provenienti da pellicole quali Buried (Rodrigo Cortés, 2010) o l'italiano Mine (Fabio Guaglione e Fabio Resinaro, 2016) nella scelta di mettere al centro della narrazione il solo protagonista impossibilitato a lasciare un luogo circoscritto a pochi metri quadrati, invischiato suo malgrado in una situazione che lo costringerà non solo a lottare per la sopravvivenza ma anche a riflettere sul proprio modo di agire e dunque a crescere da un punto di vista morale. Possiamo dunque liquidare il lungometraggio come un buon remix di successi del passato più o meno recenti in ambito horror e thriller? Non credo, specie se consideriamo fattori tutt'altro che convenzionali come l'assenza quasi totale di gore, limitata solamente ad alcune uccisioni peraltro corredate da un ottimo utilizzo di effetti speciali artigianali, e l'efficace sovrapposizione tra il punto di vista della macchina da presa e quello di Claudio, le cui numerose soggettive racchiuse tra gli sportelli bloccati dell'ascensore aumentano la tensione e accentuano la natura satirica del film, il quale in maniera piuttosto sottile mette così in mostra il voyeurismo alla base dell'esperienza spettatoriale orrorifica. Proprio come il pubblico che assiste alla proiezione di un horror il superbo yuppie interpretato da Roja non può fare altro che osservare ciò che accade all'esterno dell'ascensore con una certa partecipazione emotiva ma anche con il distacco provocato dalla consapevolezza di non poter essere ucciso in quel locus irraggiungibile persino per gli zombie. A questo sostrato metacinematografico si aggiunge inoltre una possibile lettura sociale originata dall'ambientazione peculiare della pellicola: la scelta di ambientare un'apocalisse zombie a Roma non solo ribalta il cliché delle catastrofi localizzate sempre negli Stati Uniti ma aggiunge quel fascino unico tipico della Città eterna e soprattutto una chiara attualizzazione della critica sociale romeriana alle condizioni del tutto particolare della capitale, simbolo delle contraddizioni nelle quali vessa l'Italia odierna.

Possiamo parlare allora di un capolavoro horror? Probabilmente no ma relegare questo The End? L'inferno fuori all'etichetta di filmetto artigianale (tanto cara alla critica nostrana fin dai tempi di maestri come Mario Bava, Riccardo Freda e Lucio Fulci) mi pare piuttosto ingeneroso e dunque direi che merita non solo un plauso in quanto debutto di grande qualità ma anche come ulteriore tassello nella precedentemente menzionata resurrezione del cinema di genere italiano.

venerdì 7 settembre 2018

GHOST STORIES: TRA ANTOLOGIA E MIND-GAME FILM

Dopo anni passati a recitare e scrivere tra il piccolo e il grande schermo, così come a teatro, il duo di amici di vecchia data Jeremy Dyson e Andy Nyman firmano nel 2017 il loro esordio alla regia di un lungometraggio: l'horror Ghost Stories, distribuito nelle sale inglesi e italiane nel 2018. Grazie anche al traino di attori sulla cresta dell'onda quali il giovane Alex Lawther (The End of the F***ing World, Jonathan Entwistle, 2017) e soprattutto Martin Freeman il film riesce a essere portato sul grande schermo anche nel Bel paese, a differenza della maggior parte delle pellicole di genere britanniche che solitamente vengono commercializzate in home video o su piattaforme on-demand, ottenendo buoni incassi e ottime recensioni, ben più entusiastiche della media dei prodotti dell'orrore hollywoodiani o comunque ad alto budget.

Protagonista del film in analisi è Phillip Goodman (Andy Nyman), ideatore e conduttore di un programma televisivo che smaschera sedicenti medium e tenta dunque di spiegare razionalmente presunti eventi soprannaturali. Una vera vocazione nata dall'estremo zelo religioso del padre, un ebreo praticamente che ne ha negativamente segnato infanzia e adolescenza. Il punto di riferimento dell'uomo nella sua crociata è rappresentato da Charles Cameron, un famoso investigatore del paranormale che negli anni '70 aveva svelato numerosi casi di truffe. Proprio quest'ultimo, creduto morto da anni, chiede un incontro al protagonista attraverso cui gli sottopone tre casi ritenuti da lui autenticamente soprannaturali. Sebbene stranito dall'accaduto Goodman accetta, convinto, a torto, di poter dimostrare come ha sempre fatto che non vi è nulla di misterioso o di trascendente nella vita umana.

L'incipit girato replicando il formato e la qualità visiva delle piccole cineprese da 8 millimetri, le ambientazioni e l'uso di cartelli dal sapore altrettanto retrò per introdurre ciascuno dei tre casi affidati al protagonista potrebbero far pensare allo spettatore di trovarsi dinanzi all'ennesimo prodotto intriso di quella nostalgia vintage che imperversa negli ultimi anni in tutti i campi artistici e che nel settore audiovisivo ha trovato la sua massima espressione in Stranger Things (Matt e Ross Duffer, 2016-) ma non è il caso di Ghost Stories. Certamente l'esordio alla regia della coppia Dyson-Nyman pesca a piene mani dalla storia dell'horror, sia letterario che cinematografico, ispirandosi in particolare alle atmosfere gotiche tipiche della Hammer e al film antologico portato alla ribalta da Racconti dalla tomba (Tales from the Crypt, Freddie Francis, 1972), a sua volta tratto dall'omonima serie di fumetti edita da EC Comics che ebbe un successo straordinario negli Stati Uniti prima che la lama della censura si abbattesse sulla nona arte oltreoceano, e dunque risulterebbe naturale inserire la pellicola all'interno di quel filone contemporaneo che recupera proprio quel particolare tipo di orrore e del quale possono essere considerati a titolo di esempio The Woman in Black (James Watkins, 2012) e in parte The Conjuring (James Wan, 2013). Potremmo affermare che la stessa sceneggiatura e la messa in scena tentino di suggerire allo spettatore di avere davanti uno spettacolo citazionista nel quale l'appassionato può trovarsi perfettamente a suo agio e persino divertirsi a rintracciare le strizzate d'occhio alle perle del genere, come la soggettiva demoniaca a velocità supersonica presente nel secondo "episodio" che richiama palesemente La casa (Evil Dead, 1981) di Sam Raimi, ma il proseguo, a partire dal terzo episodio, dimostra che in realtà questa iniziale confezione nasconde al suo interno la prima parte del meccanismo tipico del mind-game film, ossia di quei lungometraggi nei quali la narrazione depista volontariamente il pubblico per poi sorprenderlo con un colpo di scena finale che ribalta completamente le premesse del racconto. Proprio come accade in opere quali The Village (M. Night Shyamalan, 2004) o Apri gli occhi (Abre los ojos, Alejandro Amenabar, 1997), tutto ciò che lo spettatore aveva dato per scontato all'interno del narrato viene messo in discussione attraverso una discesa sul piano onirico sempre più potente fino ad arrivare a un finale che sconvolge tutto, sebbene come in ogni film di questo tipo gli indizi sul disvelamento dell'epilogo vengano disseminati per l'intero minutaggio della pellicola, e che dona all'impianto gotico un suo preciso significato espressivo, rintracciabile nella volontà degli autori di indagare il senso di colpa e il confine tra il mondo fenomenico e quello ben più esoterico che nasce dalla mente umana.

Forte di un impianto di scrittura tanto sicuro e contemporaneo Ghost Stories si presenta dunque come un ottimo esordio per i suoi registi, capaci peraltro di sfruttare a pieno le interpretazioni di elevato spessore da parte del cast attorico, specialmente il mefistofelico Freeman, e di imporre una messa in scena molto elegante rispetto ai canoni del cinema di genere attuale, rinunciando all'abuso di camera in spalla ed esplosioni sonore tipico dell'horror del terzo millennio in luogo di carrellate orizzontali, piani sequenza e un grande equilibrio compositivo in ogni inquadratura, spesso prive di commento musicale, proprio come nel miglior cinema gotico anni '60 e '70, a conferma ulteriore della posizione liminare tra passato e presente del film.