martedì 20 giugno 2017

TAKE SHELTER: LA MALATTIA DI UN UOMO COMUNE SINEDDOCHE DI UN MALE GLOBALE

Risale all'ormai lontano 2011 la seconda fatica del talentuoso Jeff Nichols, il pluripremiato Take Shelter. La pellicola venne presentata al Sundance dello stesso anno per poi venire proiettata alla settimana della critica del Festival di Cannes, con tanto di vittoria. A conferma del prestigioso riconoscimento la critica si è dimostrata estremamente favorevole nei suoi confronti, nonostante uno scarso interesse da parte del pubblico.

Le vicende narrate ruotano attorno al semplice operaio dell'Ohio Curtis (Michael Shannon), marito della dolce ma allo stesso tempo determinata Samantha (Jessica Chastain) e padre di Hannah, bambina molto piccola affetta da mutismo, probabilmente non dalla nascita. La loro vita sembra scorrere senza intoppi fino a quando l'uomo non comincia a soffrire di strani incubi, tutti accomunati da una tempesta. Ai sogni iniziano ad aggiungersi anche allucinazioni riguardati sempre il suddetto diluvio, cosa che porta Curtis a credere di essere schizofrenico, proprio come sua madre, e a compromettere i rapporti con le persone care e il proprio lavoro.

Per il film della propria conferma Nichols sceglie coraggiosamente di attingere ad alcuni spunti narrativi di genere (per la precisione appartenenti al thriller psicologico e all'horror) per aumentare la potenza visiva e metaforica di quello che, soprattutto formalmente, è a tutti gli effetti un prodotto prettamente autoriale, nell'accezione cara alla tradizione europea. A confermare questa volontà vi sono le già citate visioni del protagonista, le quali da un lato richiamano un certo immaginario apocalittico tipico dell'horror soprannaturale e si confondono molto spesso con le sequenze prettamente reali, come accade in molti esponenti del thriller psicologico, ma dall'altro lato vengono inserite con grande precisione in un registro formale di assoluta compostezza e precisione. La macchina da presa non diviene mai nervosa ed evita eccessivi movimenti, privilegiando al contrario inquadrature fisse di grande eleganza e la profondità di campo, soluzioni che, coadiuvate da un montaggio tutt'altro che rapido, fanno sì che il lungometraggio ripudi le rigide norme dei generi.

A tanta cura formale il cineasta e sceneggiatore statunitense unisce un'attenzione notevole in fase di scrittura per i personaggi: persone comuni, quasi dei simboli della famiglia qualunque americana, il cui equilibrio viene scosso da ignote minacce esterne, il cui carattere straordinario le fa sentire ancora più inadeguate al momento di dover reagire. La difficoltà appena descritta non può non divenire per lo spettatore una metafora o meglio una sineddoche di situazioni che riguardano fette del genere umano ben maggiori, ossia la paura dei paesi occidentali nei confronti delle minacce terroristiche. Sicuramente l'autore (come ha confermato di persona in maniera velata) aveva all'epoca in mente il ricordo ancora vivo nella propria nazione della ferita subita l'11 settembre del 2001, un fulmine a ciel sereno che, come le tempeste immaginate da Curtis, spazzò via tutte le sicurezze di un popolo intero e non solo. Per lo spettatore del 2017 diviene, però, lampante quanto la sineddoche possa calzare a pennello anche con lo scompiglio generato in Europa dagli attentati sempre più frequenti causati dagli esponenti dell'Isis, soprattutto a causa del senso di impotenza e di completo smarrimento vissuto dal cittadino medio di nazioni come la nostra Italia.

Al di là di ogni riferimento alla cosiddetta "grande storia" resta di grande pregio la costruzione psicologica dei protagonisti in sé, grazie anche a un lavoro straordinario degli interpreti, tra i quali spicca la prova di Michael Shannon, che rifiuta le solite esagerazione cinetiche attribuite alla maggior parte dei personaggi affetti da malattie mentali optando per una caratterizzazione fatta soprattutto di sguardi pregni di significanti e una stasi del corpo che rimanda al blocco provocato dalla paura.
Tirando le somme finali non posso non consigliare a tutti voi almeno una visione di Take Shelter, un film di rara bellezza estetica sommata ad una altrettanto rara sensibilità nei confronti dell'uomo comune, figura troppo spesso screditata di questi tempi e a queste latitudini.

martedì 13 giugno 2017

THE WITCH: TRA CINEMA MODERNO E HORROR CONTEMPORANEO

Presentato per la prima volta all'edizione 2015 del Sundance Film Festival, The Witch rappresenta il lungometraggio d'esordio per Robert Eggers, autore anche del soggetto e della sceneggiatura. In seguito al successo riscosso ai festival il film ha ricevuto una distribuzione mondiale l'anno successivo, ottenendo un ottimo riscontro anche commerciale, tanto da farlo diventare immediatamente il fenomeno horror dell'anno. Scopriamo adesso se tanto clamore sia quanto meno giustificato dalla qualità del prodotto.

Ambientata nel New England del diciassettesimo secolo la pellicola segue le vicende di una famiglia puritana che, a causa delle convinzioni religiose fondamentaliste del pater familias, si ritrova a vivere isolata da tutti nei pressi di una foresta. Il nucleo è composto dai due genitori e cinque figli, il più piccolo dei quali (appena nato) svanisce misteriosamente nella sequenza iniziale. In seguito a questo doloroso evento tra i protagonisti comincia a serpeggiare un crescente sospetto nei confronti dell'altro, mentre realtà e superstizione si mescolano rendendo indistinguibili i propri confini.

Sono principalmente due gli elementi che stupiscono dai primi minuti e che distinguono The Witch da gran parte del genere horror attuale: l'ambientazione storica ricreata con una ricerca filologica meticolosissima (si pensi al linguaggio utilizzato dai personaggi o ai loro costumi) e il ritmo tutt'altro che frenetico, ben lontano dal montaggio da videoclip a cui il cinema mainstream a stelle e strisce ci ha abituati. Con il trascorrere della pellicola in particolare spicca proprio la regia di Eggers, scandita da lunghe inquadrature fisse dal forte richiamo alla pittura fiamminga secentesca esaltate dalla fotografia basata sulla luce naturale ad opera di Jarin Blaschke. Sequenze come quelle ambientate in interni al calare del sole, con la sola luce delle candele come fonte di luce, non possono non richiamare la pittura di Caravaggio, proprio come decenni fa Terence Malick  (con la collaborazione del direttore della fotografia Nestor Almendros) nel  mai troppo lodato I giorni del cielo (Days of Heaven, 1978).

Tanta eleganza visiva non diviene mai puro esercizio di stile grazie a una sceneggiatura votata all'ambiguità morale e percettiva, una vera e propria cifra stilistica distintiva dell'intero film. Centellinando i momenti realmente horror il giovane cineasta americano riesce a creare un'atmosfera opprimente e cupa nella quale far esplodere, durante la seconda metà, tutto il rancore e la diffidenze che si è venuta a creare nella religiosissima famiglia rappresentata. Religione che si trova perennemente al centro della narrazione in quanto causa dell'isolamento dei personaggi rispetto al resto del mondo e filtro attraverso la quale ogni vicenda viene vissuta, specie quelle maggiormente dolorose. Proprio a causa di questo potente velo in grado di deformare la realtà diviene difficile affrontare da un punto di vista prettamente empirico ciò che accade nelle sequenza finali: non intendo addentrarmi in spoiler dannosi anche perché ciò che risulta davvero degno di nota sono l'enorme mole di simbolismo creata dai piani lunghi del regista e la profonda ambiguità di tutto ciò a cui lo spettatore assiste. La mancanza di certezze evidenti ha sempre costituito il vero e proprio distinguo del cinema moderno rispetto a quello classico, insieme alla priorità dell'immagine rispetto alla narrazione e alla negazione poetica delle regole della grammatica filmica, tutte caratteristiche rintracciabili nel film in analisi, come se il giovane autore avesse utilizzato l'impalcatura del genere (in questo caso horror) solamente per poterne sfruttare l'enorme mole di immaginazione e allargare infine il grado di ambiguità persino alle ambizioni del film stesso.

In conclusione The Witch può essere considerato uno dei migliori lungometraggi d'esordio degli ultimi anni, un esempio di come ormai la vecchia dialettica tra cinema di genere d'autore sia superata e soprattutto di quanto il cinema possa ancora essere appetibile per il grande pubblico senza perdere la ricercatezza del linguaggio.