mercoledì 28 settembre 2016

CRIMSON PEAK: IL PESO DEL PASSATO

Nel 2015 il celebre cineasta Guillermo del Toro, accantonando per il momento le sue produzioni più marcatamente hollywoodiane come i due Hellboy (2004; 2008) e Pacific Rim (2013), dirige e co-scrive Crimson Peak, un ritorno al suo lato maggiormente "autoriale" (a mio parere le barriere tra cinema autoriale e commerciale oggi sono labili come non mai, basti pensare ai lavori dal grande successo economico di autori in tutto e per tutto come Christopher Nolan, James Cameron o lo stesso del Toro)  mostrato con Il labirinto del fauno (El labirinto del fauno) e La spina del diavolo (El espinazo del diablo; 2001). In realtà l'ultima fatica del regista messicano presenta punti in comune con entrambi i rami della sua filmografia ma al contempo se ne distacca per intraprendere un percorso altro.

Durante le quasi due ore di durata della pellicola lo spettatore segue le vicende, ambientate nei decenni finali del diciannovesimo secolo, di Edith Cushing (un cognome denso di significati), una giovane aspirante scrittrice e figlia di un ricco uomo d'affari (interpretata da Mia Wasikowska) con il dono di poter vedere i fantasmi. Un giorno incontra il misterioso quanto affascinante baronetto Sir Thomas Sharpe (un Tom Hiddleston perfettamente calato nel ruolo), il quale prima fallisce nel convincere il padre della ragazza a finanziare un suo progetto ma in seguito riesce a rubare il cuore della stessa. Contrario alla relazione il genitore della protagonista scopre, grazie a un investigatore, dei torbidi segreti che riguardano il passato del nobile e della sua inseparabile sorella (la sempre impeccabile Jessica Chastain) e quindi decide di pagarli per farli tornare in Inghilterra dopo aver spezzato il cuore di Edith. Thomas accetta controvoglia ma in seguito all'uccisione del suo detrattore si nega la partenza e racconta tutto alla giovane, la quale lo perdona e lo sposa. In seguito al matrimonio i novelli sposi vanno a vivere nelle proprietà inglesi del baronetto, che nascondono però segreti agghiaccianti.
Fin dalle prime inquadrature risulta palese la volontà dell'autore di Blade 2 (2002) di abbandonare sia il linguaggio del kolossal contemporaneo, sia quello dei film horror a basso budget che tanto successo stanno incontrando negli ultimi anni (si pensi alle decine di mockumentary che ogni anno arrivano in sala o in dvd) in favore di un ritorno al genere dell'orrore gotico, il cui attore feticcio fu Peter Cushing (ecco la citazione a cui mi riferivo in precedenza) e che venne portato all'apice dai lavori di Mario Bava (La maschera del demonio del 1960; I tre volti della paura del 1963) e Roger Corman (House of Usher del 1960; Tales of Terror del 1962). Oltre a questo momento storico del cinema di genere del Toro riprende i colori forti e la violenza grafica di Dario Argento (a sua volta in parte debitore di Bava) ma a anche tanti spunti lovecraftiani (un topos nella filmografia del regista messicano).

Le numerosi citazioni presenti in Crimson Peak non vogliono creare nessun gioco cinefilo con lo spettatore, o almeno solo in minima parte, come nelle pellicole post-moderne tarantiniane ma hanno uno scopo poetico bene preciso: ricordare l'importanza del passato nella vita umana, così grande da diventare a un certo punto persino una zavorra, un fantasma da cui non si riesce a scappare. Ecco la parola chiave del film, fantasma. La prima cosa che lo spettatore apprende su Edith è la sua capacità di vedere gli spettri, il periodo messo in scena è lo stesso in cui raggiunsero l'apice il romanzo gotico, lo spiritismo e l'occultismo, persino uno dei personaggi più importanti e moralmente positivi del lungometraggio (il dottore interpretato da Charlie Hunnam) si scopre essere appassionato di fotografia spiritica. A questi riferimenti espliciti si aggiunge una scenografia incredibilmente adatta e soprattutto un castello, quello di proprietà dei fratelli Sharpe, che si rivela essere esso stesso un fantasma vero e proprio.

La protagonista, nel momento in cui parla del proprio romanzo, offre una sua personale chiave di lettura sulla natura degli spettri, li definisce metafore ed è questo che sono nel film, un simbolo di tutto ciò che appartiene al passato, come conferma nel finale con il suo monologo fuori campo. Solo una volta compresa questa verità la pellicola rivela tutta la coerenza immaginifica che molti critici non hanno individuato, poiché la scelta di Guillermo del Toro di citare epoche ormai spente sia dal punto di vista narrativo che stilistico servono unicamente a rafforzare la poetica dell'opera, il cui tema primario risulta essere la potenza del passato, che però l'uomo deve essere in grado di arginare per non farsi incatenare dal passato stesso, altrimenti perderebbe la propria natura umana per diventare un mostro, come la Lucille impersonata da Jessica Chastain.
Spero che questa breve analisi possa accendere in voi interessanti riflessioni e magari riaccendere qualche riflettore su un film a mio avviso molto sottovalutato.

venerdì 23 settembre 2016

UNFRIENDED: L'ERA DEL CYBER-EGOISMO

Presentato con grandi risultati al Fantasia Festival del 2014 (ancora con il titolo provvisorio di Cybernatural) ma arrivato nelle sale l'anno successivo, Unfriended è un atipico film horror diretto da Levan Gabriadze e prodotto dal cineasta kazako Timur Bekmambetov, autore di prodotti celebri come I guardiani della notte (Nochoy dozor; 2004) e Wanted (2008). La pellicola in questione è rapidamente divenuta un enorme successo economico, soprattutto a fronte del budget di produzione esiguo, ma ha anche ricevuto una buona accoglienza critica, specie per gli standard del cinema dell'orrore.

La trama riprende molti topoi dei cosiddetti teen horror che tanta fortuna ebbero verso la fine degli anni 90 (purtroppo tutti abbiamo visto I Know What You Did Last Summer diretto da Jim Gillespie nel 1997 e i suoi "agghiaccianti" seguiti) aggiornandoli però alla contemporaneità, un'era dominata dal web 2.0, i Macbook e soprattutto il cyberbullismo. La protagonista attraverso i cui occhi si svolge la narrazione è Blair (Shelley Hennig), la quale inizia una conversazione su Skype attraverso il suo portatile con il fidanzato Mitch per poi allargarla ad alcuni amici: Jess, la migliore amica, Adam, il (passatemi il termine ma è un ruolo archetipico del genere) "cazzone" figlio di papà del gruppo, Ken, il nerd esperto di informatica, e Val, la bella ma anche la più spietata con il prossimo. La loro conversazione è interrotta da un utente sconosciuto che vi si inserisce e il cui profilo sembra essere quello di Laura Barns, la ragazza suicida del video che si vede all'inizio del film e che è stata vittima di pesantissimi atti di cyberbullismo proprio a causa del suddetto video caricato su Youtube. Lo sconosciuto inizialmente sembrerebbe un troll (qualcuno che si diverte a provocare le persone in rete) che è riuscito a inserirsi nella chiamata del gruppo e cerca di far litigare i suoi componenti ma quando Val si suicida in diretta webcam allora i ragazzi si rendono conto di trovarsi al cospetto di una vendetta soprannaturale.

Se, come detto in precedenza, lo schema narrativo di Unfriended è tutt'altro che originale a renderlo una novità nel panorama cinematografico è la forma, in quanto la pellicola si rivela essere uno pseudo piano sequenza in soggettiva (la macchina da presa riprende ciò che vede Blair) girato in tempo reale di una videochiamata. Ciò che la mdp inquadra è soltanto (ad eccezione del concitato finale) lo schermo del pc della ragazza e quindi il regista decide di utilizzare, con una notevole efficacia, i nuovi mezzi di comunicazione per poter traghettare sullo schermo una narrazione priva di lacune; a tal fine utilizza i video su Youtube per creare i flashback, le playlist di Spotify come colonna musica e le webcam per poter inquadrare tutti i personaggi senza ricorrere al montaggio. L'effetto finale dello stile scelto da Gabriadze si rivela rispettoso della tradizione del racconto filmico classico ma al contempo pregna della tecnologia attuale e delle nuove forme di intrattenimento (si pensi alle web series o ai video dei cosiddetti youtubers), creando così una sorta di mockumentary 2.0.
Molti spettatori potrebbero però chiedersi se in fondo il film non sia soltanto un esperimento formale privo di sostanza e molti sono stati anche i critici che hanno lamentato una tale mancanza. Non a mio modesto parere. Probabilmente per comprendere il messaggio veicolato dal lungometraggio in analisi è necessario vivere in prima persona l'ambiente culturale in cui agiscono i protagonisti e quindi per una questione o anagrafica o di altezzosità snob di certa classe "intellettuale" molti riferimenti e situazioni tendono a sfuggire. Il fraintendimenti principale che ha colpito Unfriended credo che sia la questione del bullismo: senza dubbio è la molla che fa scattare l'intera vicenda e a livello superficiale permea l'intero lungometraggio, il quale però non è assolutamente un insipido saggio sull'argomento come in tanti (ribadisco soprattutto chi anagraficamente si trova troppo lontano dall'ambiente rappresentato) hanno pensato. Il vero tema che permea i personaggi, le azioni, insomma l'ecosistema intero mostrato sullo schermo è l'egoismo, la mancanza di rispetto nei confronti della dignità altrui a fronte dell'esasperata cura del proprio interesse personale. Uno a uno, specie nel momento in cui inizia il gioco "io non ho mai", tutti i personaggi rivelano le menzogne che tengono in piedi i loro rapporti interpersonali, le azioni poco edificanti che hanno compiuto alle spalle degli "amici" per un proprio tornaconto, talvolta anche misero. Su tutti in questo girone infernale (in realtà la vita di tutti i giorni) spicca proprio Blair, la quale inizialmente riveste il ruolo di protagonista vergine da slasher (sembrerebbe esserlo anche letteralmente e inoltre Mitch insiste sul fatto che ella non menta mai) ma con l'avanzare del minutaggio si rivela essere fedifraga, menzognera e persino l'artefice materiale del video che ha portato la sua ex amica Laura al suicidio (per non parlare delle decisioni volontarie di provocare la morte sia di Adam che del suo ragazzo. Quali certezza restano all'uomo contemporaneo se persino la sacralità della vergine lascia spazio all'abilità nel manipolare il prossimo?

In conclusione Unfriended pur con le sue ingenuità e senza aspirazioni autoriali di sorta pone numerosi quesiti e genera riflessioni non indifferenti nello spettatore, sul piano formale con il suo utilizzo delle attuali tecnologie informatiche e comunicative, sul piano narrativo con un ammodernamento del genere teen horror e persino sul piano etico.
Fatemi sapere cosa ne pensate.

mercoledì 21 settembre 2016

LOST IN TRANSLATION: BENVENUTI NELL'ERA DELL'INCOMPRENSIONE

Reduce dall'ottimo riscontro critico ricevuto dall'opera prima The Virgin Suicides (1999) la figlia d'arte Sofia Coppola scrive, dirige e produce Lost In Translation, arrivato nelle sale nel 2003. La seconda prova della cineasta si rivela un successo strepitoso in tutti gli ambiti grazie a incassi superiori ai 100 milioni di dollari, recensioni entusiaste e addirittura la vittoria di numerosi premi, tra cui persino l'Oscar per la miglior sceneggiatura originale e ben tre Golden Globe.

La trama della pellicola è molto semplice e scevra di veri e propri avvenimenti. Protagonisti sono due americani che si ritrovano per motivi diversi per alcuni giorni a Tokyo: Bob Harris (un Bill Murray che, complice una certa dose di somiglianza con il personaggio interpretato, regala una performance straordinaria) è un attore di mezza età che si ricicla pubblicizzando una marca di whisky, mentre Charlotte (una Scarlett Johansson agli esordi eppure assolutamente adatta al ruolo) è una ragazza laureata in filosofia e sposata da due anni con un fotografo, preso più dal suo lavoro che dalla moglie, che ha ricevuto proposte di lavoro in Giappone. Due persone agli antipodi vengono accomunate dalla stessa crisi esistenziale e dallo stesso hotel, tanto da farli avvicinare nonostante il pochissimo tempo trascorso insieme.
Con una sinossi simile Lost In Translation potrebbe apparire una tipica commedia romantica hollywoodiana ma basta la prima inquadratura a catapultare lo spettatore in un prodotto di ben altra levatura; sia la regia che la penna di Sofia Coppola sono subito riconoscibili per intimità ed eleganza nel tratteggiare un amore completamente diverso da quello del cinema classico. La più grossolana ma non per questo meno importante cesura nei confronti della tradizione è l'assenza dell'immancabile scena di sesso tra i due innamorati, che di solito arriva a suggellare il sentimento sviluppatosi fra di essi: Bob e Charlotte non solo non hanno mai rapporti fisici (al massimo si scambiano un commovente bacio nel finale) ma limitano al massimo qualsiasi contatto fisico stando al contempo sempre molto vicini l'uno all'altro.

Perché i personaggi principali sentono questo grande bisogno di vicinanza priva di sessualità? Il motivo risiede in quella sensazione che pervade tutto il film e che ho citato nel titolo della analisi in atto, ovvero l'incomprensione, avvertita a livelli diversi ma aventi la stessa importanza. Il primo livello risulta essere chiaramente di tipo linguistico/ambientale visto che nessuno dei due parla o capisce bene la lingua del paese in cui si trovano e si sentono spaesati da una cultura che non conoscono, aliena a livelli stratosferici. La Tokyo immortalata dalla figlia di Francis Ford Coppola appare una giungla urbana sempre in movimento, piena di colori abbaglianti e popolata di figure estranee e dai comportamenti imprevedibili. Charlotte sembra all'apparenza districarsi con una certa disinvoltura in questa realtà (è sempre lei a far conoscere nuovi posti e nuove persone all'amico interpretato da Bill Murray) eppure non riesce mai a trovarsi a suo agio, appena può cerca sempre l'evasione e non riesce a comunicare davvero con nessuno, soprattutto con suo marito. Bob d'altro canto arriva nel paese nipponico controvoglia (emblematica la sequenza in cui dice di trovarsi a far una pubblicità per due milioni di dollari quando avrebbe potuto essere su un qualche set a recitare) e si ritrova circondato da persone che o non parlano la sua lingua oppure lo fanno in modo sbrigativo e claudicante in una città agli antipodi del suo carattere pacato, quasi citazionista dei divi del cinema classico americano (non possono essere casuali i numerosi riferimenti a grandi star quando cerca l'espressione giusta per il fotografo della pubblicità). La frenesia e la freddezza della capitale giapponese non fanno che aumentare il senso di solitudine provato dai protagonisti, i quali per questo si rifugiano sempre nella calma intima dell'hotel, veicolando così una non troppo velata critica allo stile di vita asettico del mondo contemporaneo.

Tutto ciò porta finalmente a riflettere sul livello di incomprensione che maggiormente accomuna Bob e Charlotte, ossia quello più legato alla sfera sentimentale ed emozionale. I due americani, nonostante la differenza d'eta e di stili di vita, si trovano in una profonda crisi interiore dovuta all'impossibilità di realizzare le proprie aspirazioni e soprattutto di comunicare i propri stati d'animo alle persone che dovrebbero essere più vicine, i rispettivi coniugi. Questa condizione simile viene quasi fiutata dai due nel momento in cui si trovano nello stesso luogo e li porta ad avvicinarsi delicatamente, quasi come se fossero due adolescenti alle prese con tutti i timori tipici del primo amore. Proprio come tra due quattordicenni il sentimento, inizialmente nato come amicizia, si rafforza in un lasso di tempo di pochi giorni fino a diventare amore ma sempre in maniera delicata, da un lato per il desiderio di mantenere una certa rispettabilità (in fondo sia Bob che Charlotte sono sposati) ma dall'altro anche per la paura ad aprirsi con gli altri maturata appunto dalla freddezza mostratagli dai compagni. A rendere veramente credibile il flebile crescendo di un amore così anomalo è, oltre alla recitazione ben al di sopra della media dei due attori protagonisti, la regia della Coppola, leggiadra quasi ai limiti del glaciale ma anche abbagliante quando ritrae le luci sfolgoranti della Tokyo odierna.

A concludere la parabola emotiva di Lost In Translation e anche questa riflessione si trova inevitabilmente il mistero legato a ciò che Bill Murray bisbiglia a Scarlett Johansson nel loro ultimo incontro e che porta i due a sorridere nonostante la separazione imminente; probabilmente l'uomo, oltre a confessare il suo amore per la ragazza, le promette un futuro prossimo insieme ma questa è soltanto un'ipotesi, persino la cineasta è rimasta allo scuro delle parole pronunciate sottovoce in questa sequenza!
Siate liberi di condividere qui le vostre ipotesi sul finale e le eventuali riflessioni scaturite da questo post.