martedì 22 agosto 2023

JENNIFER'S BODY: UN CULT GENERAZIONALE IN ANTICIPO DI UN DECENNIO

Alla definizione di cult movie spesso corrisponde un prodotto in grado di attirare un seguito crescente soltanto a distanza di anni dalla sua distribuzione ufficiale, com'è accaduto con Blade Runner (Ridley Scott, 1982) o Fight Club (David Fincher, 1999). A questa categoria non può che appartenere anche Jennifer's Body, diretto da Karyn Kusama nel 2009. Nonostante la sceneggiatura rechi la firma di Diablo Cody, reduce dall'enorme successo di Juno (Jason Reitman, 2007), per il quale aveva vinto anche un Academy Award, e la presenza di una star in grande ascesa come Megan Fox, il film incassa molto meno di quanto preventivato e la critica in larga parte lo deride apertamente, sottolineandone proprio presunti difetti macroscopici di scrittura. Con l'avvento del movimento #MeToo e una serie di ottimi riscontri da parte dei successivi lavori della regista americana, la pellicola è stata ampiamente rivalutata. Scopriamo se con merito.


Protagoniste del lungometraggio sono le teenager Jennifer (Megan Fox) e Needy (Amanda Seyfried), amiche da tutta la vita nonostante la prima sia la ragazza più popolare del liceo, mentre la seconda sia molto più introversa e meno appariscente nel look. Una sera mentre assistono al concerto dei Low Shoulder, band indie estremamente ambiziosa, il locale in cui si trovano prende fuoco e Jen, estremamente scossa dall'accaduto, viene portata via dal leader del gruppo (Adam Brody) per sacrificarla a Satana, così da ottenere grande fama in pochissimo tempo. La ragazza sopravvive alle pugnalate delle rockstar ma da quel momento inizierà a nutrirsi delle interiora di numerosi compagni di scuola, tutti maschi.


Per quanto interessante possa essere analizzare i motivi che hanno decretato il fallimento nel 2009 del film, Jennifer's Body è così ricco di spunti di riflessione da un punto di vista prettamente cinematografico per cui mi soffermerò solamente sul testo. Fin dal titolo risulta evidente quanto il corpo femminile sia al centro del racconto, non come banale mezzo di exploitation per irretire i pruriginosi istinti del pubblico maschile, bensì per attaccare proprio questa attitudine a oggettificare le donne, rendendole semplici involucri utili solamente a soddisfare i suddetti bisogni. Per poter mettere in scena ciò che prova qualsiasi ragazza nel momento in cui scopre di essere costantemente nel mirino delle attenzioni sessuali degli uomini, Kusama ricorre agli strumenti offerti dal cinema di genere, dando vita a un ibrido tra due filoni dell'horror particolarmente attenti alla questione femminile quali slasher e rape and revenge. La scelta di chiamare il personaggio interpretato da Megan Fox, attrice simbolo della sessualizzazione fin dalla sua partecipazione a Transformers (Michael Bay, 2007), Jennifer non può non portare alla mente un classico del r&r quale I Spit on your Grave (Non violentate Jennifer, Meir Zarchi, 1978), così come lo stupro da lei subito e la conseguente trasformazione in una forza vendicatrice nei confronti dell'universo maschile, mentre l'ambientazione liceale pertiene maggiormente agli epigoni di Halloween - La notte delle streghe (Halloween, John Carpenter, 1978). Da quest'ultimo l'autrice di Girlfight (2000) riprende anche l'importanza del tema della difficile transizione dall'infanzia all'età adulta dell'adolescenza, i cui traumi vengono simboleggiati dalla lotta per la sopravvivenza causata da un omicida seriale della protagonista Needy, costretta a fare i conti però non con un killer mascherato, bensì la propria migliore amica. Quest'ultima, difatti, a seguito della violenza subita si trasforma in una spietata predatrice che rappresenta perfettamente da un lato l'incubo freudiano di qualunque maschio etero, dall'altro il la materializzazione di tutta l'aggressività fisica e psicologica insita nel sessismo di cui si nutre la società patriarcale tradizionale del mondo occidentale. Non a caso l'arma utilizzata dalla giovane dal volto di Amanda Seyfried per affrontare la ragazza con la quale è cresciuta e per cui prova un evidente tensione sentimentale e sessuale è proprio un coltello, ossia quell'oggetto fallico centrale per ogni slasher nel riflettere la matrice femminista del filone filmico, come evidenziato negli studi seminali di Carol Clover.


All'esplorazione tramite l'horror delle difficoltà quotidiane delle donne nel nostro mondo ancora eccessivamente maschilista, Kusama e Cody abbinano anche un accuratissimo, grazie anche a una vena ironica davvero sprezzante, spaccato dell'ambiente teen dei primi anni Duemila, con particolare cura nel ricostruire vezzi e peculiarità delle subculture giovanili quali goth, indie ed emo. Dalla scelta dei brani della OST fino alla suddivisione i gruppi sociali dei personaggi, con tanto di battute caustiche verso l'arretratezza culturale della periferia americana tipica, Jennifer's Body costituisce un'opera manifesto di un'epoca, di una generazione e di un intero universo giovanilistico e non solo, con un linguaggio cinematografico personale e ancora oggi fresco, motivi per cui è comprensibile come sia riuscito a diventare, seppur con colpevole ritardo, un cult, importantissimo perché anche chi non ha mai vissuto il 2009 possa riflettere sulle iniquità di genere.

sabato 19 agosto 2023

EO: IL BUON SELVAGGIO AI TEMPI DEL CINEMA DIGITALE

In mezzo a professionisti esemplari e prolifici dell'industria hollywoodiana e assidui frequentatori dei festival più prestigiosi del panorama mondiale vi sono ancora oggi figure anche biograficamente più singolari, che potrebbero ispirare essi stessi la fantasia di qualche collega regista o romanziere, come ad esempio Terrence Malick. Oggi però mi riferisco al polacco Jerzy Skolimowski, attivo dietro la macchina da ormai più di cinquant'anni ma anche davanti alla stessa, persino nel blockbuster per eccellenza The Avengers (Joss Whedon, 2012), o con pennelli e tavolozza. Un artista a trecentosessanta gradi, che, nonostante l'avanzare dell'età, dimostra ancora una vivacità intellettuale invidiabile, confermata dall'uscita nel 2022 del suo ultimo film, EO, presentato in concorso a Cannes e capace di ottenere la candidatura al miglior film internazionale all'ultima edizione degli Academy Awards.


Protagonista assoluto della pellicola è un asino, dal quale prende il titolo l'opera, che in seguito alla chiusura del circo nel quale si esibisce con Kasandra (Sandra Drzymalska) è costretto a un lungo peregrinare in giro per l'Europa, dalla natia Polonia fino all'Italia. Nel corso di questo errare incontra una moltitudine di esseri umani, alcuni estremamente gentili con lui, al pari della sua vecchia padrona, mentre altri ne mettono persino a repentaglio la vita, come alcuni ultras che lo picchiano per aver distratto il rigorista della squadra che supportano.


Fin dalla breve sinossi appena esposta risulta evidente l'ispirazione, apertamente confermata e rivendicata dal suo autore, di EO a una pietra miliare della settima arte quale Au hasard Balthazar (Robert Bresson, 1966), con il quale condivide il punto di vista di un asino e persino alcune svolte del racconto. Naturalmente girare un film con un modello tanto prestigioso aumenta anche i rischi, come in fondo dimostra l'accoglienza tutt'altro che straordinaria riservatagli dalla critica nostrana, eppure Skolimowski, che conosce come pochi il cinema bressoniano, rende proprio un soggetto ormai non più così originale, soprattutto dal punto di vista formale. Rielaborando il modernismo e il rigore estetico del suo maestro, il cineasta polacco porta avanti il proprio percorso di scoperta e adattamento dei linguaggi tipici del digitale, spesso ai confini della video arte, a un background dalla matrice ancorata nelle nouvelle vague europee degli anni Sessanta già visibile nel precedente 11 Minut (2015). Scegliendo di adottare pienamente il punto di vista del protagonista sulla narrazione, la macchina da presa rifiuta le classiche angolazioni ad altezza umana o i campi lunghi da narratore onnisciente, facendo sì che il profilmico sia costantemente filtrato dalla soggettività dell'asino, motivo per cui viene del tutto abbandonata ogni velleità di pura oggettività propugnata dal decoupage americano. Da questa totale connivenza tra mdp e oggi e interiorità di EO scaturisce in primis una potenza emotiva non così preventivabile per un lungometraggio avente come personaggio principale un animale privo di parola, che invece sovrasta di gran lunga per quanto concerne l'empatia dello spettatore uomini e donne inquadrati, che spesso risultano soltanto meri figuranti, alla stregua di quei paesaggi che si susseguono rapidi dal finestrino di un viaggiatore. Viaggiatore proprio come lo stesso asinello, che come un viandante di teutonica matrice culturale, scopre tramite incontri più o meno fugaci una grande varietà di umani, che però, al netto di alcune eccezioni, si rivelano quanto mai crudeli nei confronti degli animali; talvolta nei confronti del protagonista, in alcuni casi invece con altri fratelli del mondo animale. 


Per mettere in luce proprio la diversità dell'ex circense rispetto all'egoismo e perfino al sadismo umano Skolimowski adopera un registro espressivo che distorce sovente il classicismo, come ad esempio le soggettive tinte di rosso che sottolineano la dimensione espressiva di quanto inquadrato, poiché EO, a differenza di quanto pensano ancora oggi molti, prova eccome dei sentimenti, è capace di ricordare ed è talmente emotivo da arrivare persino a vendicare delle mucche destinate al macello provocando la morte di un perfido allevatore. Pur ricalcando a grandi linee il cammino cristologico al centro della pellicola diretta da Bresson, l'autore di La ragazza del bagno pubblico (Deep End, Jerzy Skolimowski, 1970) vi aggiunge caratteri tipici della propria poetica, rendendo maggiormente sfumato il giudizio etico sui personaggi, facendo dell'asino un buon selvaggio di rousseauniana memoria aggiornato però al relativismo tipico del mondo post-11 settembre, dove nessuno è mai totalmente innocente e puramente buono; eppure se qualcuno vi si avvicina, scegliendo addirittura la via del martirio pur di abbandonare un'esistenza tanto sofferta e votata al male, lo fa sicuramente di più un outsider come un animale da soma.