sabato 19 agosto 2023

EO: IL BUON SELVAGGIO AI TEMPI DEL CINEMA DIGITALE

In mezzo a professionisti esemplari e prolifici dell'industria hollywoodiana e assidui frequentatori dei festival più prestigiosi del panorama mondiale vi sono ancora oggi figure anche biograficamente più singolari, che potrebbero ispirare essi stessi la fantasia di qualche collega regista o romanziere, come ad esempio Terrence Malick. Oggi però mi riferisco al polacco Jerzy Skolimowski, attivo dietro la macchina da ormai più di cinquant'anni ma anche davanti alla stessa, persino nel blockbuster per eccellenza The Avengers (Joss Whedon, 2012), o con pennelli e tavolozza. Un artista a trecentosessanta gradi, che, nonostante l'avanzare dell'età, dimostra ancora una vivacità intellettuale invidiabile, confermata dall'uscita nel 2022 del suo ultimo film, EO, presentato in concorso a Cannes e capace di ottenere la candidatura al miglior film internazionale all'ultima edizione degli Academy Awards.


Protagonista assoluto della pellicola è un asino, dal quale prende il titolo l'opera, che in seguito alla chiusura del circo nel quale si esibisce con Kasandra (Sandra Drzymalska) è costretto a un lungo peregrinare in giro per l'Europa, dalla natia Polonia fino all'Italia. Nel corso di questo errare incontra una moltitudine di esseri umani, alcuni estremamente gentili con lui, al pari della sua vecchia padrona, mentre altri ne mettono persino a repentaglio la vita, come alcuni ultras che lo picchiano per aver distratto il rigorista della squadra che supportano.


Fin dalla breve sinossi appena esposta risulta evidente l'ispirazione, apertamente confermata e rivendicata dal suo autore, di EO a una pietra miliare della settima arte quale Au hasard Balthazar (Robert Bresson, 1966), con il quale condivide il punto di vista di un asino e persino alcune svolte del racconto. Naturalmente girare un film con un modello tanto prestigioso aumenta anche i rischi, come in fondo dimostra l'accoglienza tutt'altro che straordinaria riservatagli dalla critica nostrana, eppure Skolimowski, che conosce come pochi il cinema bressoniano, rende proprio un soggetto ormai non più così originale, soprattutto dal punto di vista formale. Rielaborando il modernismo e il rigore estetico del suo maestro, il cineasta polacco porta avanti il proprio percorso di scoperta e adattamento dei linguaggi tipici del digitale, spesso ai confini della video arte, a un background dalla matrice ancorata nelle nouvelle vague europee degli anni Sessanta già visibile nel precedente 11 Minut (2015). Scegliendo di adottare pienamente il punto di vista del protagonista sulla narrazione, la macchina da presa rifiuta le classiche angolazioni ad altezza umana o i campi lunghi da narratore onnisciente, facendo sì che il profilmico sia costantemente filtrato dalla soggettività dell'asino, motivo per cui viene del tutto abbandonata ogni velleità di pura oggettività propugnata dal decoupage americano. Da questa totale connivenza tra mdp e oggi e interiorità di EO scaturisce in primis una potenza emotiva non così preventivabile per un lungometraggio avente come personaggio principale un animale privo di parola, che invece sovrasta di gran lunga per quanto concerne l'empatia dello spettatore uomini e donne inquadrati, che spesso risultano soltanto meri figuranti, alla stregua di quei paesaggi che si susseguono rapidi dal finestrino di un viaggiatore. Viaggiatore proprio come lo stesso asinello, che come un viandante di teutonica matrice culturale, scopre tramite incontri più o meno fugaci una grande varietà di umani, che però, al netto di alcune eccezioni, si rivelano quanto mai crudeli nei confronti degli animali; talvolta nei confronti del protagonista, in alcuni casi invece con altri fratelli del mondo animale. 


Per mettere in luce proprio la diversità dell'ex circense rispetto all'egoismo e perfino al sadismo umano Skolimowski adopera un registro espressivo che distorce sovente il classicismo, come ad esempio le soggettive tinte di rosso che sottolineano la dimensione espressiva di quanto inquadrato, poiché EO, a differenza di quanto pensano ancora oggi molti, prova eccome dei sentimenti, è capace di ricordare ed è talmente emotivo da arrivare persino a vendicare delle mucche destinate al macello provocando la morte di un perfido allevatore. Pur ricalcando a grandi linee il cammino cristologico al centro della pellicola diretta da Bresson, l'autore di La ragazza del bagno pubblico (Deep End, Jerzy Skolimowski, 1970) vi aggiunge caratteri tipici della propria poetica, rendendo maggiormente sfumato il giudizio etico sui personaggi, facendo dell'asino un buon selvaggio di rousseauniana memoria aggiornato però al relativismo tipico del mondo post-11 settembre, dove nessuno è mai totalmente innocente e puramente buono; eppure se qualcuno vi si avvicina, scegliendo addirittura la via del martirio pur di abbandonare un'esistenza tanto sofferta e votata al male, lo fa sicuramente di più un outsider come un animale da soma.

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