Il ciclo arturiano è un insieme di miti che ha inequivocabilmente forgiato la cultura europea, in modo analogo a quanto fatto dai racconti mitologici della Grecia classica, e dunque non stupisce il numero così elevato di adattamenti cinematografici delle gesta di Artù o dei suoi cavalieri. Tra di essi, non solo per chi scrive, occupa un posto di rilievo non ancora eguagliato quell'Excalibur diretto da John Boorman nel 1981 che a Cannes strabiliò tutti gli spettatori per la raffinatezza della messinscena e il fenomenale utilizzo della colonna musica. Oggi però intendo porre all'attenzione l'ultima incarnazione filmica del ciclo bretone, diretta da un autore che difficilmente si tenderebbe ad accostare a un lavoro dall'ampio respiro epico: mi riferisco a Guy Ritchie e al suo King Arthur - Il potere della spada (King Arthur: Legend of the Sword, 2017). Inizialmente inteso come primo capitolo di una saga il film, purtroppo per il cineasta britannico, delude ampiamente al box office (specie considerato il budget da quasi duecento milioni di dollari) senza neanche convincere la critica, che a essere onesti non ha mai gradito più di tanto i suoi lavori.
La pellicola rilegge il periodo di formazione del giovane Artù (Charlie Hunnam) rendendolo il leader di un gruppo della piccola delinquenza di Londinium (la Londra costruita dai romani), cresciuto da una prostituta dopo che, ancora in tenera età, suo padre, il re Uther Pendragon (Eric Bana), era stato assassinato insieme alla madre dallo zio Vortigern (Jude Law) per usurpare il trono d'Inghilterra. La sua vita cambia completamente quando viene costretto dai soldati del sovrano a tentare di estrarre la spada Excalibur dalla roccia.
La prima, imprescindibile, premessa che deve essere fatta per chiunque volesse approcciarsi a questo film è quella di scordarsi completamente la verosimiglianza della ricostruzione d'epoca o l'epica elegante di Boorman. Questo King Arthur - Il potere della spada è in tutto e per tutto un film di Guy Ritchie, il quale non a caso non solo lo dirige ma lo produce e ne è co-autore della sceneggiatura. La sequenza di apertura, come da manuale del cinema contemporaneo, svolge il ruolo di prologo e biglietto da visita per la pellicola e infatti mostra all'ennesima potenza lo stile del regista inglese. Montaggio rapido con associazioni di immagini quasi sempre più immaginifiche che puramente logiche (nell'accezione più vera del termine, ossia in quanto correlazione di causa ed effetto), inquadrature dal basso verso l'alto che sottolineano la statura prettamente umana dei personaggi e vorticosi movimenti di macchina; tutto il repertorio dell'autore di Snatch (2000) applicati a una scena di combattimento di massa che sicuramente trae ispirazione da Peter Jackson, specie nell'uso sapiente della CGI per aumentare il numero di soldati e per portare su schermo creature fantastiche come degli enormi olifanti. Una volta terminato il racconto della morte di Uther e del rocambolesco salvataggio del piccolo Artù, novello Mosè salvato dalle acque, Ritchie tira fuori dal cilindro un altro dei suoi numeri a effetto: una sequenza/videoclip in cui, all'interno del minutaggio di un singolo brano pop rock, mostra l'infanzia nei sobborghi londinesi del protagonista all'insegna di furtarelli, scommesse, risse e cure per la madre adottiva. Il futuro re diventa così tra le mani del director l'ennesimo guappo britannico che da sempre si trova al centro della sua filmografia, a partire dal Jason Statham lanciato da Lock & Stock - Pazzi scatenati (Lock, Stock and Two Smoking Barrels, 1998); un delinquentello scaltro, sbruffone ma anche capace di sincero amore per la donna che lo ha cresciuto e lealtà nei confronti degli amici e soci nel malaffare. Persino i maghi in questa visione assolutamente personale del mito diventano reietti perseguitati dal potere centrale, outsider paragonabili agli zingari di Snatch o ai vari gruppi etnici che vivono ai margini della legalità della Londra pulp vista nei precedenti lavori del cineasta. Non mancano certo echi shakespeariani, specie nella vicenda di vendetta familiare che mette l'uno contro l'altro zio contro nipote, così come la caratterizzazione proprio di Vortigern, aiutata dalla performance di Jude Law, contiene una vena tragica nuova rispetto ai tipici villain di Ritchie, più machiavellici che umani, mentre le insurrezioni popolari e le dispute con i Vichinghi richiamano alla mente la contemporanea questione Brexit e in generale il rapporto tra Regno Unito e resto dell'Europa. Insomma tanta carne al fuoco per quello che sarebbe dovuto essere il primo tassello di una saga di circa sei film.
Assolutamente made in Ritchie, come già accennato a proposito dell'incipit, è la messinscena e in particolare il montaggio, il vero fiore all'occhiello del regista. Come nel suo tipico stile gli stacchi non si limitano a mettere in successione ciò che accade prima a ciò che segue temporalmente, anzi spesso gli accostamenti tra un'inquadratura e l'altra trovano una ragion d'essere in una folgorazione visuale, in una reificazione grafica delle parole di un personaggio o addirittura in una paradossale connivenza tra presente e futuro, presente e passato, racconto e realtà, fino a confondere completamente i piani del reale e dell'immaginario. Per i fan dell'autore britannico si tratta di una conferma di uno dei suoi stilemi più tipici anche all'interno di una produzione da centinaia di milioni di dollari ma è necessario sottolineare come questi espedienti formali, di matrice avanguardistica ed ejzenstejniana, siano una bella boccata di aria fresca all'interno del panorama dei blockbuster attuali, partoriti da una mente coraggiosa che non teme la sfida ai codici, ormai fin troppo consolidati, del cinema ad alto budget hollywoodiano importati dai cinecomic Marvel. Una certa influenza proprio dal filone supereroistico in realtà si può notare, in special misura nei combattimenti in cui Artù impugna Excalibur, ma più che derivante dal canone MCU mi sembra che la fonte d'ispirazione in questi frangenti sia Zack Snyder, del quale Ritchie recupera le vorticose accelerazioni e i ralenti improvvisi di 300 (2007) e Watchmen (2009), come ben si evince dal piano sequenza in slow motion nel quale il protagonista semina il panico tra le fila nemiche al castello di Camelot.
Probabilmente King Arthur - Il potere della spada non avrà mai quei sequel in cui avremmo finalmente potuto vedere come l'autore di Operazione U.N.C.L.E. (The Man from U.N.C.L.E., 2015) avrebbe reimmaginato personaggi fondamentali del ciclo arturiano quali Merlino o Lancillotto ma resta comunque il piacere di avere tra le mani finalmente un blockbuster coraggioso, strafottente e anche un po' tamarro in mezzo a una dose non indifferente di omologazione all'interno del panorama attuale. Un vero e proprio caso di affinità elettive tra film e protagonista.
Piccolo satellite orbitante attorno al pianeta Cinema ma con la forte attrazione anche per le altre arti e in particolare per quelle che più segnano la nostra contemporaneità: fumetto, videogame ecc. Fondamentale per me è che chi scriva qui abbia assoluta cognizione di causa (io ad esempio possiedo una laurea triennale al DAMS e una magistrale in scienze dello spettacolo). Auguro buona lettura e buona riflessione a chiunque voglia fermarsi su questo sperduto satellite della settima arte.
mercoledì 24 luglio 2019
KING ARTHUR - IL POTERE DELLA SPADA: IL GUAPPO CHE DIVENNE RE
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venerdì 12 luglio 2019
MOONLIGHT: LA RICERCA DI SE STESSI IN UNO SPECCHIO D'ACQUA
A distanza di circa tre anni viene ricordato (purtroppo) per lo più a causa della défaillance di Warren Beatty durante la cerimonia degli Academy Awards del 2017 e per le, sempre più tediose polemiche sul buonismo hollywoodiano: parlo di Moonlight, seconda opera di Barry Jenkins diretta nel 2016 e vincitrice di numerosi premi in tuto il mondo, tra cui appunto l'Oscar per il miglior film. Tralasciando le polemiche postume, tipiche dei social network, non si può certo negare l'enorme clamore che ha accompagnato il film durante la proiezione nei maggiori festival statunitensi e non, così come il buon riscontro al botteghino rispetto al valore produttivo, sebbene non siano mancate le recensioni ingiustamente avvelenate di alcuni critici italiani e la distribuzione nostrana non abbia sfruttato poi molto il traino dei premi conquistati all'estero per attirare gli spettatori.
Tratto dalla drammaturgia, mai portata in scena, In Moonlight Black Boys Look Blue di Tarell Alvin McCraney, il lungometraggio si divide in tre atti, corrispondenti all'infanzia, l'adolescenza e l'età adulta, che raccontano la vita tutt'altro che idilliaca di Chiron (Trevante Rhodes da adulto, Ashton Sanders al liceo, Alex Hibbert da bambino), uomo di colore cresciuto a Liberty City, sobborgo di Miami in cui la comunità afroamericana vive arrangiandosi come può, tra spaccio, prostituzione e violenza quotidiana. Non potendo contare sulla madre dipendente da crack (Naomie Harris) il protagonista trova nello spacciatore di buon cuore Juan (Mahershala Ali) e nella compagna Teresa (Janelle Monàe) due punti di riferimento, così come in Kevin l'unico amico in mezzo ai soprusi dei coetanei, i quali lo accusano di essere "frocio".
Sarebbe da miopi negare la fortunata coincidenza tra l'uscita di Moonlight e il crescente movimento all'interno dell'industria cinematografica statunitense per il riconoscimento del diritto di essere rappresentati su schermo da parte di minoranze etniche e sessuali, con particolare riferimento proprio alla comunità afroamericana e all'omosessualità. Tutto questo ha sicuramente favorito a livello pubblicitario il film ma non intacca minimamente la sua grande qualità e, anzi, questa affinità elettiva con l'attuale clima culturale americano rende caso mai giustizia alla consapevolezza dell'ambiente in cui vive da parte di Jenkins e al coraggio pionieristico contenuto nel testo teatrale di McCraney, scritto circa dieci anni prima che diventasse un soggetto per il grande schermo. Da profondo conoscitore dei meccanismi della settima arte l'autore di Se la strada potesse parlare (If Beale Street Could Talk, 2018) altera in parte la struttura prettamente adatta al palcoscenico dell'opera ispiratrice suddividendo la pellicola in tre capitoli distinti, corrispondenti sia ai tre atti tipici della narrazione classica che alle tre fasi della vita umana ma, soprattutto, ai tre nomi con i quali viene identificato il protagonista. In questo modo il racconto diventa un vero e proprio coming of age suddiviso in altrettanti micro-Bildungsroman che narrano la maturazione, rispettivamente, di Piccolo, Chiron e Black, i tre individui che convivono all'interno del personaggio principale e che nell'arco di questo percorso di crescita tendono faticosamente a riconciliarsi. Del genere, tipicamente cinematografico, al quale aderisce il regista adotta molti dei topoi ma plasmandoli e ridefinendoli per adattarli a una figura che è un outsider fin dalla nascita, incapace di comprendere fino in fondo il proprio ruolo nel mondo, perché non possa essere se stesso senza attirare l'odio altrui. Ambientando la vicenda all'interno dell'emarginata comunità afroamericana di Liberty City (la stessa in cui è nato Jenkins) il coming of age presenta, per forza di cose, situazioni solo all'apparenza assimilabili a quelle riservate ai ragazzi bianchi, come il rapporto con il migliore amico che si trasforma in amore, le liti con la madre e la ricerca di una figura genitoriale in un estraneo. Chiron in quanto nero e omosessuale in un ambiente esageratamente e tragicamente maschilista si sente così estraneo dal non riuscire a comunicare con nessuno, dosa le parole come se una di troppo potesse condannarlo a morte, cammina a testa bassa e preferisce passare giornate intere fuori casa, pur di evitare di assistere al decadimento di sua madre. L'unica ancora di salvezza gli viene fornita dall'incontro casuale con Juan, l'unica e vera figura genitoriale che incontra in tutta la vita e che lo porta in contatto profondo con il mare, l'unico sostegno, l'unico elemento di bellezza nel quale il giovane trova il coraggio di essere se stesso senza alcuna vergogna o tristezza.
La meravigliosa scena in cui il personaggio interpretato con straordinaria umanità da Ali insegna a Piccolo a nuotare rappresenta un battesimo laico, una sorta di rito in cui l'uomo accetta definitivamente il legame padre-figlio che lo lega al bambino e allo stesso tempo quest'ultimo prende confidenza con la potenza dell'acqua, la sua capacità di rivelare l'io più profondo di un essere umano. In ogni momento di debolezza, in ogni frammento di vita in cui Chiron abbassa le difese e mostra se stesso senza paura, con un senso di pace che difficilmente trova spazio nel suo percorso di esistenza, il regista inserisce uno specchio d'acqua e in primis il mare, luogo dell'epifania con il padre adottivo (così amato da divenire il suo modello da adulto, nonostante sappia della sua indiretta responsabilità nella dipendenza dalle droghe della madre) così come ambientazione dell'unico momento di vero amore provato, dell'unico incontro in cui si sia mai lasciato toccare da un altro uomo. Quello stesso mare inquadrato spesso di notte, al chiaro di luna perché, rischiarati dalla sua luce, i ragazzi neri sembrano blu.
Chiunque si aspetti, leggendo gli sproloqui online di qualche critico della domenica, da Moonlight un lungo sermone su razzismo e omofobia dovrebbe proprio dargli una chance e ricredersi perché il lavoro di Barry Jenkins è racconto di formazione di impressionante lirismo, derivante quasi esclusivamente dalla forza delle immagini e dalle interpretazioni memorabili dei suoi attori, senza dunque tante inutili parole.
Tratto dalla drammaturgia, mai portata in scena, In Moonlight Black Boys Look Blue di Tarell Alvin McCraney, il lungometraggio si divide in tre atti, corrispondenti all'infanzia, l'adolescenza e l'età adulta, che raccontano la vita tutt'altro che idilliaca di Chiron (Trevante Rhodes da adulto, Ashton Sanders al liceo, Alex Hibbert da bambino), uomo di colore cresciuto a Liberty City, sobborgo di Miami in cui la comunità afroamericana vive arrangiandosi come può, tra spaccio, prostituzione e violenza quotidiana. Non potendo contare sulla madre dipendente da crack (Naomie Harris) il protagonista trova nello spacciatore di buon cuore Juan (Mahershala Ali) e nella compagna Teresa (Janelle Monàe) due punti di riferimento, così come in Kevin l'unico amico in mezzo ai soprusi dei coetanei, i quali lo accusano di essere "frocio".
Sarebbe da miopi negare la fortunata coincidenza tra l'uscita di Moonlight e il crescente movimento all'interno dell'industria cinematografica statunitense per il riconoscimento del diritto di essere rappresentati su schermo da parte di minoranze etniche e sessuali, con particolare riferimento proprio alla comunità afroamericana e all'omosessualità. Tutto questo ha sicuramente favorito a livello pubblicitario il film ma non intacca minimamente la sua grande qualità e, anzi, questa affinità elettiva con l'attuale clima culturale americano rende caso mai giustizia alla consapevolezza dell'ambiente in cui vive da parte di Jenkins e al coraggio pionieristico contenuto nel testo teatrale di McCraney, scritto circa dieci anni prima che diventasse un soggetto per il grande schermo. Da profondo conoscitore dei meccanismi della settima arte l'autore di Se la strada potesse parlare (If Beale Street Could Talk, 2018) altera in parte la struttura prettamente adatta al palcoscenico dell'opera ispiratrice suddividendo la pellicola in tre capitoli distinti, corrispondenti sia ai tre atti tipici della narrazione classica che alle tre fasi della vita umana ma, soprattutto, ai tre nomi con i quali viene identificato il protagonista. In questo modo il racconto diventa un vero e proprio coming of age suddiviso in altrettanti micro-Bildungsroman che narrano la maturazione, rispettivamente, di Piccolo, Chiron e Black, i tre individui che convivono all'interno del personaggio principale e che nell'arco di questo percorso di crescita tendono faticosamente a riconciliarsi. Del genere, tipicamente cinematografico, al quale aderisce il regista adotta molti dei topoi ma plasmandoli e ridefinendoli per adattarli a una figura che è un outsider fin dalla nascita, incapace di comprendere fino in fondo il proprio ruolo nel mondo, perché non possa essere se stesso senza attirare l'odio altrui. Ambientando la vicenda all'interno dell'emarginata comunità afroamericana di Liberty City (la stessa in cui è nato Jenkins) il coming of age presenta, per forza di cose, situazioni solo all'apparenza assimilabili a quelle riservate ai ragazzi bianchi, come il rapporto con il migliore amico che si trasforma in amore, le liti con la madre e la ricerca di una figura genitoriale in un estraneo. Chiron in quanto nero e omosessuale in un ambiente esageratamente e tragicamente maschilista si sente così estraneo dal non riuscire a comunicare con nessuno, dosa le parole come se una di troppo potesse condannarlo a morte, cammina a testa bassa e preferisce passare giornate intere fuori casa, pur di evitare di assistere al decadimento di sua madre. L'unica ancora di salvezza gli viene fornita dall'incontro casuale con Juan, l'unica e vera figura genitoriale che incontra in tutta la vita e che lo porta in contatto profondo con il mare, l'unico sostegno, l'unico elemento di bellezza nel quale il giovane trova il coraggio di essere se stesso senza alcuna vergogna o tristezza.
La meravigliosa scena in cui il personaggio interpretato con straordinaria umanità da Ali insegna a Piccolo a nuotare rappresenta un battesimo laico, una sorta di rito in cui l'uomo accetta definitivamente il legame padre-figlio che lo lega al bambino e allo stesso tempo quest'ultimo prende confidenza con la potenza dell'acqua, la sua capacità di rivelare l'io più profondo di un essere umano. In ogni momento di debolezza, in ogni frammento di vita in cui Chiron abbassa le difese e mostra se stesso senza paura, con un senso di pace che difficilmente trova spazio nel suo percorso di esistenza, il regista inserisce uno specchio d'acqua e in primis il mare, luogo dell'epifania con il padre adottivo (così amato da divenire il suo modello da adulto, nonostante sappia della sua indiretta responsabilità nella dipendenza dalle droghe della madre) così come ambientazione dell'unico momento di vero amore provato, dell'unico incontro in cui si sia mai lasciato toccare da un altro uomo. Quello stesso mare inquadrato spesso di notte, al chiaro di luna perché, rischiarati dalla sua luce, i ragazzi neri sembrano blu.
Chiunque si aspetti, leggendo gli sproloqui online di qualche critico della domenica, da Moonlight un lungo sermone su razzismo e omofobia dovrebbe proprio dargli una chance e ricredersi perché il lavoro di Barry Jenkins è racconto di formazione di impressionante lirismo, derivante quasi esclusivamente dalla forza delle immagini e dalle interpretazioni memorabili dei suoi attori, senza dunque tante inutili parole.
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domenica 7 luglio 2019
TRUE DETECTIVE: IL NUOVO CRIME TRA TV E CINEMA, FINCHER E NIETZSCHE
Da almeno un decennio, complice anche l'arrivo in quasi ogni casa dei servizi di streaming on demand come Netflix, è esploso il fenomeno della serialità televisiva come serio rivale del cinema in quanto linguaggio audiovisivo preferito dal pubblico. Certamente la diffusione di questo mezzo è strettamente connessa alla generale convergenza creatasi tra la fine del secondo e l'inizio del terzo millennio tra cinema, televisione, videogame, fumetto e numerose altre espressioni artistiche che maggiormente definiscono la contemporaneità e, anche in virtù di tutto ciò, molti talenti della settima arte si sono spostati verso il piccolo schermo, sperimentando i limiti e le possibilità loro offerte da sistemi produttivi diversi da quello hollywoodiano. Il risultato di queste ibridazioni è riscontrabile soprattutto nell'enorme qualità di un numero sempre crescente di prodotti seriali, di qualunque genere o target, tra i quali trova un posto di spicco True Detective, creata e sceneggiata da Nic Pizzolatto nel 2014. A oggi questo serial risulta composto da tre stagioni, ognuno indipendente narrativamente dalle altre, ma oggi ho scelto di occuparmi esclusivamente della prima, i cui otto episodi sono stati diretti unicamente da Cary Fukunaga. Un successo enorme, sia di critica che di pubblico, che merita un approfondimento.
Spostandosi costantemente tra il 2012 e 1995 (con alcune incursioni nel 2002), il serial si incentra sulle indagini della eterogenea coppia di detective del Louisiana composta dal padre di famiglia Marty Hart (Woody Harrelson) e dal nichilista Rust Cohle (Matthew McConaughey) su un omicidio rituale di una ragazza. La coppia si rende subito conto di aver a che fare con un serial killer ma, nel corso degli anni, la caccia all'assassino si trasforma in una lotta contro un intero sistema corrotto e le miserie della vita privata dei due.
Sebbene la stagione in questione sia composta da "soli" otto episodi, una cifra piuttosto contenuta per la media dei serial televisivi, la complessità stilistica e di contenuti che contraddistingue True Detective è davvero impossibile da indagare nelle poche righe di un post online. Il primo elemento che salta all'occhio, fin dal pilot, è l'enorme influenza del cinema, crime e non solo, su questa produzione. La scelta di un unico regista e di un solo sceneggiatore per tutti gli episodi, una rarità all'interno dei serial, dona una compattezza nella narrazione e nell'impianto formale tipicamente cinematografica, come se lo spettatore si trovasse dinanzi a un film della durata di circa otto ore, diluite da dissolvenze in nero e sigla di testa che segnano lo stacco tra una macrosequenza (episodio) e l'altra. All'interno di questo unico blocco emerge con chiarezza e libertà piuttosto inedita per il mezzo televisivo la visione della coppia di autori Pizzolatto-Fukunaga: il primo attinge a piene mani dal proprio bagaglio culturale influenze da letteratura di genere, fumetto e filosofia (sia europea che americana), mentre il secondo rielabora il crime movie adattandolo al proprio stile e al medium. Se la detection, la descrizione dell'ambiente poliziesco e la rappresentazione di un serial killer dalle velleità mistiche rientrano ormai nei topoi del suddetto genere, la declinazione di tutti questi elementi, in particolare il modello imposto da David Fincher con Seven (Se7en, 1995), diviene uno strumento, un mezzo per esplorare il lato più oscuro dell'essere umano e il rapporto tra la fede e tutto il male che l'uomo riesce a seminare. Innegabile è come queste tematiche siano alla base proprio della poetica del già menzionato autore di Gone Girl (L'amore bugiardo - Gone Girl, David Fincher, 2014) e dunque come questi si ponga quale riferimento costante per i due demiurghi dello show, eppure altrettanto evidente è la maggiore attenzione riposta da Pizzolatto sul ruolo della fede cristiana. La contrapposizione caratteriale, etica e filosofica tra Marty e Rust diventa un vero e proprio saggio sulla secolare dialettica tra la dottrina cristiana, con la sua impostazione trascendente ma anche le chiare contraddizioni morali, e l'ateismo nichilista incarnato dalla filosofia nietzschiana, specie nei testi della fase finale e febbricitante della parabola dell'autore di Così parlò Zarathustra. Prendendo in prestito assunti anche dalla visione di Thomas Hobbes di un uomo intrinsecamente portato al male e all'istinto di dominare sul prossimo, lo sceneggiatore statunitense mette continuamente in luce una visione della fede come puro rifugio dalla paura della mancanza di un qualunque senso trascendente della vita umana, capace persino di spingere alcuni uomini a commettere atti di una crudeltà indescrivibile. Anche le disavventure della vita privata di Marty, incapace di essere fedele a una moglie che ama profondamente, la costanza con cui viene mostrata l'inadeguatezza delle figure maschili dinanzi a donne che restano un vero e proprio mistero, impenetrabile al punto da divenire oggetti sessuali o corpi su cui sfogare le frustrazioni di una vita miserabile. Una cultura sfacciatamente maschilista che giustifica tale natura proprio attraverso supposti dogmi religiosi. Proprio nel momento di maggiore oscurità però emerge anche l'altra faccia della fede, la pars costruens che rischiara le tenebre dell'eterno ritorno, dell'homo homini lupus e della morte di Dio: il finale, l'esperienza pre-morte vissuta da Rust durante il coma gli fa riscoprire il valore dell'amore, degli affetti, dei rapporti con le altre persone e soprattutto la speranza per un futuro più brillante. In fondo il messaggio di Cristo è anche questo, il paradiso in Terra per gli uomini di buona volontà contro l'assenza totale di qualunque valore etico.
True Detective è tutto questo e moltissimo altro ancora, un lavoro denso di strati di significato e fruizione capace di incollare allo schermo (qualunque esso sia) dall'inizio fino alla fine, portando lo spettatore a riflettere, a vivere attivamente la tensione del thriller e ad ammirare la bellezza delle immagini di Fukunaga, specialmente il furente piano sequenza del quarto episodio.
Spostandosi costantemente tra il 2012 e 1995 (con alcune incursioni nel 2002), il serial si incentra sulle indagini della eterogenea coppia di detective del Louisiana composta dal padre di famiglia Marty Hart (Woody Harrelson) e dal nichilista Rust Cohle (Matthew McConaughey) su un omicidio rituale di una ragazza. La coppia si rende subito conto di aver a che fare con un serial killer ma, nel corso degli anni, la caccia all'assassino si trasforma in una lotta contro un intero sistema corrotto e le miserie della vita privata dei due.
Sebbene la stagione in questione sia composta da "soli" otto episodi, una cifra piuttosto contenuta per la media dei serial televisivi, la complessità stilistica e di contenuti che contraddistingue True Detective è davvero impossibile da indagare nelle poche righe di un post online. Il primo elemento che salta all'occhio, fin dal pilot, è l'enorme influenza del cinema, crime e non solo, su questa produzione. La scelta di un unico regista e di un solo sceneggiatore per tutti gli episodi, una rarità all'interno dei serial, dona una compattezza nella narrazione e nell'impianto formale tipicamente cinematografica, come se lo spettatore si trovasse dinanzi a un film della durata di circa otto ore, diluite da dissolvenze in nero e sigla di testa che segnano lo stacco tra una macrosequenza (episodio) e l'altra. All'interno di questo unico blocco emerge con chiarezza e libertà piuttosto inedita per il mezzo televisivo la visione della coppia di autori Pizzolatto-Fukunaga: il primo attinge a piene mani dal proprio bagaglio culturale influenze da letteratura di genere, fumetto e filosofia (sia europea che americana), mentre il secondo rielabora il crime movie adattandolo al proprio stile e al medium. Se la detection, la descrizione dell'ambiente poliziesco e la rappresentazione di un serial killer dalle velleità mistiche rientrano ormai nei topoi del suddetto genere, la declinazione di tutti questi elementi, in particolare il modello imposto da David Fincher con Seven (Se7en, 1995), diviene uno strumento, un mezzo per esplorare il lato più oscuro dell'essere umano e il rapporto tra la fede e tutto il male che l'uomo riesce a seminare. Innegabile è come queste tematiche siano alla base proprio della poetica del già menzionato autore di Gone Girl (L'amore bugiardo - Gone Girl, David Fincher, 2014) e dunque come questi si ponga quale riferimento costante per i due demiurghi dello show, eppure altrettanto evidente è la maggiore attenzione riposta da Pizzolatto sul ruolo della fede cristiana. La contrapposizione caratteriale, etica e filosofica tra Marty e Rust diventa un vero e proprio saggio sulla secolare dialettica tra la dottrina cristiana, con la sua impostazione trascendente ma anche le chiare contraddizioni morali, e l'ateismo nichilista incarnato dalla filosofia nietzschiana, specie nei testi della fase finale e febbricitante della parabola dell'autore di Così parlò Zarathustra. Prendendo in prestito assunti anche dalla visione di Thomas Hobbes di un uomo intrinsecamente portato al male e all'istinto di dominare sul prossimo, lo sceneggiatore statunitense mette continuamente in luce una visione della fede come puro rifugio dalla paura della mancanza di un qualunque senso trascendente della vita umana, capace persino di spingere alcuni uomini a commettere atti di una crudeltà indescrivibile. Anche le disavventure della vita privata di Marty, incapace di essere fedele a una moglie che ama profondamente, la costanza con cui viene mostrata l'inadeguatezza delle figure maschili dinanzi a donne che restano un vero e proprio mistero, impenetrabile al punto da divenire oggetti sessuali o corpi su cui sfogare le frustrazioni di una vita miserabile. Una cultura sfacciatamente maschilista che giustifica tale natura proprio attraverso supposti dogmi religiosi. Proprio nel momento di maggiore oscurità però emerge anche l'altra faccia della fede, la pars costruens che rischiara le tenebre dell'eterno ritorno, dell'homo homini lupus e della morte di Dio: il finale, l'esperienza pre-morte vissuta da Rust durante il coma gli fa riscoprire il valore dell'amore, degli affetti, dei rapporti con le altre persone e soprattutto la speranza per un futuro più brillante. In fondo il messaggio di Cristo è anche questo, il paradiso in Terra per gli uomini di buona volontà contro l'assenza totale di qualunque valore etico.
True Detective è tutto questo e moltissimo altro ancora, un lavoro denso di strati di significato e fruizione capace di incollare allo schermo (qualunque esso sia) dall'inizio fino alla fine, portando lo spettatore a riflettere, a vivere attivamente la tensione del thriller e ad ammirare la bellezza delle immagini di Fukunaga, specialmente il furente piano sequenza del quarto episodio.
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giovedì 4 luglio 2019
ALBA ROSSA: L'OPERA DEFINITIVA (E BISTRATTATA) DI JOHN MILIUS
La New Hollywood viene ormai considerata come una fase per lo più transitoria, per quanto rivoluzionaria, all'interno del percorso storico del cinema americano ma è innegabile come molti dei suoi protagonisti siano tra i registi più influenti degli ultimi decenni (si pensi a Scorsese, Spielberg, Lucas ecc.). Tra i membri proprio di quel gruppo di amici cineasti che tentarono di imporre la figura del regista all'interno di un sistema tradizionalmente legato agli studios e ai produttori, oggi ho deciso di rievocare uno di quelli che, purtroppo, ha trovato meno fortuna, soprattutto a causa di idee politiche poco compatibili con Hollywood e di un carattere estremamente inviso alle regole o all'autorità: John Milius. Certo non si può dire che l'ex compagno di università di Lucas non abbia avuto una carriera di tutto rispetto, la cui ciliegina sulla torta resta la sceneggiatura di Apocalypse Now (Francis Ford Coppola, 1979), ma di fatto la sua avventura nell'olimpo del cinema si è conclusa con la metà degli anni Ottanta. Mentre Spielberg continua a tirare fuori lavori da centinaia di migliaia di dollari di incasso Milius non frequenta i set hollywoodiani da circa trent'anni, facendo un rapido raffronto con un altro dei suoi amici e colleghi. Percorrere in poche righe l'excursus di questo autore e soprattutto i motivi della sua parabola discendente sarebbe, chiaramente, una mistificazione della realtà del tutto velleitaria e dunque ho deciso di rendergli giustizia riportando un piccolo spiraglio di luce sull'ultimo successo (almeno economico) della sua filmografia, Alba rossa (Red Dawn, 1984).
Ambientata in un ipotetico futuro nel quale la NATO è stata sciolta, le armi nucleari sul suolo europeo rese inoffensive e l'Unione sovietica è costretta a fronteggiare una carestia senza precedenti, la pellicola si concentra sulla reazione di un gruppo di adolescenti della provincia americana all'invasione del suolo statunitense da parte di un esercito composto da milizie russe, cubane e nicaraguensi congiunte. Guidati dal più maturo Jed (Patrick Swayze) e dal fratello minore Matt (Charlie Sheen), entrambi addestrati alla caccia e alla sopravvivenza in montagna dal padre (Harry Dean Stanton), i ragazzi si rifugiano proprio tra le asperità del Colorado per sfuggire alla prigionia e organizzare una resistenza armata. Purtroppo l'unico aiuto dagli adulti che riceveranno sarà quello, del tutto inaspettato, del tenente colonnello Tanner (Powers Boothe), il quale darà loro i rudimenti di tattica militare necessari a mettere in seria difficoltà i nemici.
Come spesso accade con i film diretti da autori che negano di schierarsi apertamente con il Partito Democratico americano, Alba rossa, nonostante i buonissimi risultati al box office, è sempre stato criticato per una presunta ideologia destrorsa o addirittura filofascista che renderebbe impossibile giudicarlo positivamente. Lungi da me parlare di politica (o meglio, di partiti e schieramenti) in questa sede, ciò che mi preme sottolineare a tale proposito è solamente che in realtà vi è davvero poco spazio all'interno della pellicola per messaggi prettamente reazionari o addirittura di estrema destra: credo che in una storia di resistenza da parte di ragazzini all'oppressione di un'invasione vi sia caso mai una grande analogia con quanto accaduto ai gruppi di partigiani organizzatisi all'interno dei paesi invasi dalle forze nazionalsocialiste durante la Seconda guerra mondiale. Insomma mi pare l'ennesimo caso di caccia alle streghe inversa rispetto al maccartismo, quella con cui si ritrova ad avere a che fare a ogni suo nuovo lavoro Clint Eastwood e che ha sicuramente avuto una buona parte nel rendere inviso al cinefilo medio Zack Snyder (mi riferisco in particolare alle accuse di propaganda fascista rivolte al suo 300 del 2007).
Chiusa questa, antipatica, parentesi torno a parlare di cinema e, nello specifico, dell'incontestabile cura con cui Milius, a partire da una storia di Kevin Reynolds, immagina un ipotetico scenario socio-politico futuribile che negli anni della presidenza Reagan, dell'invasione sovietica dell'Afghanistan e del riaccendersi della tensione tra le superpotenze poteva essere percepito come tutt'altro che irrealizzabile. Nel titolo di questo mio articolo ho voluto definire questo film come l'opera definitiva del regista di Un mercoledì da leoni (Big Wednesday, 1978) proprio perché questa ambientazione da Terza guerra mondiale sviluppata con grande conoscenza della situazione geo-politica del tempo, sintomo della mai celata fascinazione dell'autore nei confronti della guerra, diviene in realtà solamente uno sfondo per raccontare, ancora una volta, una storia di formazione, l'ennesimo passaggio dall'età aurea della fanciullezza alla brutalità dell'età adulta. Proprio come nell'appena citato lungometraggio popolato da giovani surfisti, così come nel fantasy Conan il barbaro (Conan the Barbarian, 1982), Milius mette in scena la guerra in quanto simbolo dell'orrore, del dolore e delle sofferenze che caratterizzano la maturità e il traumatico abbandono dell'adolescenza, l'ultimo baluardo dell'innocenza umana. Che si tratti del Vietnam, dell'invasione degli Stati Uniti da parte di una coalizione comunista o della rappresaglia di una tribù sanguinaria, nel cinema del regista nato a Saint Louis l'evento bellico è sempre l'evento che forza i ragazzi a diventare uomini, che li strappa dall'affetto della famiglia e soprattutto dal gruppo di amici, nucleo sociale fondamentale sia per il Milius cineasta che per il Milius uomo (a tal proposito vi consiglio di leggere le avventure di cameratismo e amore per il cinema che in gioventù aveva vissuto con l'amico fraterno Lucas). All'intero di questa Weltanschauung trova dunque la propria ragion d'essere anche la tanto vituperata violenza che caratterizza la pellicola, certamente tutt'altro che edulcorata ma mai pornografica dato che finisce per risultare parte centrale del percorso di formazione da parte di Jed e dei suoi "commilitoni", inizialmente semplici adolescenti della provincia americana vista in centinaia di film coevi ma che, con il passare dei mesi, si trovano loro malgrado ad accettare, senza neanche rendersene conto, le spietate leggi della guerra, con tanto di fucilazione a sangue freddo di un traditore e la formazione di un evidente disturbo da stress post-traumatico in uno dei ragazzi.
Proprio come nella giungla asiatica di Apocalypse Now il conflitto bellico semina orrore e genera mostri in ogni schieramento, riducendo il concetto di umanità a un pallido ricordo di un tempo lontano in cui regnava la pace. Risulta quanto mai interessante il parallelo con il film diretto da Francis Ford Coppola nel momento in cui si riflette su come i protagonisti possano essere equiparati ai vietcong assediati da un esercito venuto dall'altra parte dell'oceano, così come, allo stesso tempo, al microcosmo creatosi attorno al colonnello Kurtz, isolatosi all'interno dell'impenetrabile territorio tra Vietnam e Cambogia per creare una sorta di comunità che mescola il socialismo utopico con quello di stampo totalitario stalinista, incentrato sulla fedeltà a un leader unico.
Alla luce di quanto detto, seppur brevemente, pare davvero impossibile tacciare di reazionarismo Alba rossa (se non forse nella posticcia inquadratura finale), forte di uno spirito indissolubilmente legato allo spirito ribelle e giovanilistico della Hollywood Reinassance con influenze da un romanzo tutt'altro che fascista quale Il signore delle mosche di William Holding. Se proprio si vuole rintracciare un certo sentimento di autentico patriottismo americano lo si può scovare nel registro formale adottato da Milius, evidentemente debitore del western classico e delle sue tipiche panoramiche tra i paesaggi incontaminati degli States che il mondo intero ha imparato a conoscere attraverso i lavori di John Ford. Stavolta però la frontiera del mito a stelle strisce non deve più essere conquistata dagli "invasori" cow boy contro il volere dei nativi, bensì difesa e riacquisita dai conquistatori sovietici.
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