mercoledì 24 luglio 2019

KING ARTHUR - IL POTERE DELLA SPADA: IL GUAPPO CHE DIVENNE RE

Il ciclo arturiano è un insieme di miti che ha inequivocabilmente forgiato la cultura europea, in modo analogo a quanto fatto dai racconti mitologici della Grecia classica, e dunque non stupisce il numero così elevato di adattamenti cinematografici delle gesta di Artù o dei suoi cavalieri. Tra di essi, non solo per chi scrive, occupa un posto di rilievo non ancora eguagliato quell'Excalibur diretto da John Boorman nel 1981 che a Cannes strabiliò tutti gli spettatori per la raffinatezza della messinscena e il fenomenale utilizzo della colonna musica. Oggi però intendo porre all'attenzione l'ultima incarnazione filmica del ciclo bretone, diretta da un autore che difficilmente si tenderebbe ad accostare a un lavoro dall'ampio respiro epico: mi riferisco a Guy Ritchie e al suo King Arthur - Il potere della spada (King Arthur: Legend of the Sword, 2017). Inizialmente inteso come primo capitolo di una saga il film, purtroppo per il cineasta britannico, delude ampiamente al box office (specie considerato il budget da quasi duecento milioni di dollari) senza neanche convincere la critica, che a essere onesti non ha mai gradito più di tanto i suoi lavori.

La pellicola rilegge il periodo di formazione del giovane Artù (Charlie Hunnam) rendendolo il leader di un gruppo della piccola delinquenza di Londinium (la Londra costruita dai romani), cresciuto da una prostituta dopo che, ancora in tenera età, suo padre, il re Uther Pendragon (Eric Bana), era stato assassinato insieme alla madre dallo zio Vortigern (Jude Law) per usurpare il trono d'Inghilterra. La sua vita cambia completamente quando viene costretto dai soldati del sovrano a tentare di estrarre la spada Excalibur dalla roccia.

La prima, imprescindibile, premessa che deve essere fatta per chiunque volesse approcciarsi a questo film è quella di scordarsi completamente la verosimiglianza della ricostruzione d'epoca o l'epica elegante di Boorman. Questo King Arthur - Il potere della spada è in tutto e per tutto un film di Guy Ritchie, il quale non a caso non solo lo dirige ma lo produce e ne è co-autore della sceneggiatura. La sequenza di apertura, come da manuale del cinema contemporaneo, svolge il ruolo di prologo e biglietto da visita per la pellicola e infatti mostra all'ennesima potenza lo stile del regista inglese. Montaggio rapido con associazioni di immagini quasi sempre più immaginifiche che puramente logiche (nell'accezione più vera del termine, ossia in quanto correlazione di causa ed effetto), inquadrature dal basso verso l'alto che sottolineano la statura prettamente umana dei personaggi e vorticosi movimenti di macchina; tutto il repertorio dell'autore di Snatch (2000) applicati a una scena di combattimento di massa che sicuramente trae ispirazione da Peter Jackson, specie nell'uso sapiente della CGI per aumentare il numero di soldati e per portare su schermo creature fantastiche come degli enormi olifanti. Una volta terminato il racconto della morte di Uther e del rocambolesco salvataggio del piccolo Artù, novello Mosè salvato dalle acque, Ritchie tira fuori dal cilindro un altro dei suoi numeri a effetto: una sequenza/videoclip in cui, all'interno del minutaggio di un singolo brano pop rock, mostra l'infanzia nei sobborghi londinesi del protagonista all'insegna di furtarelli, scommesse, risse e cure per la madre adottiva. Il futuro re diventa così tra le mani del director l'ennesimo guappo britannico che da sempre si trova al centro della sua filmografia, a partire dal Jason Statham lanciato da Lock & Stock - Pazzi scatenati (Lock, Stock and Two Smoking Barrels, 1998); un delinquentello scaltro, sbruffone ma anche capace di sincero amore per la donna che lo ha cresciuto e lealtà nei confronti degli amici e soci nel malaffare. Persino i maghi in questa visione assolutamente personale del mito diventano reietti perseguitati dal potere centrale, outsider paragonabili agli zingari di Snatch o ai vari gruppi etnici che vivono ai margini della legalità della Londra pulp vista nei precedenti lavori del cineasta. Non mancano certo echi shakespeariani, specie nella vicenda di vendetta familiare che mette l'uno contro l'altro zio contro nipote, così come la caratterizzazione proprio di Vortigern, aiutata dalla performance di Jude Law, contiene una vena tragica nuova rispetto ai tipici villain di Ritchie, più machiavellici che umani, mentre le insurrezioni popolari e le dispute con i Vichinghi richiamano alla mente la contemporanea questione Brexit e in generale il rapporto tra Regno Unito e resto dell'Europa. Insomma tanta carne al fuoco per quello che sarebbe dovuto essere il primo tassello di una saga di circa sei film.

Assolutamente made in Ritchie, come già accennato a proposito dell'incipit, è la messinscena e in particolare il montaggio, il vero fiore all'occhiello del regista. Come nel suo tipico stile gli stacchi non si limitano a mettere in successione ciò che accade prima a ciò che segue temporalmente, anzi spesso gli accostamenti tra un'inquadratura e l'altra trovano una ragion d'essere in una folgorazione visuale, in una reificazione grafica delle parole di un personaggio o addirittura in una paradossale connivenza tra presente e futuro, presente e passato, racconto e realtà, fino a confondere completamente i piani del reale e dell'immaginario. Per i fan dell'autore britannico si tratta di una conferma di uno dei suoi stilemi più tipici anche all'interno di una produzione da centinaia di milioni di dollari ma è necessario sottolineare come questi espedienti formali, di matrice avanguardistica ed ejzenstejniana, siano una bella boccata di aria fresca all'interno del panorama dei blockbuster attuali, partoriti da una mente coraggiosa che non teme la sfida ai codici, ormai fin troppo consolidati, del cinema ad alto budget hollywoodiano importati dai cinecomic Marvel. Una certa influenza proprio dal filone supereroistico in realtà si può notare, in special misura nei combattimenti in cui Artù impugna Excalibur, ma più che derivante dal canone MCU mi sembra che la fonte d'ispirazione in questi frangenti sia Zack Snyder, del quale Ritchie recupera le vorticose accelerazioni e i ralenti improvvisi di 300 (2007) e Watchmen (2009), come ben si evince dal piano sequenza in slow motion nel quale il protagonista semina il panico tra le fila nemiche al castello di Camelot.

Probabilmente King Arthur - Il potere della spada non avrà mai quei sequel in cui avremmo finalmente potuto vedere come l'autore di Operazione U.N.C.L.E. (The Man from U.N.C.L.E., 2015) avrebbe reimmaginato personaggi fondamentali del ciclo arturiano quali Merlino o Lancillotto ma resta comunque il piacere di avere tra le mani finalmente un blockbuster coraggioso, strafottente e anche un po' tamarro in mezzo a una dose non indifferente di omologazione all'interno del panorama attuale. Un vero e proprio caso di affinità elettive tra film e protagonista.

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