lunedì 20 dicembre 2021

LE CONSEGUENZE DELL'AMORE: L'INETTO CONTEMPORANEO IN CERCA DI UMANITÀ

Paolo Sorrentino non necessita alcuna introduzione. Amato incondizionatamente all'estero, divisivo in Italia, come spesso accade ai nostri artisti più fortunati, ma conosciuto almeno per La grande bellezza (2013) anche al di fuori della cerchia degli appassionati. In occasione della distribuzione, sia in sala che in streaming, di É stata la mano di Dio (Paolo Sorrentino, 2021) oggi mi preme ricordare il secondo lungometraggio del cineasta partenopeo, Le conseguenze dell'amore, che nel lontano 2004 ne aveva lanciato la fulgida carriera. Pluripremiato nel Belpaese, riscopriamo il film amato addirittura dagli hater più accaniti del regista premio Oscar.

Protagonista assoluto dell'opera è Titta Di Girolamo (Toni Servillo), ex commercialista invischiato con alcune cosche mafiose siciliane che lo hanno costretto a una sorta di esilio in un hotel svizzero, dove ogni giorno deposita grosse somme di denaro in una banca locale. La  monotonia della sua vita all'estero viene infranta dall'infatuazione nei confronti di Sofia (Olivia Magnani), barista dell'albergo. La decisione di rivolgerle finalmente la parola cambia irrimediabilmente la sua routine.

Con il senno di poi Le conseguenze dell'amore rappresenta un passo fondamentale nell'evoluzione della poetica e dello stile sorrentiniani, a cominciare dalla rappresentazione del personaggio attorno a cui ruota l'intera narrazione. Titta, così come i due Tony del precedente L'uomo in più (2001) o il successivo Gep Gambardella, vive una condizione di totale impasse, una stasi perpetua che ha totalmente disumanizzato un'esistenza costellata solamente da meccanici rituali, ripetuti con un misto tra la sacralità liturgica e la precisione di un orologiaio. Non a caso soggiorna da anni in un hotel, passa giornate intere in una banca e durante la notte passeggia insonne nella propria camera. Una carrellata di non-luoghi simbolo della condizione esistenziale contemporanea, spogliata dal post-capitalismo di ogni traccia di reale umanità in favore di puri e vacui simulacri della stessa. Attraverso una quanto mai emblematica, lunga inquadratura di un tappeto mobile Sorrentino sintetizza la totalità dello spettro psico-sociale dell'uomo a cavallo tra i millenni, senza bisogno di una singola parola, bensì ricorrendo alla nuda potenza semantica delle immagini.

Tale situazione di stallo viene, d'un tratto, spezzata da quella che Di Girolamo stesso definisce la più pericolosa scelta che abbia mai fatto: parlare finalmente all'unica donna che sia in grado di ricordargli i sentimenti provati un tempo. Ripescando a piene mani dai canoni del noir classico, l'autore affida a un'affascinante presenza femminile il compito di stravolgere la situazione iniziale di un uomo invischiato nel malaffare ma non abbastanza forte da reggere gli effetti di tale stile di vita, fino al rovinoso finale. Rispetto al canovaccio di opere come La fiamma del peccato (Double Indemnity, Billy Wilder, 1944) e I gangsters (The Killers, Robert Siodmak, 1946), la pellicola in analisi ribalta però la caratterizzazione della femme fatale, tramite una Sofia conturbante solamente fino a quando il protagonista si limita a osservarla a distanza di sicurezza, per rivelarsi successivamente come una persona di notevoli principi morali e semplicità quasi sconosciute al raffinato ex commercialista. Una decostruzione del genere che permette al cineasta napoletano di mettere in scena un personaggio a metà tra quelli tipici dello stesso e la figura dell'inetto letterario resa celebre dai romanzi di Italo Svevo. Una caratterizzazione non lontana da quella dell'anonimo antieroe di Fight Club (David Fincher, 1999) o dello smemorato Leonard in Memento (Christopher Nolan, 2000), divenuti nel corso degli simboli cinematografici dell'esplorazione da parte della settima arte di uno status antropologico comune all'intera specie all'indomani della caduta del muro di Berlino.

Le conseguenze dell'amore riesce, in conclusione, a espandere i primi semi dell'idea cinematografica di uno dei registi più influenti della cinematografia attuale, trasportando allo stesso tempo la scena italiana in un contesto dal respiro internazionale, cogliendo i i segni di una malattia sociale che travalica ampiamenti i confini nostrani a cui spesso gli autori del Belpaese si limitano.


domenica 12 dicembre 2021

SIR GAWAIN E IL CAVALIERE VERDE: IL VIAGGIO DELL'EROE TRA CIVILIZZAZIONE E STATO DI NATURA

Nonostante un unico exploit all'interno del cinema più commerciale (Il drago invisibile, Pete's Dragon, 2016), David Lowery è un nome che gli appassionati ormai attendono a ogni sua nuova fatica con molta curiosità, in special misura tra le nuove leve del firmamento statunitense. In seguito a numerosi ritardi causati dalla pandemia di COVID-19 il 2021 vede, finalmente, la distribuzione in tutto il mondo della sua ultima opera, Sir Gawain e il Cavaliere Verde (The Green Knight), seppur con una certa delusione per l'arrivo direttamente in streaming per quanto concerne il mercato italiano. Accolto con entusiasmo unanime in patria, il film sta attirando nel belpaese pareri più contrastanti, probabilmente anche per un crescente fastidio verso la casa di produzione A24, rea secondo certa critica di imporre ai propri registi un determinato stile ben identificabile (cosa che non sembrava infastidire ai tempi delle major della Hollywood classica o della Hammer negli anni Sessanta). Scopriamo quanto c'è di vero in entrambe le interpretazioni.

Liberamente ispirato all'omonimo poema epico-cavalleresco risalente al XIV secolo, il lungometraggio segue le gesta dell'aspirante cavaliere Gawain (Dev Patel), figlio di Morgana (Sarita Choudhury) e dunque nipote di re Artù (Sean Harris), che, nel corso dei festeggiamenti di Natale presso la corte reale, si offre di partecipare alla sfida lanciata dal misterioso Cavaliere Verde. Il protagonista decapita l'avversario senza alcuno sforzo ma, secondo le regole imposte in precedenza, è costretto l'anno successivo a recarsi presso la cappella nemica per subire la medesima ferita. Pur di rispettare l'impegno preso il nobile inizia un viaggio che ne cambia completamente la visione del mondo.

Aspettarsi da Lowery, sostenuto oltretutto da una casa di produzione come la A24, un fantasy di ispirazione medioevale nel solco di quanto offerto dai kolossal hollywoodiani sarebbe del tutto fuorviante per la fruizione di Sir Gawain e il Cavaliere Verde, che, al contrario, rispecchia in tutto e per tutto la personalità del suo autore. Come in parte già avvenuto con The Old Man & the Gun (David Lowery, 2018), il cineasta e montatore americano non nasconde i riferimenti a pietre miliari del genere o del filone narrativo di pertinenza, come Excalibur (John Boorman, 1981), a cui però aggiunge un gusto per la rarefazione e la dilatazione spazio-temporale delle inquadrature tipica della propria visione della settima arte. Se il fantasy oggi vive soprattutto dei meravigliosi mondi e delle battaglie di massa rese possibili dai progressi della CGI, la pellicola in analisi opta per un'illuminazione naturale ben più vicina al cinema di Malick ed effetti speciali analogici come matte painting e trucco protesico che richiamano alla mente la trilogia originale di Star Wars. Proprio con l'universo ideato da George Lucas condivide anche un impianto narratologico evidentemente in linea con il classico viaggio dell'eroe analizzato da Joseph Campbell: Gawain , presentato come un giovane dalle grandi aspirazioni ma ben poca dimestichezza con le grandi imprese, percorre un itinerario che fin da subito perde ogni connotazione geografica in favore di una dimensione prettamente etico-psicologica, attraverso cui perde l'innocenza e raggiunge finalmente la maturità dell'uomo adulto. Nel rispetto di questi canoni codificati fin dagli albori della narrativa, il protagonista è costretto a superare una serie di ostacoli lungo il cammino, impilati da Lowery attraverso una carrellata del tutto priva di decoupage classico al punto da rievocare la tradizione teatrale medievale dei luoghi deputati, nei quali l'ipotassi alla base del cinema narrativo tradizionale cedeva il passo alla paratassi. Tale ispirazione diventa quanto mai esplicita nella sequenza in cui lo scontro tra Gawain e il Cavaliere Verde viene messo in scena, per il pubblico ludibrio, tramite il teatro dei burattini o nelle insistite inquadrature, in dettaglio, di affreschi dalla netta estensione in orizzontale, proprio in conformità con il suddetto spettacolo tipico del periodo.

Altrettanto in linea con questa forma teatrale così lontana dalla compostezza delle unità aristoteliche risulta anche la strisciante e costante compresenza della dualità: sacro e profano, dovere e piacere, Cristianesimo e Paganesimo danno vita a una costante tensione che da un lato ben esemplifica la tensione tipicamente adolescenziale di un bambino che sta per diventare adulto, dall'altro suggerisce anche lotta ancora molto attuale tra civilizzazione e stato di natura. Recuperando una dialettica molto cara alla filosofia di Jean-Jacques Rousseau, Lowery esemplifica tramite le figure opposte dei contendenti alla sfida di Natale i poli opposti di uno scontro che travalica i secoli come quello tra le regole e i vincoli imposti dalla società umana e la libertà, selvaggia e forse anche per questo spaventosa, della vita allo stato brado, fatta di istinti basici resi ancor più proibiti dalla rigidezza dell'etica cristiana. Il confronto finale tra l'aspirante cavaliere e il suo soprannaturale nemico, con la presa di coscienza ottenuta in seguito a un lungo sogno premonitore, sembra proprio alludere all'importanza nella formazione di un individuo realmente maturo della scoperta di tutta quella parte inconscia, scevra dalle limitazioni imposte dalla società civile, che forgiano l'uomo, rendendo anche tutt'altro che un semplice vezzo sensazionalistico l'inquadratura (già cult o scult a seconda dei punti di vista) dello sperma sulla cintura magica donata all'eroe dalla madre prima e da una conturbante nobildonna (Alicia Vikander) dopo.

Sir Gawain e il Cavaliere Verde continua, in conclusione, il percorso cinematografico intrapreso dal proprio autore in bilico tra omaggio ai maestri della New Hollywood (Malick, Coppola, Lucas ecc.) che lo hanno formato e una spiccata personalità poetico-stilistica che riesce a gettare una luce nuova su temi e topoi secolari. Forse non la miglior traduzione filmica del ciclo arturiano ma certamente una delle più coraggiose e coerenti con una determinata idea di cinema e scusate se è poco di questi tempi.