sabato 28 marzo 2020

UNSANE: L'ILLUSIONE DEL REALE ATTRAVERSO I MEZZI DI RIPRESA CONTEMPORANEI

Se Robert Louis Stevenson fosse vissuto oggi avrebbe sicuramente riconosciuto in Steven Soderbergh una perfetta incarnazione del suo celeberrimo dottor Jekyll, almeno cinematograficamente. Qualunque cineasta operante all'interno del sistema produttivo hollywoodiano deve, necessariamente, fare i conti con il difficile equilibrio tra l'espressione più pura della propria personalità e i paletti imposti dall'apparato economico che ne finanzia il lavoro. Molti finiscono per mettere completamente in secondo piano qualunque velleità stilistica o poetica, pochi riescono a imporre il proprio marchio alla produzione (si pensi a figure come Christopher Nolan o David Fincher) ma è quasi unico il caso di un autore che alterna da una trentina d'anni film smaccatamente commerciali (senza alcuna accezione negativa, si badi bene) ad altri più piccoli in termini di costi di produzione e ben più sperimentali. Forse proprio a causa di un percorso così singolare oggi Soderbergh non è più un nome capace di sbancare il box office come tra anni Novanta e primi vagiti del Duemila, ciononostante continua a regalare pellicole di notevole interesse in entrambi i settori della sua filmografia, dalla quale ho pescato oggi Unsane. Girato nell'arco di un paio di settimane, in totale segreto, il lungometraggio rientra senza dubbio tra quelli più indipendenti e personali del regista americano, pur avendo ricevuto, oltre a ottime recensione, un'accoglienza tutt'altro che negativa al botteghino, dove ha incassato quasi quindici milioni di dollari a fronte di uno solo speso per girarlo.

L'opera in analisi segue il difficile tentativo di ritorno a una vita normale da parte di Sawyer (Claire Foy), donna in carriera perseguitata in passato da uno stalker sempre più insistente. Nonostante gli incoraggianti risultati lavorativi raggiunti, la protagonista fatica ad instaurare rapporti interpersonali e sente di non essersi ancora del tutto ripresa dai suoi dolorosi trascorsi, così si rivolge a una terapista che, in maniera piuttosto ingannevole, la convince a firmare un documento di ricovero spontaneo di almeno ventiquattro ore all'interno della clinica in cui lavora. Con la legge che le volta le spalle, Sawyer si ritrova suo malgrado a dover sopportare una detenzione ancora più lunga, resa insopportabile dalla presenza tra gli inservienti proprio di David Strine (Joshua Leonard), il suo persecutore.

Come già avvenuto in numerose opere precedenti, Soderbergh torna ancora una volta a raccontare il complesso rapporto tra la società americana e la donna, mettendo quest'ultima e il suo percorso psicologico/emotivo al centro. Compiendo una sorta di sintesi tra la dimensione prettamente socio-politica di Erin Brokovich (2000) e quella maggiormente intima di The Girlfriend Experience (2009), Unsane si dipana attraverso due binari principali che si intrecciano nel corso del racconto: dal canale primario, dedicato all'angosciante thriller psicologico che vede Sawyer internata, contro la sua volontà, proprio insieme allo stalker che le ha rovinato la vita, si dipana un secondo filone narrativo, più legato al cinema d'inchiesta, incentrato sulla denuncia del diffuso sistema delle truffe organizzate dalle cliniche psichiatriche sovvenzionate dalle assicurazione sanitarie. Con grande abilità, il regista riesce non soltanto a evitare che il film offra la sensazione di essere un assemblaggio di due prodotti in uno, ma utilizza il fortissimo attacco a uno degli aspetti maggiormente disumani del sistema sanitario americano come un ulteriore strumento per amplificare il senso di oppressione trasmesso dal suo thriller.

Allo stesso modo l'autore di Sesso, bugie e videotape (Sex, Lies and Videotape, 1989) unisce le esigenze narrative alle tecniche di ripresa. Il ricorso a uno smartphone al posto della usuale cinepresa professionale non è un semplice vezzo o stratagemma per ridurre i costi di produzione, bensì una precisa scelta estetica e poetica. Se dovessi riassumere in un unico simbolo l'attuale condizione di convergenza tra le arti visive e tutte le nuove tecnologie digitali di riproduzione di immagini questi sarebbe sicuramente l'Iphone, il cellulare che ha creato lo status symbol dello smartphone. Il grande fratello orwelliano che segue tutti noi in ogni momento della nostra vita, finendo spesso per sostituirla con il regno del web che navighiamo ormai quasi esclusivamente attraverso il suo piccolo schermo. Persino il cinema oggi viene sempre più spesso sostituito dai sei pollici con cui postiamo nuove storie di Instagram. Uno strumento così influente sul nostro concetto di realtà da essere diventato una sorta di giudice, di discriminante su ciò che è vero e ciò che non lo è; ciò che esiste e quello che invece no. Ecco dunque che un assiduo sperimentatore e appassionato del rapporto tra settima arte e nuove tecnologie come Soderbergh si affida a questo device per raccontare proprio la storia di una donna qualunque alle prese con una situazione che ne mette in serio dubbio il concetto di reale. Sawyer, già visibilmente provata dal trauma subito in passato, una volta ricoverata forzatamente finisce per sentire la propria sanità mentale vacillare e persino il suo unico amico all'interno della clinica, il reporter Nate (Jay Pharoah), che tenta di tenere a galla la sua razionalità potrebbe in fondo essere un altro individuo affetto da gravi paranoie.

La tipica ambiguità del thriller trova in Unsane una corrispondenza ideale con le tematiche sociali sottese alla trama principale, proprio come accade nel cinema di genere più riuscito, sfruttando però anche la novità tecnologica rappresentata dall'uso di un cellulare al posto di una macchina da presa. Una vittoria su tutti i fronti per l'esperimento di Soderbergh e, allo stesso tempo, un fortissimo grido d'allarme per due temi di estrema attualità. Per quanto paradossale possa sembrare la sua storia, tutti noi conosciamo almeno una Sawyer distrutta nel corpo e nella mente da un uomo che sa amare solo in modo malato e da istituzioni che mettono sempre in secondo piano le richieste d'aiuto femminili.


venerdì 20 marzo 2020

FIRST MAN - IL PRIMO UOMO: IL CARO PREZZO DEI SOGNI

A trentacinque anni e con meno di cinque lungometraggi al proprio attivo, tra cui uno totalmente indipendente, difficilmente si riesce a raggiungere i vertici della piramide alimentare hollywoodiana, eppure Damien Chazelle si trova oggi in questa invidiabile posizione, soprattutto dopo il successo strepitoso di La La Land (2016). Come da prassi ormai consolidata anche il giovane regista di Providence, complici i tantissimi premi ricevuti, condivide in egual misura estimatori e detrattori in tutto il mondo, in special modo dopo l'uscita della sua ultima fatica: First Man - Il primo uomo (2018). Nonostante le recensioni in grandissima parte positive ricevute, il film ha ricevuto numerosi attacchi dalla classe politica statunitense che ne hanno inficiato il percorso al botteghino, rivelatosi piuttosto deludente considerato il budget molto cospicuo e le legittime ambizioni.

La pellicola racconta, proprio come la biografia omonima, la vita di Neal Armstrong (Ryan Gosling), in particolare degli eventi che dagli albori degli anni Sessanta lo portano a posare piede sul suolo lunare. Pur senza lesinare sulle numerosi missioni ed eventi pubblici a cui l'uomo partecipa, il racconto si concentra soprattutto sul privato del protagonista, a cominciare dalla morte della figlia, passando poi per i rapporti con i colleghi più intimi e la moglie Janet (Claire Foy).

Di primo acchito l'idea di un biopic, genere già di per sé spesso votato alla celebrazione, su una delle figure più idolatrate della giovane storia statunitense può far pensare a un trionfo della retorica a stelle e strisce più gretta ma Chazelle non è certamente il classico cantore dell'american way of living e lo dimostra persino nel trattare una materia tanto delicata come questa. First Man, come detto poc'anzi, non cela le grandi imprese di cui si rende protagonista Armstrong, così come non nega la portata epocale di quella breve passeggiata mai sperimentata prima da nessun essere umano, ma focalizza il proprio sguardo sull'uomo dietro la tuta da astronauta, dipingendo un personaggio del tutto coerente con quelli visti nelle sue precedenti opere. Attraverso anche la peculiare recitazione per sottrazione dell'ottimo Ryan Gosling, l'autore di La La Land mette in scena in primo luogo un'esplorazione acuta e molto intima di un uomo posto dinanzi a una delle peggiori tragedie possibili: la perdita di una figlia, ancora bambina per di più. Per tutto il corso del lungometraggio, sia nelle sequenze in ambito familiari che in quelle sui mezzi della NASA, il cineasta americano pone la sua cinepresa, quasi sempre a mano, in posizione estremamente vicina ai volti e ai corpi dei personaggi, in particolare quelli dei coniugi Armstrong. Attraverso questo costante pedinamento, tra i silenzi di Neil e i tentativi di risvegliare nel sopito marito lo spirito dell'uomo che ama da parte di Janet, viene esplicitato il ruolo centrale assorto dal tema dell'elaborazione del lutto e di come i continui colpi inferti da un fato crudele finiscano per inficiare persino il raggiungimento di un sogno. Un sogno non più solamente privato ed "egoistico" come quello vissuto da Miles Teller in Whiplash o dallo stesso Gosling nel successivo lavoro di Chazelle, bensì un ambizioso obiettivo condiviso da milioni di persone e per questo ancora più importante. Un traguardo così prezioso da essere perseguito a discapito anche di un sacrosanto momento per poter piangere la morte di un amico (si pensi allo straziante silenzio con cui Armstrong reagisce alla telefonata che gli annuncia la morte di Edward White, interpretato con notevole efficacia da Jason Clarke) o delle comprensibili perplessità di una fetta di popolazione, ormai fin troppo coinvolta dall'assurdità del Vietnam e dalle iniquità sociali degli USA del periodo.

Ancora una volta dunque Chazelle racconta la storia di un sogno così potente, così folle da fagocitare qualunque cosa: figli, amici, amore, consenso popolare. First Man non rappresenta una sviolinata alla politica di potenza americana (ecco perché non viene inserito, alla faccia di tutte le polemiche, il celeberrimo momento in cui viene affissa la bandiera a stelle e strisce sul nostro satellite), bensì un nuovo capitolo della riflessione del regista su quanto si possa perdere delle propria umanità pur di perseguire uno scopo, per quanto nobile possa essere. La meravigliosa sequenza sul suolo lunare sembra concedere finalmente la redenzione tanto agognata per il tormentato Armstrong, eppure quella parete, per quanto trasparente, nella scena finale che lo divide dalla coraggiosa consorte non può che riportare alla mente il desolante addio tra Sebastian e Mia in La La Land.

domenica 1 marzo 2020

BRIGHTBURN: DAL MESSIA ALL'ANTICRISTO ALIENO

Il cosiddetto cinecomic è il genere cinematografico attualmente più in voga, non solo per le cifre spaventose che, per esempio, i film del MCU riescono a incassare al botteghino, ma soprattutto per l'influenza sull'intero panorama di celluloide e sull'immaginario collettivo. Nonostante sia peraltro nata agli albori del cinema stesso la connessione tra la settima arte e il fumetto, è ancora oggi piuttosto fumoso il concetto stesso di cinecomic: indica forse ogni adattamento da comic book e simili oppure si limita a quelli a carattere supereroistico? Rientrano al suo interno anche le trasposizioni dei manga giapponesi o anche le avventure di supereroi nati direttamente sul grande schermo? A rendere ancora più complessa una delimitazione del genere, come spesso accade dalla rivoluzione portata dalla New Hollywood, si trova inoltre la tendenza crescente da parte di molte pellicole a ibridare più filoni estetico-narrativi al suo interno, come accade, ad esempio, con gli influssi western di Logan (James Mangold, 2017). Proprio la fusione al suo interno di più generi è alla base della pellicola che intendo porre all'attenzione oggi, Brightburn, diretta nel 2019 dall'esordiente David Yarovesky. Attraverso una sagace campagna pubblicitaria e il coinvolgimento nel ruolo di produttore di James Gunn, uno dei registi più amati all'interno del cinema supereroistico, quest'opera prima, dal budget peraltro molto contenuto per gli standard hollywoodiani, ha potuto godere di un buon successo al box office, pur dovendo pagare in sede critica lo scotto dovuto da attese rivelatesi probabilmente fin troppo elevate.

Protagonista assoluto del lungometraggio è Brandon Bryer (Jackson A. Dunn), dodicenne un po' schivo e con pochi amici ma molto legato ai genitori adottivi Tori (Elizabeth Banks) e Kyle (David Denman). Quello che potrebbe sembrare un tipico nucleo familiare americano nasconde un enorme segreto: il ragazzo dei Bryer in realtà è stato trovato dalla coppia, dopo l'ennesimo tentativo di concepire un figlio, nei pressi della loro casa nel Kansas, all'interno di una navicella spaziale schiantatasi al suolo. Nonostante ciò Brandon è cresciuto come un bambino qualsiasi, senza sapere niente delle proprie origini, almeno fino a quando degli strani messaggi provenienti proprio dall'astronave iniziano a modificarne in maniera sinistra il comportamento.

Persino da questo esigua sinossi appare evidente, persino al meno avvezzo ai fumetti, quanto la narrazione di Brightburn sia figlia delle origin story del princeps dei supereroi, Superman. Come già anticipato dal geniale trailer che riutilizzava, con una potente carica parodica, il tema Flight che Hans Zimmer aveva composto per L'uomo d'acciaio (Man of Steel, Zack Snyder, 2013), l'esordio al lungometraggio di Yarovesky si rivela una sorta di "what if", di trasposizione del percorso di crescita del kryptoniano più famoso della nona arte modificando un unico, tutt'altro che insignificante dettaglio: la trasformazione del campione di moralità che tutto il mondo conosce in un essere privo di scrupoli. Come in uno dei celebri Elseworlds di DC Comics, il regista rievoca tutti o quasi gli elementi cardine della mitologia del supereroe di Smallville come, per l'appunto, l'arrivo in un piccolo borgo del Kansas e i genitori adottivi dediti all'agricoltura per poi ribaltarli nel momento in cui Brandon viene spinto dal lascito dei suoi avi alieni ad agire in maniera egoistica e violenta.
In ogni origin story che si rispetti il giovane destinato a diventare un eroe vive una fase in cui la scoperta dei propri poteri soprannaturali si sovrappone ai cambiamenti dell'adolescenza, in cui i primi diventano chiari simboli del traumatico passaggio dall'infanzia all'età adulta. Nel caso del protagonista del film in analisi, a differenza di quanto accade per Clark Kent, la pubertà e la contemporanea scoperta delle proprie vere origini creano un solco incolmabile tra sé e i genitori adottivi, reso ancor più profondo dalle proprie straordinarie abilità. Come spesso accade in situazione simili, il ragazzo finisce per avvicinarsi in maniera repentina e inesorabile alla sfera etico-emotiva della propria famiglia "di sangue", senza riuscire a ricucire lo strappo con Tori e Kyle. In questo senso assume un ruolo centrale l'influsso della voce proveniente dalla navicella spaziale, che inaugura la trasformazione della pellicola da tipica origin story da cinecomic in un ibrido con l'horror. In particolare il modo in cui le misteriose frasi che risuonano nella testa di Brandon, i suoi inquietanti disegni e in generale il modo in cui modifica il proprio comportamento ricordano filoni orrorifici ormai classici come quelli della possessione demoniaca e soprattutto quello, inaugurato da The Omen (non a caso diretto, nel 1976, da quel Richard Donner famoso soprattutto per la saga dedicata all'Uomo d'acciaio), incentrato sui figli del Diavolo.

La peculiare natura di meticcio tra cinecomic, coming of age e horror satanico di Brightburn si conferma anche per quanto concerne il lato visuale dell'opera. Pur non potendo contare su un budget da centinaia di milioni come le pellicole del MCU, il film non lesina nel mostrare la supervelocità o la vista calorifica del protagonista, eppure la reale potenza delle loro apparizioni si situa nel sapiente utilizzo del sonoro e in generale nel loro inserimento all'interno di sequenze ricche di tensione. Yarovesky dimostra un'abilità notevole nel gestire il registro tipico dell'horror, unendo l'attenzione per la profondità di campo e i long take di James Wan a un accorta alternanza tra silenzi ed esplosioni sonore, certificando la discesa verso l'orrore puro del lungometraggio dopo la prima metà.

Pur pagando probabilmente l'inesperienza del proprio regista, Brightburn rappresenta un coraggioso esperimento narrativo e formale all'interno dei due generi maggiormente in forma nel panorama contemporaneo, aprendo peraltro la strada a dei sequel che potrebbero dare vita a un contraltare indipendente e nichilista del modello Marvel.