venerdì 23 luglio 2021

A CLASSIC HORROR STORY: TRA DIVERTISSEMENT E SFOGO CREATIVO

 Dopo molti tentativi fallimentari di resuscitare il cinema di genere nostrano pare che finalmente i tempi siano maturati. Come già accennato durante l'analisi di The End? L'inferno fuori (Daniele Misischia, 2018) molto del repertorio stilistico e narrativo d'oltreoceano è in corso di rielaborazione da parte delle nuove leve della cinematografia italiana, dall'horror al cinecomic, passando per il revenge movie. Proprio alla prima categoria mostra di essere maggiormente legato Roberto De Feo, che esordisce al lungometraggio con il gotico The Nest- Il nido (2019) per poi scrivere e dirigere tra 2020 e 2021, in piena pandemia, A Classic Horror Story, con l'aiuto di Paolo Strippoli. Distribuito in tutto il mondo attraverso Netflix, il film si aggiudica il premio per la miglior regia al prestigioso Taormina Film Fest e al momento svetta tra le prime posizioni dei contenuti più visti sulla piattaforma on-demand. Un risultato di grande prestigio per una produzione del nostro paese, ancor di più se di genere, accompagnato però anche da alcune recensioni non del tutto lusinghiere. Come quasi sempre accade nella vita la verità si situa metà strada tra entusiasmo scrosciante e snobbismo sprezzante e adesso scoprirete perché.

La pellicola inizia come un tipico road movie, con un gruppo di sconosciuti che si trova a viaggiare insieme tramite un app di carpooling, in direzione Calabria. I viaggiatori in questione sono Elisa (Matilda Lutz), laureata alla Bocconi che intende interrompere una gravidanza scomoda per la propria carriera, i fidanzati Mark (Will Merrick) e Sofia (Yulia Sobol), il burbero medico Riccardo (Peppino Mazzotta) e il proprietario del camper Fabrizio (Francesco Russo), studente di cinema e videoblogger. Durante la notte il veicolo, per evitare un animale sulla carreggiata, finisce fuori strada, con il conducente momentaneo, Mark, gravemente ferito. Quando tutti riprendono i sensi in seguito allo schianto il gruppo si trova in un bosco sperduto, il cui unico segno di civiltà è rappresentato da una sinistra casa, disabitata ma decorata con dipinti legati alla leggenda locale di Osso, Mastrosso e Carcagnosso, che avrebbero salvato la popolazione del Sud Italia dalla povertà in cambio di sacrifici umani. Il bosco nel corso della notte viene popolato proprio da presunti adoratori di queste figure, pronti a sacrificare le vite dei protagonisti.

Svelare ulteriori dettagli della trama di A Classic Horror Story sarebbe un delitto grave almeno quanto quelli che avvengono nel corso della pellicola, per motivi che chiunque l'abbia già vista può facilmente comprendere. Il film, difatti, può essere diviso in due macrosezioni, rese ancor più evidenti da un colpo di scena che ribalta non solo le certezze nei confronti dei personaggi e di quanto accaduto precedentemente, bensì anche circa le scelte formali e i messaggi che esse veicolano. La trasformazione del lungometraggio in un incastro di scatole cinesi, reminiscente dei sequel di Scream (Wes Craven, 1996), mette in luce quanto fosse assolutamente volontaria la costante messa in scena di evidenti riferimenti a capisaldi dell'horror americano, da Non aprite quella porta (The Texas Chainsaw Massacre, Tobe Hooper, 1974) fino ai più contemporanei Wrong Turn- Il bosco ha fame (Wrong Turn, Rob Schmidt, 2003) e Il rituale (The Ritual, David Bruckner, 2017), con cui condivide l'ambientazione boschiva, i frequenti campi lunghi e lunghissimi e persino alcune specifiche inquadrature. Come farà notare Elisa, evidentemente scelta fin dall'incipit come final girl, nella seconda parte dell'opera, l'abbondanza di citazioni cinefile è sfacciatamente esibita, cosa che rende assolutamente giustificata la svolta metafilmica finale, che si concentra principalmente in un duro attacco verso l'inesistente industria culturale italiana, la diffidenza del pubblico verso le produzioni nostrane e la fascinazione cieca nei confronti dei lavori stranieri. Purtroppo si tratta di argomentazioni fin troppo conosciute nel 2021, ribadite nelle più disparate sedi da tanti altri addetti ai lavori o semplici appassionati, rese per di più ancora meno interessanti da una esplicitazione di queste tematiche che sfocia nel didascalismo, quasi a offendere l'intelligenza dello spettatore.

Molto più sottile e degna di nota è, invece, la dialettica che viene a crearsi tra il film nel film e il mondo reale. La cura maniacale nel dare vita a una summa di tutti i topoi immortalati da decenni di cinema orrorifico americano acuiscono il contrasto con la dimensione italiana in cui vivono i personaggi, fatto di modeste spiagge libere, famiglie meridionali tutt'altro che cool e una 'ndrangheta che non ah proprio niente da spartire con il fascino criminale reso celebre da Hollywood. La sequenza finale esemplifica ai massimi livelli proprio tale dicotomia tra due modi intendere il cinema e, forse, anche la vita stessa: quello patinato, archetipico e superficiale statunitense contro quello italiano, più ancorato al reale e a una lunga tradizione culturale e antropologica. Alla luce di tali riflessioni assume pieno significato la totale sottomissione di tutta la prima parte della pellicola alla lezione d'oltreoceano, così da rendere ancora più straniante e artefatto tale idea di horror quando viene a scontrarsi con la quotidianità nostrana. Un ulteriore strumento, questa volta fortunatamente affermato con i mezzi più potenti che la settima arte mette a disposizione (le immagini), atto a criticare l'esagerata esterofilia dello spettatore medio quando si tratta di cinema horror. Da questo di vista non può non strappare un sorriso beffardo l'ultimissima sequenza, che si prende il lusso di sbeffeggiare anche Netflix stesso, oltre alla passione tutta contemporanea verso la violenza esplicita e i giudizi trancianti privi di qualunque analisi pregressa da parte dei leoni da tastiera.

Estraniandomi dal fanatismo che viene deriso dal film stesso, non posso che consigliare la visione di A Classic Horror Story a ogni appassionato del genere, pur sottolineandone quei limiti che gli impediscono di trasformarsi da irriverente divertissement in grande cinema. Le interpretazioni del cast e la folgorante fotografia, d'altro canto, varrebbero da sole la visione, con una cura per la composizione delle inquadrature che mette davvero in imbarazzo un'alta percentuale delle produzioni americane.

sabato 17 luglio 2021

A BETTER TOMORROW 2: UN SEQUEL ALL'INSEGNA DEL DOPPIO

 Sono molti i film che finora ho analizzato all'interno dell'opera di John Woo, compreso quel A Better Tomorrow che ne lancia la carriera, in patria e all'estero, nel 1986. Oggi ho deciso di porre la mia attenzione proprio al seguito diretto di quell'enorme successo di critica e pubblico, A Better Tomorrow 2, uscito solamente a un anno di distanza dalla summenzionata pellicola nonostante una lavorazione tutt'altro che agevole. Sono ben noti i dissapori creatisi tra il regista e il collega Tsui Hark, amico di Woo e produttore del film, che, proprio a causa di divergenze artistiche e dell'esigenza di distribuire il loro lavoro più in fretta possibile, si trovano a montare parallelamente il girato, con un risultato finale di compromesso tra le due visioni. Pur soffrendo di una paternità contrastata il lungometraggio riceve all'uscita ottimi riscontri, permettendo a Tsui Hark di mettere in cantiere, stavolta con la completa autonomia sul progetto, un ulteriore capitolo della saga, da lui anche diretto.


Il film, dopo alcuni flashback che riassumono i fatti principali del prequel, segue ancora una volta le disavventure all'interno del mondo criminale di due fratelli, il giovane poliziotto Kit (Leslie Cheung) e l'ex malavitoso Tse-Ho (Ti Lung), ora recluso in carcere. Le strade della coppia si incrociano nuovamente quando entrambi vengono reclutati per un'operazione di polizia sotto copertura, tesa a smascherare i presunti traffici di denaro falso di Si Lung (Dean Shek), mentore proprio del più grande dei due. In realtà quest'ultimo, nel tentativo di redimere il proprio passato criminale, si trova coinvolto in una cospirazione ai suoi danni ordita da alcuni suoi soci in affari, che lo incastrano per omicidio, costringendolo alla fuga in America, dove viene aiutato da Ken (Chow Yun-Fat), gemello del Mark morto nel primo episodio. Braccati sia in Cina che negli USA dai killer della potente organizzazione mafiosa dietro il summenzionato complotto, i quattro saranno costretti a combattere per le proprie vite e l'onore.


Onore, un sostantivo fondamentale nel cinema di Woo e nella saga di A Better Tomorrow, a maggior ragione in questo sequel, che sembra abbinare a esso un altro vocabolo come linea guida: doppio. Tutto ciò che era presente nel capostipite viene moltiplicato, a cominciare dalla carismatica presenza di Chow Yun-Fat, che prima interpreta con estro ancora più potente Ken, per poi renderlo in maniera ancora più letterale un doppio del gemello Mark quando arriva a Hong Kong. Qui non solo decide di aiutare, fino al punto di rischiare la morte, Tse-Ho ma addirittura ne indossa gli abiti che lo hanno reso un vero fenomeno pop, ossia impermeabile lungo, occhiali da sole a specchio e fiammifero tra i denti. Persino la magniloquente sequenza in cui l'uomo fa strage dei oi assalitori a New York non può non ricordare la strage in slow motion con cui il fratello aveva tentato di vendicare il tradimento di Shing. 

Raddoppiato risulta anche il tasso di violenza rispetto al capitolo precedente, in special modo nel corso dell'iconico bloodshed finale, nel quale gli eroi da tre diventano quattro e il numero di cadaveri caduti dinanzi alla pioggia di piombo scatenata dai protagonisti raggiunge vette difficilmente riscontrabili persino nel genere slasher. Un bodycount esaltato dal magistrale uso del ralenti che sottolinea, come sempre accade nell'action made in Woo, la caratura etica e sentimentale della carneficina, il valore mitico del sacrificio di un pugno di eroi nel tentativo di affermare il proprio onore e i propri principi morali, in contrasto alla viltà nemica. Un epilogo che, oltre a citare quello del film del 1987, rievoca quella certa dose di nichilismo che permea il cosiddetto western revisionista, ossia la rielaborazione in chiave crepuscolare del genere americano per eccellenza operata da autori quali Sam Peckinpah e Clint Eastwood, per i quali buoni e cattivi non sono poi molto diversi e soltanto una morte onorevole può riscattare un passato deprecabile. Come samurai pronti anche all'estremo sacrificio pur di difendere l'onore (non a caso a un certo punto una katana sostituisce le pistole), Tse-Ho e i suoi amici fraterni si lanciano in una battaglia all'ultimo sangue quasi unicamente per vendicare una persona amata e ribadire che, se non in questa vita, almeno in quella prossima un uomo in grado di cambiare il proprio comportamento potrà godere del meritato compenso.

Moltiplicati risultano dunque anche gli equilibri precari tra action e melò tipici del cinema dell'autore di Face/Off (1997), come dimostra la carica emotiva donata alla morte di Kit dall'uso del montaggio alternato con  la nascita del figlio. Allo stesso modo persino le linee narrative subiscono un raddoppiamento, creando una sorta di analogia con quanto fatto da Francis Ford Coppola in uno dei sequel più celebri della settima arte, Il padrino - Parte II (The Godfather Part II, 1974). In questo caso ad aumentare non sono le coordinate temporali come nel corso dell'ascesa al potere di Michael Corleone, bensì quelle spaziali, con il racconto che si districa tra Hong Kong e New York, due megalopoli tanto lontane geograficamente quanto vicine per la depravazione morale che imperversa nelle strade. Ancora una volta torna dunque il tema della decadenza dei valori umani, tema tanto caro al cineasta cinese insieme alla sacralità dell'amicizia virile, altrettanto centrale nel corso delle disavventure dei quattro protagonisti succitati.

L'esasperazione di quanto già visto nel capitolo precedente non sempre giovano alla qualità di A Better Tomorrow 2, soprattutto per un pubblico occidentale sempre piuttosto guardingo nei confronti del peculiare patetismo di Woo, eppure la qualità nella forma, perfezionata rispetto all'iterazione del 1987, e il pathos con cui si conclude la pellicola rendono la visione assolutamente consigliata a qualunque appassionato di cinema.

martedì 13 luglio 2021

BLACK WIDOW: DESTRUTTURAZIONE DEL MITO FAMILIARE

All'imbrunire di un periodo storico che definire crepuscolare sarebbe sin troppo poco esauriente, al netto delle problematiche di ogni sorta con cui lo stesso ha obbligato tutti noi a fare i conti, il Marvel Studios di disneyana proprietà è riuscito finalmente ad operare la distribuzione (anche) cinematografica del primo film della cosiddetta “Fase 4” del proprio progetto multi/transmediale MCU (Marvel cinematic Universe).

Black Widow, (Cate Shortland, 2021), rappresenta infatti il primo tassello di un più ampio quadro atto a riconquistare la dimensione che in tempi recenti ha permesso alla Disney di rinnovare il concetto di serialità, quella sala cinematografica che, proprio grazie alle numerose e variegate traduzioni filmiche delle epopee in singolo o in gruppo dei supereroi della Marvel Comics, ha incontrato una nuova fase “attrazionale” della propria storia.

Distribuito in sala e sulla piattaforma di proprietà, Disney +, quale primo lungometraggio successivo al campione di incassi vero e proprio turning point diegetico e produttivo Avengers: Endgame (Anthony & Joe Russo, 2019), in contingenza delle serie televisive WandaVison (Jac Schaffaer, 2021), The Falcon and The Winter Soldier (Malcolm Spellman, 2021) e Loki (Michel Waldron, 2021), Black Widow rappresenta anche l'esordio in solitaria dell'eroina Natasha Romaoff a cui presta il volto un'ultima volta la star Scarlett Johansson.

Co-protagonista di quasi tutte le pellicole corali legate al gruppo degli Avengers (senza comunque disdegnare incursioni più o meno significative anche in opere dedicate a singoli personaggi del MCU), la Johansson dà qui addio al suo alter-ego proprio al termine della prima e unica avventura totalmente dedicataria: Eros e Thanatos, principio e fine pertanto, in un susseguirsi di concetti archetipici su cui la pellicola non manca di fare solido affidamento.

Ambientata subito dopo gli eventi di Captain America: Civil War (Anthony & Joe Russo, 2016) l'avventura di Vedova Nera si pone pertanto quale prequel in merito alla narrazione orizzontale generale dell'universo Marvel, (al netto delle già citate serie tv più recenti), rendendo, conseguentemente, diegeticamente credibile e finanche fruibile lo svolgersi stesso degli eventi. Pandemia mondiale, nuclei ideali ancestrali e plausibili situazioni catartiche rappresentano pertanto un novero di identità formative indirizzanti della pellicola, sia per quanto concerne la vicenda produttivo-logistica che, ancor più, l'aspetto più prettamente tematico-narrativo.

Il succedersi degli eventi, muovendo le proprie leve, in medias res, subito dopo la fratricida guerra tra eroi che aveva visto la creazione di due fazioni contrapposte tra loro, ci immerge tra le conseguenze della scelte operata dalla Romanoff, ormai considerata una sorta di terrorista internazionale dalle autorità chiamate a vigilare sulla moralità delle azioni del gruppo dei “Vendicatori”. Tra le pieghe di un futuro sempre più incerto riemergono, come spesso capita, inesorabilmente elementi fondativi del passato, utili finalmente a fare maggiore luce sul background del personaggio della Johansson: infatti la pellicola ci mostra finalmente la “famiglia d'origine” della protagonista, rendendo manifesto allo spettatore alcune delle ragioni che ne hanno motivato le successive scelte. Quella che nei primi minuti sembra incarnare i clichè più classici della famiglia tradizionale delle cultura statunitense, col susseguirsi del racconto si rivela in realtà un bluff: il focolare d'infanzia di Vedova nera altri non è che un team sotto copertura, assemblato dalle autorità sovietiche quale modus operandi risolutivo all'infiltrazione in territorio nemico.

In ossequio alla tradizione in materia di narrazione identitaria di “origin story” riguardanti personaggi fumettistici e non, dopo un lavoro analettico atto appunto a chiarire alcuni particolari narrativi della vicenda, la Romanoff dovrà successivamente affrontare letteralmente i demoni provenienti dal proprio passato. Dovendo far fronte ad un climax crescente e trovandosi in virtù di ciò costretta, suo malgrado, a ricostituire il proprio mendacio nucleo familiare, Vedova Nera riuscirà finalmente a sconfiggere la propria nemesi Dreykov (la cui vicenda serve da collegamento atto a gettare nuova luce narrativa e concettuale al rapporto intercorso tra la protagonista e l'agente Clint Burton di Jeremy Renner), tornando a sperare in un futuro più roseo, esemplificando i primi seminali elementi della ricostituzione del gruppo dei Venditori che la crisi senza precedenti narrata in Avengers: Infinity War (Anthony & Joe Russo, 2018) renderà quanto mai necessaria.

Dalla doverosa messa in evidenza dei salienti avvenimenti che nutrono la linea narrativa, appare lampante il fatto che le contingenti tematiche principali trovano proficua ragion d'essere proprio nelle già citate concezioni ataviche di famiglia, della contrapposizione tra passato e presente (e le conseguenze dirette sul futuro) e la lotta tra le spinte vitalistiche e le derive mortuarie. L'intera linea narrativo-tematica di Black Widow ruota attorno a quel che può, a ragion veduta o meno, rappresentare un archetipo dell'idea di famiglia, la quale, durante il susseguirsi degli eventi, vive un susseguirsi di fasi identitarie spesso antitetiche.

Se infatti il primo flashback gioca volutamente con i codici congeniali del racconto borghese (con voluti e coerenti rimandi al dramma d'interni di derivazione teatrale), dipingendo, in un primo momento, un quadro d'insieme dove i rapporti tra i personaggi vivono di coppie speculari (sorella-sorella e padre-madre) e dove l'escalation negativa trova origine apparentemente proprio dalle azioni del patriarca, il twist narrativo che svela la natura ingannevole dell'architettura familiare descritta introduce gioco-forza l'iter de-strutturante di quanto avanzato in precedenza.

Il percorso di de-strutturazione delle dinamiche familiari della pellicola procede in realtà in maniera speculare e dicotomica con quelle che sono le peculiarità più salienti dello stesso personaggio di Natasha Romanoff: disillusione e assenza di empatia insiti in Vedova Nera conoscono adesso una nuova ragion d'essere che ne ricolloca i confini, affidando una nuova chiave di volta anche al concetto di catarsi.


La deriva catartica che conclude il susseguirsi narrativo e tematico di
Black Widow trova una propria dimensione solo in seguito alla convergenza tra passato (il dramma familiare), presente (la vicenda narrativa saliente della pellicola) e il futuro (il ricongiungimento auspicato degli Avengers in vista di crisi ben più probanti).

Natasha Romanoff trova pertanto la forza di ricostruire la propria identità e, conseguentemente, rinascere quale figura umana a 360 gradi, dotata di emozioni, al netto di virtù e debolezze come qualsivoglia persona comune, solo dopo aver affrontato una allegorica morte trascendente: solo l'accettazione di un passato ebbro di sofferenza e tragedia permette a Vedova Nera di carpire la portata della propria identità, consentendole in seguito di possedere quella maturità e quell'equilibrio interiore atto a permetterle di vivere il proprio sacrificio finale (Avengers: Endgame) quale più nobile e puro slancio vitalistico plausibile.


Al percorso introspettivo e personale di un personaggio fin qui relegato sempre al ruolo di comprimario, la regista australiana abbina un interessante riflessione sui rapporti di potere tra uomo e donna, sfruttando un villain quasi sempre avvolto nell'ombra come personificazione della sottomissione psicologica con cui spesso gli uomini riescono a limitare la libertà femminile. Un tema trattato con risultati altalenanti, specie se confrontato con quanto fatto nella serie Marvel
Jessica Jones (Melissa Rosenberg, 2015-2019), dove la narrazione riesce a mettere in scena con maggiore efficacia non solo gli strumenti di sopraffazione maschile, bensì anche gli effetti di tali pressioni psicologiche sulle vittime.

In un periodo storico tanto delicato come quello in cui Black Widow ha visto concretizzarsi il proprio progetto, le tematiche ataviche, concilianti e, in una certa misura, catartiche portate avanti dalla pellicola non possono che sposarsi a meraviglia con il contesto socio-culturale del pubblico generalista e pertanto, nonostante la componente registica non evidenzi particolarismi degni di nota, (affidando la magniloquenza visiva soprattutto alle fin troppo numerose sequenze d'azione), la pellicola porta in fin dei conti a termine in maniera dignitosa il proprio compito: l'avventura in solitaria di Vedova Nera rappresenta infatti, al contempo, una compiacente chiusura di un cerchio circonciso e, in contingenza, n un piccolo passo verso il proseguo della narrazione seriale cinematografica della casa di Topolino.

mercoledì 7 luglio 2021

LA FORMA DELLA VOCE: L'INVISIBILE BATTAGLIA DELLA DEPRESSIONE GIOVANILE

 Ancora oggi, a 2021 ben inoltrato, una fetta tutt'altro che trascurabile dello spettatore medio considera l'animazione un "genere" riservato ai bambini, completamente trascurabile e privo di significanti una volta divenuti adulti. Gli anime, ossia le produzioni di questo tipo di origine giapponese, hanno dimostrato nel corso di almeno tre decenni la falsità di tale convinzione, spingendosi spesso a trattare argomenti taboo in maniera spesso più schietta e coraggiosa rispetto a tante controparti live action. A questo folto gruppo di pellicole appartiene senza alcun dubbio La forma della voce - A Silent Voice (Koe no katachi, Naoko Yamada, 2016), trasposizione dell'omonimo manga acclamato sia in patria che all'estero, arrivando a incassare anche cifre molto elevate al botteghino. Scopriamo adesso i motivi di tale successo, in primo luogo proprio tra quel pubblico maturo che secondo molti dovrebbe smettere di guardare i "cartoni animati".

Il film racconta la problematica adolescenza di Shoya, studente liceale che, in preda a una forte depressione, medita il suicidio. Attraverso un lungo flashback viene mostrato il periodo scatenante tale disturbo: durante le scuole elementari il ragazzo aveva iniziato a prendere di mira una propria compagna sorda insieme ad alcuni amici, finendo però per pagarne in prima persona le conseguenze una volta che gli adulti avevano scoperto gli atti di continuo bullismo. Da quel momento il protagonista si ritrova sempre isolato dal mondo e corroso dai sensi di colpa, fino a quando non incontra nuovamente Shoko, l'ex compagna perseguitata. Shoya tenta di instaurare un rapporto di amicizia con la giovane, arrivando a diventare sempre più vicini e a crearsi anche una piccola cerchia amicale ma il passato continuerà a bussare, tragicamente, alla sua porta.

Arrivato sul grande schermo in Italia sull'onda del successo ottenuto dalle opere di Makoto Shinkai, La forma della voce ne condivide l'intimismo e l'interesse nei confronti dell'adolescenza, distanziandosene però in molti altri aspetti. La pellicola, del tutto priva di elementi fantastici come quelli presenti in Your Name. (Kimi no na wa., Makoto Shinkai, 2016), pur mettendo in scena una love story in divenire si concentra soprattutto sulla rappresentazione per immagini e suoni della depressione. Un male della mente e dell'animo che colpisce i ragazzi molto più frequentemente di quanto i media generalisti vorrebbero far credere e che, proprio a causa della propria natura psicologica, risulta difficilmente filmabile rispetto al decadimento fisico visto in tanto cinema presente e passato. Per poter dare forma al malessere di Shoya la regista nipponica fonde, con grande perizia e sagacia, la libertà immaginifica offerta dai disegni animati alla più qualitativamente elevata tradizione cinematografica legata al tema: la filmografia di Michelangelo Antonioni. Per rappresentare visualmente il disagio del protagonista nei confronti dei rapporti umani e la sua solitudine i volti delle persone con cui non riesce a entrare in contatto vengono coperti da vistose croci, che decadono letteralmente soltanto quando il ragazzo riesce finalmente a interagire con il prossimo. Dal maestro italiano, invece, Yamada recupera l'attenzione per il linguaggio del corpo e l'uso altamente simbolico dello spazio urbano visto, ad esempio, in Deserto rosso (Michelangelo Antonioni, 1964). Proprio come nel lungometraggio con protagonista Monica Vitti, l'anime in analisi sfrutta soprattutto i tic, la gestualità e i movimenti quasi impercettibili del corpo di Shoya per metterne in luce l'evidente difficoltà nell'approccio con gli altri, causate peraltro da un evento traumatico passato trasformatosi in onta sociale esattamente come il tentato suicidio di Giuliana. Anche gli edifici, le strade o le stanze inquadrate con insistenza rievocano l'espressionismo con cui il cineasta ferrarese affidava alla disumanizzata urbanizzazione dell'Italia del boom economico il compito di sintetizzare l'impossibilità dell'uomo di creare autentici rapporti interpersonali all'interno della società postcapitalista.

Tutti gli adolescenti al centro della pellicola, non solamente l'ex bullo e Shoko, vivono un disagio esistenziale dettato in primis da una incapacità di adeguarsi a una società rigidamente impostata su ruoli e classi ben definite, priva di alcuna solidarietà verso i più deboli e possibilità di redenzione per chiunque sbagli, persino da bambino. Yuzuro, sorella minore della ragazza sorda, per esempio mostra notevoli difficoltà a integrarsi nel sistema scolastico, probabilmente anche a causa di un'identità di genere molto labile, dato che per circa metà film si spaccia per un maschio e rifiuta categoricamente l'abbigliamento tradizionalmente associato alla femminilità.

La forma della voce, in conclusione, mette in scena con notevole sensibilità estetica e coraggio formale un tema ancora oggi scabroso come la depressione tra gli adolescenti e i numerosi fattori culturali e sociali che ne contribuiscono alla diffusione, dando vita a un ritratto della sempiterna dialettica tra generazioni mai banale, arricchito da riferimenti che vanno da Neon Genesis Evangelion (Hideaki Anno, 1995-1996) fino ai capolavori di Antonioni. Non male per un cartone animato.

sabato 3 luglio 2021

HALLOWEEN - THE BEGINNING: L'EMARGINAZIONE SOCIALE GENERA MOSTRI

 Dopo un decennio commercialmente rianimato soltanto dalla rivoluzione metacinematografica di Scream (Wes Craven, 1996), i primi anni Duemila vedono un riemergere dell'interesse spettatoriale nei confronti dell'horror americano, specialmente nelle sue declinazioni più gore. Senza addentrarmi in complesse e controverse riflessioni, peraltro già affrontate con efficacia da molta saggistica, sul rapporto tra il periodo del post-11 settembre e il successo di di pellicole incentrate su paranoia e tortura, è importante sottolineare come un contesto così favorevole al genere porti anche al ritorno di molte saghe storiche, soprattutto attraverso pratiche di rielaborazione dei modelli originali come remake e reboot. All'interno di questa folta schiera di opere, spesso poco coraggiose e qualitativamente inferiori alle aspettative, trova un posto di particolare rilievo il tentativo di appropriazione del franchise di Halloween da parte di Rob Zombie, musicista metal al tempo sulla cresta dell'onda cinematograficamente grazie a La casa dei 1000 corpi (House of 1000 Corpses, Rob Zombie, 2003) e La casa del diavolo (The Devil's Rejects, 2005). Nonostante la saga dedicata a Michael Myers sia già stata in parte resettata con il campione di incassi Halloween - 20 anni dopo (Halloween H20: 20 Years Later, Steve Miner, 1998), il cineasta decide di tornare ai fatti raccontati nel 1978 da Carpenter, ampliandone al contempo il segmento dedicato all'infanzia del serial killer mascherato. Una scelta premiata da ottimi riscontri al box office, accompagnati però da recensioni perlopiù negative. Uno dei tanti casi di distanza tra visione del pubblico e della critica che adesso proverò a sviscerare.

Divisa nettamente in due macrosequenze, la pellicola mostra inizialmente l'inesorabile trasformazione del problematico bambino Michael Myers (Daeg Faerch) in una furia omicida di appena dieci anni, capace, dopo aver seviziato diversi animali, di uccidere nell'arco di un solo giorno (ovviamente il 31 di ottobre) uno dei bulli che lo prendeva di mira, il patrigno (William Forsythe), la sorella maggiore e il suo ragazzo. L'unica superstite alla strage, insieme alla sorellina molto piccola, è sua madre (Sheri Moon Zombie), che nei mesi successivi continua, amorevolmente, a fare visita al figlio durante la detenzione in un istituto psichiatrico, sotto le cure del dottor Loomis (Malcom McDowell). Dopo un primo periodo di collaborazione con il medico Michael uccide un'infermiera in presenza della signora Myers, portandola al suicidio. Quindici anni dopo lo psichiatra abbandona il proprio paziente ormai cresciuto, dedicandosi alla promozione di un libro basato proprio su di lui, ma durante la notte di Halloween il killer fugge dalla clinica, con l'obiettivo di tornare nella propria città, dove vive, ignara di tutto, sua sorella Laurie (Scout Taylor-Compton), adottata dalla famiglia Strode.

La spartizione in due blocchi di lunghezza quasi perfettamente identica, insieme al titolo, chiarisce immediatamente le intenzioni dietro Halloween - The Beginning (Halloween, Rob Zombie, 2007) rielaborare quanto narrato nel leggendario film carpenteriano donando al villain un background ben più approfondito e, soprattutto, umano. Il Michael Myers del 1978 era una figura avvolta nel più totale mistero, simbolo di un male impossibile da comprendere attraverso la razionalità, inafferrabile al punto da far sì che un bambino, simbolo per antonomasia dell'innocenza, possa tramutarsi nella personificazione dei mostri delle fiabe, del tutto privi di motivazioni per i loro comportamenti in quanto nati con l'unico scopo di insegnare ai più giovani la necessità di confrontarsi con le tante avversità che la vita ci riserva. Al contrario l'assassino scritto da Zombie, autore a tutto tondo dell'opera in analisi, diventa un tale agente del male solamente dopo un lungo percorso di vita reale, scandito da evidenti problemi psicologici e dall'influenza nefasta di un ambiente sociale totalmente avulso alla sua condizione di salute mentale precaria. La scelta di introdurre all'interno della trama il personaggio di Loomis ancora prima che il celeberrimo massacro avvenga mostra proprio come, secondo il regista, Michael sia una persona fragile e che, con delle tempestive e adeguate cure, avrebbe potuto iniziare un percorso di riabilitazione che avrebbe evitato la discesa verso gli inferi che segue. Un abbandono alle più violente e oscure pulsioni del bambino che vengono palesemente accelerate da un milieu assolutamente abusivo: una provincia americana ritratta in tutto il suo squallore culturale ed etico, abbandonato a sé dalle istituzioni politiche e orfano anche di quella su cui dovrebbe reggersi l'intero sistema sociale occidentale, ossia la famiglia. Proprio il disfunzionale focolare domestico in cui vive il villain finisce per essere l'obiettivo della sua brutalità proprio in funzione dell'influenza negativa che dimostra verso il suo crollo nervoso, rendendo molto efficace e interessante l'idea postmoderna di ambientare le vicende nel pieno degli anni Settanta. Un decennio caratterizzato dall'esplosione di una cinematografia indipendente americana, in buona parte anche horror, in cui la ribellione giovanile si rivolge in prima istanza proprio contro la famiglia tradizionale, vista come sineddoche dell'intero sistema di valori patriarcali ormai vetusti e inadatti alle generazioni successive.

Altrettanto interessante risulta l'importanza riposta verso le maschere. Oggetti carichi di significati fin dalla notte dei tempi, a maggior ragione nella lunghissima storia della rappresentazione di sé, questi volti antropici che si sovrappongono a quello naturale di chi le indossa diventano per il giovane Myers quel rifugio da un mondo che lo disprezza e che non gli ha mai donato una minima possibilità di qualsivoglia vita degna di tale nome. Un mezzo per evadere dalle mura che lo imprigionano, parafrasando la tutt'altro che banale frase rivoltagli dall'inserviente Cruz (Denny Trejo), uno dei pochissimi a trattare Michael come un essere umano in quanto, non a caso, ne ha condiviso la condizione di recluso per problemi di natura mentale. Grazie a una costruzione psicologica del villain di tale portata, Zombie riesce a donare anche maggiore interesse empatico alla successiva metà del film, dove lo stalking nei confronti di Laurie e gli omicidi di adolescenti innocenti vengono vissuti dallo spettatore con tutt'altro coinvolgimento emotivo rispetto alla pura eccitazione sensoriale per i truculenti metodi di esecuzione scelti dal killer tipica dei vari Venerdì 13. A tal proposito basti pensare al personaggio di Annie (la stessa Danielle Harris protagonista di alcuni sequel della saga), figlia dello sceriffo già presente nell'originale, che, tramite alcune oculate scelte narrative e di inquadrature, diventa una vittima per la quale il pubblico è naturalmente portato a empatizzare, specie nel momento in cui viene scorta dal padre in fin di vita, a differenza di quanto accade nel franchise dedicato a Jason Voorhees. 

Un risultato reso possibile, come già anticipato, non solo dalle coraggiose scelte narrative, bensì anche da un registro visuale che lavora costantemente su precisi riferimenti cinematografici, innestando un dialogo con gli spettatori basato in buona parte anche sulle loro pregresse conoscenze in ambito horror.  L'abbondante ricorso alla camera in spalla e la scelta di non distogliere lo sguardo della cinepresa anche dinanzi ai momenti più efferati richiamano proprio quel cinema indipendente influenzato dalla Controcultura diffusosi nel corso della New Hollywood, citando spesso opere fondamentalmente incentrate nell'attacco agli orrori della perbenista società americana e della presunta tranquilla vita di provincia come Le colline hanno gli occhi (The Hills Have Eyes, Wes Craven, 1977) o L'ultima casa a sinistra (The Last House on the Left, Wes Craven, 1972), del quale cita le inquadrature naturalistiche nel corso dell'esplosione della violenza carnale. In maniera analoga a quanto occorre ogni volta che Myers indossa una maschera, la mdp mostra una maggiore e quasi incontrollata tendenza a muoversi bruscamente a ogni apparizione di "The Shape" (così viene definito l'assassino nel corso della saga), come a voler sottolineare la trasformazione di una situazione umana e stabile e in qualcosa di irrazionale e animalesco.

Un risultato finale dunque  certamente lontano dalla minimale perfezione del capolavoro girato nel 1978 ma in buona parte per volontà del proprio autore, capace di donare una personalità ben evidente a un reboot tanto sfrontato da distanziarsi consapevolmente da una pietra di paragone fin troppo ingombrante per qualunque epigono.