lunedì 24 ottobre 2022

HALLOWEEN ENDS: IL DISTACCO DEFINITIVO DAL MODELLO ORIGINALE

Quando a inizio anno Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillet sdoganavano, con sagace ironia, il concetto di requel attraverso una delle sequenze più memorabili di Scream, il tutt'altro che velato punto di riferimento era quell'Halloween diretto nel 2018 da David Gordon Green, capostipite di una nuova trilogia che si innesta cronologicamente dopo lo storico capolavoro carpenteriano, eliminando dalla timeline ufficiale della saga tutti i precedenti sequel. Proprio quest'anno il cineasta statunitense porta sugli schermi di tutto il mondo Halloween Ends, capitolo finale di tale epopea e idealmente dell'intero franchise ormai quarantennale. Come già previsto dal regista la pellicola sta riscontrando molte reticenze da parte sia della critica che della fanbase, soprattutto a causa di scelte in fase di sceneggiatura piuttosto ardite e dunque immediatamente tacciate di iconoclastia.
Ambientato a una manciata di anni di distanza dai prequel, il film mostra l'incrociarsi delle strade di due ragazzi segnati dalla violenza di Haddonfield: Allyson (Andi Matichak), sopravvissuta insieme alla nonna Laurie (Jamie Lee Curtis) all'ultima strage di Micheal Myers, e Corey (Rohan Campbell), ostracizzato da gran parte della città per aver inavvertitamente fatto morire un bambino a cui badava in qualità di babysitter. Nonostante (o forse a causa) i rispettivi traumi questi si innamorano e cercano di prendersi una rivincita sul proprio passato insieme ma soltanto la coriacea protagonista storica della saga averte in Corey la stessa malvagità caratteristica di The Shape.
Se il succitato primo capitolo della trilogia diretta da Green cercava per quanto possibile di restare fedele al seminale slasher made in Carpenter, Halloween Ends, d'altro canto, recupera il ben più personale Halloween Kills (David Gordon Green, 2021), espandendone le riflessioni sociali e abbandonando quasi del tutto la struttura narrativa originale. Ancora una volta l'autore di Joe (2013) focalizza il proprio sguardo, elemento cardine dello slasher, non più su Myers e la sua maschera in quanto tali, bensì come agenti patogeni di un Male non più metafisico ma virale. Il vero orrore simboleggiato da quella diafana riproduzione, sempre più maciullata dal passaggio del tempo, del volto del Capitano Kirk diventa dunque la sua capacità di instillare odio, violenza, incapacità di rapportarsi e comprendere il prossimo in chiunque viva e respiri l'aria di Hoddenfield, che da spensierato sobborgo della provincia americana tipo si trasforma, mai come in questo ultimo capitolo, in una evidente sineddoche degli ex poli industriali ridotti a ombra di se stessi dalle crisi economiche innescatesi in seguito alla bolla speculativa del 2008. In tale milieu che, proprio come in un romanzo di Zola, potrebbe corrompere qualunque animo non può che nascere persino un emulatore, un seguace dell'ombra della strega: un ragazzo timido e impacciato così abituato all'ostracismo della comunità e all'odio da trovare in un primo momento una sorta di moto di ribellione nell'amore, per poi finire inevitabilmente preda di un lato oscuro in grado di inghiottire qualunque barlume di luce. Ecco dunque che, allontanandosi da qualunque topos slasher che di solito prevede solamente rapporti violenti od occasionali tra adolescenti, Green mette al centro del racconto una love story da tipico coming of age per poi trasformarla in una sorta di tenaglia tra esistenze distrutte e che, proprio in virtù dell'incombenza del Male rappresentata da Myers, non può che finire nel sangue. La scelta di rendere quest'ultimo una figura che agisce solamente nell'ombra, nascosto come Lestat nel finale de Intervista col vampiro (Interview with the Vampire: The Vampire Chronichles, Neil Jordan, 1994), trova in questo contesto tematico una sua ragion d'essere che esula dal semplice tentativo di spiazzare il pubblico più affezionato: alla riflessione precipuamente postmoderna sull'iconicità dei serial killer immortalati sul grande schermo, siano essi realmente vissuti o meno, si innesta quella ancor più attuale sulle conseguenze nefaste e "virali" della cultura dell'odio, della violenza concettuale ancor prima che fisica e di quanto un clima di costante pericolo possa rendere ancor più ferini gli animi delle persone, sposando una tesi in parte hobbesiana della società. Persino il finale, con l'inevitabile vittoria di Laurie sul suo persecutore di una vita lascia degli strascichi fortemente ambigui, specie osservando le reazioni di quest'ultima e di sua nipote, costretta infine ad abbandonare quel suo inferno personale sotto forma di sobborgo di provincia.
Pur senza raggiungere le vette immaginifiche, formali e culturali del capostipite, Halloween Ends conclude la trilogia requel con una dose di coraggio e personalità che non possono essere ridimensionate in un periodo storico fortemente ancorato alla memoria e alla reiterazione costante del passato, al netto di imperfezioni e oggettivi limiti che a mio avviso non pregiudicano la riuscita della pellicola.

martedì 18 ottobre 2022

ATHENA: WAR MOVIE TRA LE BANLIEU

Dopo essersi fatto conoscere in tutto il mondo per alcuni tra i videoclip musicali più audaci dell'ultimo decennio, Romain Gavras, figlio del noto cineasta greco Costas-Gavras, presenta all'ultima edizione del Festival di Venezia il suo terzo lungometraggio: Athena. Pur senza ricevere una distribuzione in sala per quanto concerne l'Italia, il film ha attirato fin dalla proiezione al Lido opinioni contrastanti, soprattutto sul versante della narrazione e del suo rapporto con il versante più politico dell'attuale panorama cinematografico francese, esemplificato da quel Ladj Ly che firma la sceneggiatura dell'opera in analisi. Scopriamo se, come quasi sempre accade, la verità non si trovi semplicemente a metà tra le due barricate.

La pellicola racconta, in tempo reale, l'esplosione di una rivolta tra le banlieu parigine in seguito alla morte del giovane Idir, attribuita immediatamente a un eccesso di violenza da parte della polizia. In particolare al centro del racconto si trovano le diverse reazioni all'accaduto da parte dei fratelli del ragazzo: Karim (Sami Slimane) guida le sommosse, che troveranno il proprio cuore nel fittizio quartiere che dona il titolo al film, Moktar (Ouassini Embarek) pensa unicamente a proteggere i propri loschi affari dalle interferenze degli agenti, mentre Abdel (Dali Benssalah), soldato tutto d'un pezzo, si trova diviso tra il desiderio di mantenere l'ordine e il dolore per il lutto.

Fuorviati probabilmente dagli oggettivi punti di contatto con I miserabili (Les Misérables, Ladj Ly, 2019), molti recensori hanno accusato Athena di pressappochismo in relazione al contesto socio-politico che mette in scena o di vuota spettacolarizzazione, tradendo a mio avviso la reale dimensione di quest'ultimo. A differenza del succitato vincitore del premio della giuria al Festival di Cannes del 2019, il lungometraggio in analisi mostra con una certa fierezza una compattezza, a partire dal minutaggio, e uno schematismo narratologico tipico del cinema di genere, con una predilezione per il war movie. Fin dallo straordinario e lunghissimo piano sequenza che apre le danze lo spettatore viene progressivamente immerso in un ambiente urbano che assume immediatamente le coordinate ambientali e di dinamiche tra i personaggi topiche del cinema bellico: l'insistenza con cui la cinepresa resta costantemente vicina a Karim nel corso di esplosioni di fumogeni, scontri con le forze dell'ordine e inseguimenti in auto porta subito alla mente quanto visto in opere come 1917 (Sam Mendes, 2019) e Dunkirk (Christopher Nolan, 2017), che tentano di abbattere la barriera tra schermo e pubblico con una potenza sensoriale capace di rendere quest'ultimo estremamente partecipe del clima da battaglia proiettato. Sfruttando anche la lezione proveniente dal mondo videoludico Gavras riduce al minimo gli stacchi di montaggio, elimina completamente il classico découpage fondato su campi e controcampi, così da rendere la cinepresa una sorta di avatar dello spettatore inserito nel pieno della narrazione, raggiungendo una sorta di limbo tra la partecipazione parzialmente passiva del fruitore filmico e quella totalmente attiva del videogiocatore. Il risultato è uno showcase di cinema incalzante e esasperatamente dinamico, in pieno sincretismo con il racconto di un assedio che sfocia in battaglia campale, sulla scia di altri capisaldi del genere che si tinge di indagine sociale come Distretto 13 - Le brigate della morte (Assault on Precint 13, John Carpenter, 1976) o il connazionale Banlieue 13 (Pierre Morel, 2004).

Ulteriore conferma della sostanziale volontà di schierarsi all'interno di un panorama fortemente inserito negli schemi di genere, soprattutto action e bellico, è la dichiarata, fin dal titolo, ispirazione alla tragedia attica di Eschilo e Sofocle. Al di là del rispetto delle regole codificate dalla Poetica aristotelica, il film racconta in primo luogo la lotta di un nucleo familiare contro un Fato avverso a cui, nonostante gli sforzi, nessuno può sottrarsi. Sebbene i fratelli protagonisti dell'intreccio reagiscano ognuno a proprio modo alla perdita del più piccolo di casa, ciascuno percorre la sua personale discesa verso gli Inferi di omerica memoria arrivando a comprendere di non avere alcuna speranza di redenzione. Esemplare di tale dimensione tragica risulta la figura di Abdel, le cui intenzioni pacifiche e di stoico rispetto dei valori che la propria divisa rappresentano si trova a scontrarsi con la rabbia di un popolo intero e del suo io più profondo, portandolo inevitabilmente a un baratro fin troppo vicino a quello di eroi classici quali Oreste o Edipo. Un'ascendenza dalla più antica forma di rappresentazione di sé occidentale che però diviene modello narrativo anche per molti autori di pellicole d'azione e d'assedio come Walter Hill, i cui celebri I guerrieri della notte (The Warrior, 1979) e I guerrieri della palude silenziosa (Southern Comfort, 1981) nascono esattamente come versioni urbane delle immortali drammaturgie sofoclee.

Dove sta dunque la verità su Athena? Come sempre negli occhi di ogni singolo spettatore, che però prima di visionare e giudicare l'operato di Gavras ritengo debba inserirlo nel giusto contesto artistico (war movie e action movie) per poter godere senza fraintendimenti dell'ipercinetismo dei suoi 97 minuti.