domenica 6 dicembre 2020

MANK: UN EBBRO DONCHISCIOTTE TRA HOLLYWOOD CLASSICA E L'AMERICA CONTEMPORANEA

 In mezzo alle innumerevoli tragedie che continua a regalare questo nefasto anno, il 2020 è riuscito quantomeno a regalare agli appassionati della settima arte il tanto atteso nuovo film di David Fincher. A distanza di ben sei anni da Gone Girl- L'amore bugiardo (Gone Girl, 2014) il cineasta statunitense torna al lungometraggio con Mank (2020), distribuito, al netto di una sporadica comparsata in poche sale americane, direttamente in streaming attraverso la piattaforma di Netflix, che ha anche finanziato l'intero progetto. Accolto con immediato calore dalla critica d'oltreoceano, scopriamo cosa riserva l'ultimo lavoro dell'autore di Fight Club (David Fincher, 1999).

La pellicola narra, attraverso numerosi salti temporali, la genesi della sceneggiatura di Quarto potere (Citizen Kane, Orson Welles, 1941) per mano di Herman J. Mankiewicz (Gary Oldman), raffinato scrittore il cui alcolismo cronico, unito a una schiettezza esasperata, gli impedisce di occupare posizioni di maggior rilievo nella cultura del paese e negli ambienti cinematografici. La difficoltosa composizione dello script richiesto dal giovane talento coccolato dalla RKO (interpretato da Tom Burke) si avvicenda ai ricordi e ai pensieri del protagonista, tra i quali spicca l'odio crescente nei confronti William Randolph Hearst (Charles Dance), magnate dei media che finisce per ispirare la figura di Kane all'interno del celeberrimo esordio alla regia di Welles.

Di primo acchito Mank potrebbe apparire come una ennesima ode al cinema che fu, sulla scia di altri lavori in bianco e nero come The Artist (Michel Hazanavicious, 2012) o Roma (Alfonso Cuarón, 2018) diversissimi in realtà già tra di loro. Persino le numerose inquadrature che citano in maniera evidente le inconfondibili angolazioni di Welles o la sperimentale profondità di campo di Quarto Potere potrebbero far pensare a una operazione di cinefilia nostalgica ma di questo sentimento le uniche tracce restano solamente nella cura maniacale con cui Fincher e i suoi collaboratori ricreano gli aspetti tecnici di una pellicola del periodo, sia nella resa visiva che in quella musicale. Tutto il resto, proprio come la sceneggiatura firmata dal padre del regista, il defunto Jack Fincher, ondeggia incessantemente tra passato e presente mettendo in luce soprattutto le ombre che si celano dietro lo sfavillante mondo della celluloide e del contesto politico nel quale respira. Niente di nuovo sotto il sole da questo punto di vista, fin da Viale del tramonto (Sunset Boulevard, Billy Wilder, 1950) il mito scintillante di Hollywood è stato decostruito nella sua disumanizzazione imperante, nel sacrificio dell'arte all'altare degli interessi economici e nella deflagrazione morale di chiunque ne venga a contatto ma in questo caso il vero centro d'attrazione del racconto è il suo protagonista, non l'ambiente in cui si muove.

Il Mankiewicz reso già iconico da Oldman funge costantemente da punto di fuga di ogni singola inquadratura, tutto ciò che lo spettatore vede e percepisce viene filtrato dal suo occhio attento ma, al tempo stesso, indolenzito dall'ennesimo bicchierino. Immobilizzato a letto in seguito a un incidente automobilistico, il protagonista viene mostrato, al contrario, quasi sempre nell'atto di passeggiare, come un viandante di romantica memoria che però si muove non più tra gli sterminati paesaggi delle montagne tedesche, bensì tra le strade e gli edifici fasulli dei teatri di posa losangelini. Proprio per questo suo moto continuo all'interno dei flashback Mank porta alla mente due figure cinematografiche ben più vicine a noi italiani, il giornalista scandalistico Marcello de La dolce vita (Federico Fellini, 1960) e lo scrittore Gep Gambardella de La grande bellezza (Paolo Sorrentino, 2013). La coppia di personaggi appena menzionati condividono con lo sceneggiatore di origini ebraiche sia la familiarità con la parola scritta, con la quale si guadagnano da vivere, che una profonda crisi etica, acutizzata proprio da un ambiente nel quale vivono all'insegna della falsità e della meschinità. Tutti e tre vagano attraverso un vacuo circo in cui nessuna vita risulta realmente dotata di un significato per il prossimo, fino a quando non incontrano una figura femminile che risveglia il ricordo per un'innocenza perduta nei meandri del tempo che fu. In particolare il l'attrazione più platonica che sessuale tra Herman e l'attrice Marion Davies (Amanda Seyfried) mostra numerosi punti di contatto con quello che si instaura tra Gep e Ramona. Due donne all'apparenza semplici che accendono un barlume di luce tra le tenebre del processo di autodistruzione in cui vive la coppia di scrittori.

Dalla comparazione tra i tre personaggi in questione emerge anche uno dei temi maggiormente a cuore di Fincher: l'importanza della scrittura. Mank, Marcello e Gambardella nascono come talentuosi letterati che finiscono per appiattirsi al livello di mediocrità pretesa dal milieu in cui lavorano, abbandonando ogni velleità artistica reale e nascondendo il proprio vero io violentato dietro sarcasmo sprezzante e fiumi di alcol. Nella pellicola in analisi, però, la parola scritta diventa anche il mezzo di riscatto per il protagonista, l'oggetto della contesa storica per la firma su uno dei più grandi capolavori della storia del cinema e, soprattutto, il fil rouge che lega il film proprio a quest'ultimo. L'intera struttura narrativa riprende, infatti, la sfrontata assenza di linearità temporale caratterizzante Quarto potere, così come il Kane dal volto di Welles funge da centro di gravità permanente del racconto allo stesso modo del suo creatore nell'opera di Fincher. Senza dover sovrapporre in maniera semplicistica le due figure è possibile desumere che la scelta del regista di Seven (David Fincher, 1997), insieme ai già citati omaggi visuali, sia dettata dalla volontà di riportare alla luce l'autorialità insita nella scrittura filmica, spesso dimenticata in favore del divismo ormai sempre più diffuso dei registi, oltre a quello sempiterno degli attori. In quest'ottica di rivalutazione dell'importanza della sceneggiatura all'interno del cinema, cui contribuisce ovviamente anche la presenza massiccia di dialoghi dalla notevole qualità, assume un senso tutt'altro che iconoclasta anche la caratterizzazione proprio di Welles. Il leggendario cineasta appare nel film sempre in maniera fugace, spesso inquadrato addirittura con tagli chiaroscurali decisamente sinistri ed espressionisti, contribuendo in maniera davvero esigua alla stesura del copione di Citizen Kane. Una coraggiosa decisione che, alla luce anche di alcune dichiarazioni del regista, a mio modo di vedere sottolinea proprio la volontà di sfatare il mito della settima arte come atto creativo individuale del regista, andando per certi versi in controtendenza con le teorie di Alexandre Astruc. Più che un atto di lesa maestà il trattamento destinato all'autore de L'infernale Quinlan (Touch of Evil, Orson Welles, 1958) risulta dunque uno strumento per ricordare al pubblico che non esiste nessun taumaturgo in grado di fare cinema completamente da solo, rendendo al contempo omaggio a uno dei tantissimi artisti rilegati all'oblio da certe distorte visioni della settima arte.

Anche da questo punto di vista Mankiewicz rappresenta in pieno quella figura di Don Chisciotte moderno descritta proprio dal personaggio nel corso di una delle sequenze più memorabili del film, durante la quale lo scrittore, visibilmente ubriaco, descrive con fervore un ex idealista corrotto dal mondo che ha intorno che vive tutte le fasi della vita del futuro Charles Foster Kane ma che cela anche le medesime difficoltà personali vissute dallo stesso sceneggiatore. In fondo Herman ci prova, pur senza risultati, a combattere una battaglia persa in partenza contro la corruzione culturale e morale di Hollywood, trovando persino nell'innocente Marion una sua Dulcinea. Ci prova ma il potere di un creativo sembra arrestarsi dinanzi al denaro e soprattutto all'uso politico dei suoi stessi strumenti di battaglia, come dimostra la disfatta del candidato democratico provocata da un finto cinegiornale pieno di menzogne. Una sconfitta dell'uomo e dell'artista che non può non portare alla mente l'uso strategico di fake news da parte di molti politici attuali per persuadere la parte di popolazione più ingenua. I confini tra passato e presente sono sempre labili all'interno di Mank, un film ambientato all'interno di una delle più grandi crisi dell'America e del cinema a stelle e strisce e girato nel 2020, tra una crisi pandemica ed economica mondiale e un passaggio sempre più netto delle produzioni audiovisive dalla sala cinematografica alle piattaforme di streaming. E ricordiamo che quello di cui vi ho appena parlato è un lungometraggio targato Netflix, diretto da un regista completamente abbandonato dall'ambiente degli studios hollywoodiani.

Passato e presente in totale compenetrazione, proprio come nella rivoluzionaria sceneggiatura di Quarto potere.