martedì 29 giugno 2021

LA SAGA DI VENERDÌ 13: UN CASO DI SCONTRO GENERAZIONALE E SPETTATORIALE

 Solitamente in queste pagine ho affrontato e approfondito un singolo film, persino nel particolarissimo caso di Avengers: Endgame (Anthony e Joe Russo, 2019), vero e proprio finale di stagione di quel mastodontico progetto di serializzazione cinematografica noto come MCU. Stavolta ho sentito, invece, l'esigenza di raggruppare in un solo scritto impressioni e riflessioni risvegliate in me dalla visione di un'intera saga, quella nata in seguito al successo dello slasher Venerdì 13 (Friday the 13th, Sean Cunningham, 1980). Una serie di ben dieci film, escludendo il crossover Freddy vs Jason (Ronny Yu, 2003), al quale mi ero approcciato già molti anni fa, quando tra le mie vhs preferite sbucava proprio quella di Week-end di terrore (Friday the 13th: Part III, Steve Miner, 1982), ma che soltanto in queste settimane ho riguardato con occhio maggiormente attento. Perché dunque non sviscerare ogni singolo capitolo del franchise? Adesso lo scoprirete.

A connettere narrativamente ogni film della serie, aventi quasi sempre protagonisti diversi, è la figura dell'implacabile serial killer Jason Voorhees, introdotta come movente degli omicidi della madre, Pamela, nel corso del capostipite, per poi assurgere, a partire dal primo sequel, al ruolo di antagonista ricorrente in ogni pellicola. L'uomo, creduto annegato da bambino per la negligenza dei sorveglianti di Crystal Lake, uccide senza pietà chiunque si aggiri nei pressi del luogo di tale incidente, diventando nel corso della saga un essere sovrannaturale e praticamente immortale.

Parlare di Venerdì 13 vuol dire in primo luogo tentare di comprendere motivi e istanze dietro un vero e proprio fenomeno di culto, capace di registrare cifre elevatissime al box office nel corso di oltre un decennio. D'altro canto sono divenute leggendarie anche le stroncature ricevute dalla critica per ogni singolo capitolo del franchise, spesso additati da personalità anche di notevole acume, come Roger Ebert, di mostrare infime qualità cinematografiche e, soprattutto, messaggi socio-culturali estremamente pericolosi per gli spettatori. Come è possibile dunque una tale dicotomia tra la visione di esperti del settore totalmente disgustati e l'amore di un pubblico vastissimo verso tali pellicole? Proprio questa domanda mi ha spinto a prendere in analisi l'intera serie, nel tentativo di scovare almeno qualche risposta.

Procedendo prima, baconianamente, dalla pars destruens della ricezione dei dieci lungometraggi non posso non sottolineare come, difatti, la maggioranza dei capitoli di Venerdì 13 risulti piuttosto sciatta, sia nella forma che nella scrittura. Nonostante i budget piuttosto ridotti e la volontà quanto mai dichiarata a priori della serie di voler intrattenere soprattutto attraverso l'efferatezza delle uccisioni di Jason, è impossibile chiudere un occhio dinanzi a personaggi monodimensionali, resi ancor più poveri da livelli attoriali quasi amatoriali, scarso rispetto verso la costruzione di soluzioni logiche per il proseguo del racconto e, in primo luogo, pochissima fantasia nella messinscena. A questa situazione di modesta qualità artistica fanno però da eccezione un pugno di episodi, in primis il capostipite e il suo seguito diretto, L'assassino ti siede accanto (Friday the 13th: Part II, Steve Miner, 1981). Oltre a donare una certa personalità ai ragazzi destinati a essere uccisi, questi due film mostrano una regia dotata di una personalità evidente, capace di sfruttare anche la penuria economica per allestire soluzioni visuali capaci di esasperare la tensione la generale partecipazione emotiva del pubblico. In tal senso risultano esemplari l'uso della soggettiva, tipico del filone slasher ma proprio grazie alla scelta di Cunningham di voler riproporre il clima ansiogeno creato dalla sovrapposizione tra l'obiettivo della cinepresa e gli occhi dell'assassino visto in Halloween - La notte delle streghe (Halloween, John Carpenter, 1979). Persino l'uso leitmotivico del tema musicale principale creato da Harry Manfredini, divenuto così celebre da essere riutilizzato nel corso dell'intera saga, risulta davvero efficace nel segnalare l'incombente presenza del killer soltanto in questi due casi o pochi più.

E tutto il resto del franchise è dunque spazzatura cinematografica come affermato dai critici? Non esattamente. Restando sempre ancorati alla pura analisi formale bisogna riconoscere una certa dose di qualità e personalità anche a Venerdì 13 - Capitolo finale (Friday the 13th: The Final Chapter, Joseph Zito, 1984) e Venerdì 13 parte VI - Jason vive (Friday the 13th Part VI: Jason Lives, Tom McLoughin, 1986). Il primo, ricordato da molti fan per aver introdotto il personaggio ricorrente di Tommy Jarvis, si distingue per una certa inventiva nella mattanza operata dal killer e soprattutto per l'attenzione riposta verso le dinamiche sociali e sentimentali adolescenziali, traendo probabilmente alcune influenze dalla proliferazione dei teen movie del periodo. Il secondo, invece, aggiunge una dimensione ludica e metacinematografica fieramente ostentata che nei prequel appariva saltuariamente e mai così esplicita, grazie anche a un'accattivante utilizzo del montaggio e delle musiche per creare dei sarcastici commenti a ciò che accade nel profilmico, senza dimenticare la dissacrante scelta di parodiare i titoli di testa di 007.

Ciò dimostra che solo in parte le stroncature della critica trovano una propria ragion d'essere, soprattutto per l'approssimazione con cui bollano ogni singolo film del franchise alla stregua di copie del tutto identiche. Una sorta di pregiudizio che trova la propria origine ancor prima del proliferare dei sequel ambientati a Crystal Lake e che affonda le sue radici in un diniego diffuso verso un intero sottogenere, quello noto come slasher. Tra il 1979 e il 1982 la cinematografia americana è stata letteralmente invasa da pellicole a basso costo ispirate più o meno palesemente al già citato Halloween, compreso proprio il primo Venerdì 13, dando vita a un fenomeno che metteva in risalto ancora una volta la discrepanza di vedute tra figli e genitori. I primi, specie se in età adolescenziale, diventavano il pubblico di riferimento per le gesta di questi killer armati di coltelli, i secondi, d'altro canto, vedevano in tali pellicole esempi lampanti di una decadenza morale delle nuove generazioni, affamate di violenza esplicita e sesso promiscuo. Chiaramente queste due componenti sono realmente centrali all'interno dello slasher; salvo rare eccezioni tutti i film riconducibili al filone mostrano senza troppo pudore bellissimi ventenni alle prese con le intemperanze dei propri ormoni, così come uno dei compiti principali di ogni regista di tale tipo di lungometraggio risieda nel creare omicidi il più fantasiosi e truculenti possibile. Tutto questo non dimostra però. a mio avviso e anche di numerosi studi sul genere, una volontà e un effetto amorale da parte delle pellicole in questione, per non parlare poi delle superficiali accuse (si pensi all'intervento di Ebert a tal proposito) di sessismo e conservatorismo a esse rivolte. Critiche extracinematografiche che celano l'incapacità di superare la barriera generazionale acuitasi a partire dalla nascita della Controcultura nel corso deli anni Sessanta, l'incapacità degli adulti di comprendere il naturale bisogno dei ragazzi di trasgredire, di entrare in contatto con la sfera dionisiaca della vita, con quel connubio di Eros e Thanatos che la morale borghese, specie quella americana, negano in nome della rispettabilità. Da questo punto di vista i Venerdì 13 rientrano in pieno all'interno di quella intemperie giovanilistica che invade il cinema statunitense nel corso della presidenza reaganiana, rispondendo al bisogno dei teenager di vedere rappresentati sul grande schermo quel complesso percorso a ostacoli chiamato adolescenza, anche nelle sue forme più estreme, esattamente come accade in Capitolo finale

Recuperando quanto detto, invece, a proposito di Jason vive, è interessante notare come, ben prima della rivoluzione postmoderna operata nel genere da Wes Craven, la saga ideata da Sean Cunningham abbia da sempre presentato una certa dose di riflessione su di sé e sui propri epigoni. Le musiche di Manfredini, per esempio, richiamano sia per le sonorità che per l'uso cinematografico la partitura composta da Bernard Hermann per Psyco (Psycho, Alfred Hitchcock, 1960), considerato da molti come una sorta di slasher ante litteram, incentrato peraltro proprio su un morboso rapporto d'amore tra una madre e un figlio. Un riferimento talmente esplicito, così esibito al limite del plagio che non può non essere considerato una citazione cinefila, una strizzata d'occhio verso un pubblico di ragazzi affamati di visioni scandalose, come per l'appunto fu al centro di accuse moralizzanti il capolavoro hitchcockiano. In attesa di ulteriori approfondimenti sui singoli capitoli della saga e sul mondo degli slasher spero almeno di aver fornito qualche traccia di risposta alla sempiterna questione circa la distanza tra critica e pubblico nei confronti di un certo tipo di cinema.