giovedì 24 ottobre 2019

CIVILTÀ PERDUTA: IL CUORE DI TENEBRA SECONDO JAMES GRAY

Molto amato dalla critica, specie quella europea, ma poco conosciuto dal grande pubblico: James Gray rappresenta quasi un unicum all'interno del cinema hollywoodiano, specialmente se si riflette sul suo status di autore conclamato, impegnato in lungometraggi arricchiti da divi come Joaquin Phoenix o Mark Wahlberg ma che quasi mai incassano in maniera soddisfacente. Non si sottrae, purtroppo, a tale destino neanche Civiltà perduta (The Lost City of Z, 2016), prima totale deviazione del regista dalle atmosfere metropolitane tipiche della sua produzione verso i lidi del genere avventuroso, dalle ambientazioni esotiche. Nonostante il nome di Brad Pitt tra i produttori, un cast composto da nomi celebri e ottime recensioni, persino negli States, il film ha fallito la prova del box office, dimostrando ancora una volta come gli incassi non sempre corrispondano alla qualità dell'offerta.

Basata sul libro Z la città perduta di David Grann, la pellicola segue, nell'arco di un periodo storico che va dagli albori del XX secolo fino al primo dopoguerra, le vicende di Percy Fawcett (Charlie Hunnam), ufficiale dell'esercito britannico in cerca di onorificenze in grado di offuscare la cattiva fama di cui gode la sua famiglia a causa del padre. La Royal Geographical Society gli offre la possibilità che cerca affidandogli l'esplorazione di una impervia zona di confine tra Bolivia e Brasile, durante la quale l'uomo resta totalmente affascinato dalla possibilità di rinvenire resti di una civiltà sconosciuta agli europei tra le fitte maglie dell'Amazzonia. Una convinzione che lo spingerà ad abbandonare più di una volta sua moglie Nina (Sienna Miller) e i figli.

Uno dei principali fili conduttori che lega, come una collana di perle, il cinema di Gray è sicuramente il tema dei peccati dei padri che ricadono sui figli e dunque tutto ciò che ne consegue all'interno del delicato rapporto tra genitore e figlio. Civiltà perduta, pur distanziandosi per periodo storico e ambientazione da lavori precedenti come I padroni della notte (We Own the Night, 2007), ripropone ancora questa dialettica, ancestrale e contemporanea al tempo stesso, ma attraverso una rilettura più complessa e sfaccettata: se inizialmente Fawcett appare come l'ennesima figura di uomo costretto a fare i conti con le dolorose scelte paterne in realtà, con il proseguire del minutaggio, la questione dell'alcolismo e dell'onore incrinato dall'aleggiante figura del padre del protagonista si tramuta in una sorta di MacGuffin hitchcockiano, poiché è proprio Percy a trasformarsi in un genitore assente, costantemente lontano da casa per un motivo o un altro e dunque amato e odiato in egual misura dal primogenito Jack (Tom Holland). Proprio come accadrà a Tommy Lee Jones nel successivo Ad Astra (James Gary, 2019) è il personaggio interpretato, con notevole sensibilità, da Hunnam a finire preda di una vera e propria ossessione, così forte da spingerlo lontano dagli affetti, per i quali prova un amore innegabile ma che pare non riuscire a trattenerlo dalla ricerca di un luogo che vive a metà tra il mito e sogno all'interno del cuore dell'esploratore, senza mai abbandonarlo. Persino tra le trincee del primo conflitto mondiale Fawcett, che non a caso si circonda ancora una volta dei compagni delle spedizioni in America (in particolare il fido caporale Costin, portato su schermo da Robert Pattinson), non riesce a liberarsi dal pensiero dell'Amazzonia e dei misteri che cela, come sottolineano prima la medium che viene catturata tra le fila tedesche e successivamente l'inquadratura che mostra, in dettaglio, un disegno della foresta incastonato tra le maglie del filo spinato.
Proprio l'esperienza bellica, che porta nuovamente via dalla famiglia Percy ma che allo stesso tempo sembra convincerlo finalmente ad abbandonare ogni velleità avventurosa, finisce, sorprendentemente, per ampliare gli orizzonti dell'ormai uomo Jack, il quale, probabilmente più per amore del padre che non per una profonda condivisione del suo sogno, convincendolo a esaudire il desiderio paterno di rivedere ancora una volta i luoghi esplorati e scoprire finalmente la fantasmatica Z accompagnandolo nell'impresa. Il cuore di tenebra, quel desiderio tanto incessante quanto irrazionale che riesce a sopraffare ogni altro affetto o dovere, pare dunque, proprio come accadeva in Apocalypse Now (Francis Ford Coppola, 1979), estendersi come un'infezione a chiunque viva a contatto con il "paziente zero", portando non solo il primogenito della famiglia Fawcett a condividere la missione paterna ma persino la stoica consorte Nina a rassegnarsi e accettare di dover lasciare andare gli uomini della sua vita in nome di un sogno. Un sogno doloroso e folle ma che, in quanto donna estremamente emancipata e consapevole dell'importanza della realizzazione individuale dell'essere umano, non può bloccare.

Civiltà perduta rappresenta, in conclusione, una ulteriore esplorazione dei tempi più cari all'autore di Two Lovers (2008) attraverso però un'angolazione inedita, ricca di omaggi e spunti provenienti dal cinema americano passato (dal già citato capolavoro di Coppola passando per il rapporto uomo-natura caratterizzante il Lawrence of Arabia diretto da David Lean nel 1962) ma soprattutto della formidabile abilità di narratore per immagini di Gray, sublimata dalla struggente e metafisica inquadratura finale. Un'opera da riscoprire.

domenica 6 ottobre 2019

JOKER: ANARCHICA FOLLIA DI UN CLOWN E DI UN GENERE

Nel pieno degli anni Ottanta, dopo il primo tentativo di Umberto Eco con il suo Apocalittici e integrati (1964), una serie di coraggiosi esperimenti in sede DC firmati da personaggi come Alan Moore e Frank Miller aveva finalmente sdoganato la liceità e il valore come forma d'espressione del fumetto. A circa trent'anni di distanza, con una cultura pop letteralmente invasa da quei supereroi nati su carta, Todd Phillips decide di voler testare anche sul cinema supereroistico la carta dell'opera esterna alla serialità tipica del genere e dunque libera di poter esplorare senza alcun limite produttivo o di target commerciali la psicologia di un personaggio iconico della casa di Superman e soci. Con questa precisa intenzione di superare i vincoli del blockbuster e del tipico cinecomic in stile MCU nasce Joker (2019), non a caso ambientato proprio nel decennio segnato da Reagan e Indiana Jones, dalle nuove tensioni tra USA e URSS e la new wave. Il risultato è una storica vittoria del Leone d'oro a Venezia, prima volta in assoluto per un'opera tratta dai comics, e un successo immediato al box office, nonostante alcune polemiche sorte proprio negli Stati Uniti.

Proprio come in uno stand-alone fumettistico fuori continuity, la pellicola rilegge in chiave di atipica origin story la nascita del Joker, il più celebre nemico di Batman. In questa versione il personaggio ha nome e cognome: Arthur Fleck (Joaquin Phoenix), clown per eventi che vive ancora con la madre e che si trova a dover convivere con alcuni disturbi psicologici, tra cui una sindrome che lo porta ad avere crisi di riso incontrollate e improvvise. Vessato continuamente dal prossimo in una città, Gotham, in preda a una crisi economica nerissima, l'uomo, in una notte in metropolitana, reagisce per la prima volta ai soprusi subiti sparando a tre yuppies che lo avevano aggredito. Sarà l'inizio di una escalation di violenza che cambierà non soltanto la sua vita.

Molti all'annuncio di uno spin-off completamente slegato dall'universo condiviso DC, dalle ambizioni prettamente autoriali e diretto da un regista noto quasi unicamente per commedie molto popolari come Todd Phillips avevano già annunciato il disastro. Spero che molti di questi si siano, con piacere, ricreduti dopo aver visto in sala Joker.
Fin dall'apparizione di una versione vintage del logo della Warner Bros e dalla prima, muta sequenza lo spettatore avverte la sensazione di trovarsi dinanzi a un film non solo diverso dal canone oggi affermatosi dei cinecomic ma, soprattutto, fieramente debitore e coraggiosamente in grado di costruire un ponte tra la contemporaneità e un modello estetico e poetico chiaramente ancorato nella New Hollywood. I riferimenti allo Scorsese di Taxi Driver (1976) e Re per una notte (The King of Comedy, 1983) risultano ben evidenti e, in fondo, non erano mai stati nascosti già nelle interviste rilasciate prima dell'approdo della pellicola a Venezia dallo stesso regista ma sono molteplici i richiami ad altri capisaldi della Hollywood Reinassance, come dimostra la ricostruzione di una Gotham sporca, schiacciata dalla spazzatura e da una violenza dilagante che riportano alla mente la guerriglia urbana de I guerrieri della notte (The Warriors, Walter Hill, 1979) o in generale il clima da contestazione che aveva ispirato persino Zabriskie Point di Michelangelo Antonioni (1970). Impossibile non notare anche l'influenza delle sommosse antivigilanti che caratterizzano il capolavoro di Alan Moore Watchmen (1986-1987), simbolo non solo di quella autorialità riconosciuta della nona arte esplosa negli anni Ottanta ma, cosa ancor più importante, in maniera più vasta delle ultime propaggini di quel movimento culturale che aveva rivoluzionato il cinema statunitense attraverso la commistione di modelli linguistici europei alle istanze di ribellione dei giovani nei confronti della morale patriarcale dei genitori e di una politica di potenza americana che aveva dato vita all'incubo Vietnam. Arthur non è molto diverso dagli antieroi visti sul grande schermo in quei decenni (da Travis Bickle a Kit Carruthers passando per Sonny Wojtowicz) in quanto, proprio come loro, si pone agli antipodi del tipico eroe del cinema americano classico e, anzi, finisce per sbattere in faccia al pubblico due verità non facilmente digeribili. La prima riguarda, inevitabilmente, il fragile equilibrio sul quale poggia il sistema economico e sociale occidentale, specie in un'epoca storicamente contraddistinta da politiche economiche all'insegna di un liberismo senza freni e conseguentemente fautore di un ingigantimento delle differenze tra le fasce della popolazione più ricche e quelle più umili. Gotham, immaginata con le fattezze di New York, incarna i limiti estremi di questa disuguaglianza sociale inasprita dalla crisi economica finendo per assumere un in sé quelle tensioni e contraddizioni viste nella Detroit reale, distrutta dal fallimento delle storiche aziende automobilistiche.
Come si inserisce Fleck all'interno di questo contesto così complesso? Ebbene l'emaciato comico fallito, interpretato in maniera magistrale dal sempre ottimo Joaquin Phoenix, diventa il simbolo, la bandiera della risposta violenta degli indigenti all'opulenza e all'indifferenza mostrata da Thomas Wayne, a sua volta simbolo della fazione più potente della città. Il protagonista reifica anche la seconda delle due verità a cui alludevo in precedenza, ossia che in tempi in cui le certezze di una società umana così ancorata al lume della ragione iniziano a ballare i folli. Phillips torna in realtà a battere il martello su un chiodo fondamentale della propria poetica, già ricca di personaggi assolutamente fuori da ogni schema razionale che finivano per sovvertire l'ordine costituito e diventare il cuore emotivo delle sue commedie e dei suoi primi lavori più sperimentali, nonostante i loro comportamenti sempre ai limiti, o anche abbondantemente oltre, della morale corrente. I folli danzanti del regista di Una notte da leoni (The Hangover, 2009) riescono sempre a colpire il cuore dello spettatore, a entrare in contatto empatico con lui e dunque a far sì che il pubblico sia sempre, almeno parzialmente, dalla sua parte, persino nel momento in cui il timido Arthur diventa Joker, agente del caos e pluriomicida. Tramite il perfetto connubio tra la scrittura dell'autore statunitense e la performance ricca di sfumature psicologiche ed emotive di Phoenix è impossibile non vivere la trasformazione del protagonista nel celeberrimo nemico del Cavaliere oscuro come l'inevitabile effetto delle ingiustizie subite per una vita intera e perpetrate davvero da chiunque abbia conosciuto, finanche il suo idolo Murray Franklin (Robert De Niro) e l'amata madre.

Anche sul versante squisitamente formale Phillips imposta l'intero film su un registro in sintonia con la sua volontà di omaggiare la New Hollywood, come dimostrano l'ampio ricorso alla camera in spalla per seguire gli spostamenti del protagonista (anche in sinuosi piani sequenza), l'abbondante rifrazione della luce in molte inquadrature e persino citazioni dirette come quella della scala di L'esorcista (The Exorcist, William Friedkin, 1973). Questo non significa che la pellicola finisca per diventare un jukebox del cinema passato in stile Tarantino o che non si veda una ricerca personale del director e infatti la scelta di ridurre al minimo le inquadrature ampie va in netto contrasto con molti dei modelli di riferimento, mostrando chiaramente l'intenzione di tenere sempre al centro dell'attenzione Fleck, vero polo d'attrazione dell'intera opera.

Dunque è davvero una rivoluzione questo Joker? Probabilmente no, il cinecomic d'autore esisteva già da decenni (si pensi a Mario Bava) ma uno studio così sottile ed emotivo insieme di un personaggio iconico come il misterioso clown principe del crimine mancava al genere e un'opera così diversa dal canone imposto all'industria intera dai miliardi al box office del MCU è l'ennesima dimostrazione della natura polimorfa del cinecomic, a dispetto di quanto cerchi di far credere Kevin Feige. Senza dimenticare che parliamo, senza se e senza ma, di una di quelle pellicole così potenti da essere difficilmente dimenticate.

giovedì 3 ottobre 2019

MISSION: IMPOSSIBLE - FALLOUT: SERIALIZZAZIONE COMPLETA DI UN FRANCHISE ATIPICO

Tra le tante saghe cinematografiche comparse nel corso dei decenni quella di Mission: Impossible si è distinta principalmente per il ricorso a un diverso regista, tutti peraltro considerati in tutto e per tutto degli auteur, per ogni capitolo, rendendo dunque solamente Tom Cruise e la sua squadra dell'IMF i veri elementi di serialità all'interno del franchise. Tutto cambia nel 2018 con l'arrivo nelle sale dell'ultimo episodio, Mission: Impossible - Fallout, che viene diretto da Christopher McQuarrie, lo stesso director del precedente Mission: Impossible - Rogue Nation (2015). Per la prima volta la saga si gioca dunque la carta della serialità forte tramite un sequel diretto e i risultati finiscono per premiare in toto la scelta: la pellicola batte gli incassi di tutti i prequel e viene accolta dal plauso unanime della critica mondiale, al punto da essere inserita in numerose classifiche dei migliori film dell'anno o addirittura dei migliori action di sempre.

Seguendo di pochi anni le vicende di Rogue Nation il lungometraggio vede la squadra di Ethan Hunt (Tom Cruise), supportata a pieno questa volta dall'ex CIA Alan Hunley (Alec Baldwin), alle prese con la minaccia globale portata dagli Apostoli, gruppo terroristico internazionale nato dalle ceneri del Sindacato di Solomon Lane (Sean Harris) intenzionato a seminare il panico nel mondo tramite tre ordigni nucleari. Il primo tentativo di sventare la minaccia dell'IMF fallisce a causa della scelta di cuore del protagonista, che sceglie di salvare la vita dell'amico Luther (Ving Rhames) a discapito della missione, così la direttrice della CIA Erica Sloane (Angela Bassett) impone alla squadra la presenza di un suo uomo di fiducia, August Walker (Henry Cavill).

Se esiste una saga in cui il protagonista unico rappresenta la vera e propria stella polare dell'intera operazione è sicuramente Mission: Impossible, sia per quella atipica serialità alla quale accennavo pocanzi che per la costanza con cui in ogni nuovo capitolo Cruise mette a dura prova le proprie possibilità fisiche e quelle di stunt quasi del tutto privi di CGI in un cinema in cui la tecnologia digitale invade ogni singolo frame. Nel caso di questo Fallout però, come in parte già anticipato, la serializzazione assume caratteri ben più corposi: oltre alle presenza costante del trio Hunt - Luther - Benji (Simon Pegg) ritornano altri personaggi più o meno importanti sia del prequel diretto che dei precedenti capitoli, così come la missione attuale si rivela nel corso della pellicola come il vero epilogo di quella affrontata durante Rogue Nation. Questa impronta fortemente seriale permette a McQuarrie, autore anche della sceneggiatura, di poter lavorare non solo sui collegamenti o le citazioni dei predecessori (in particolare il capostipite firmato Brian De Palma del 1996) ma, soprattutto, sullo sviluppo del lato prettamente umano di Ethan. Se in questa sesta missione impossibile l'agente dell'agenzia supersegreta statunitense mantiene la sua proverbiale capacità di risolvere qualunque situazione mortale, di lanciarsi nel vuoto, correre tra i tetti o infiltrarsi all'interno di pericolosissime organizzazioni criminali, l'uomo dietro l'eroe rivela tutta la propria fragilità. Il personaggio che da più di vent'anni segue il corso della carriera di Cruise condivide con il proprio interprete proprio quell'aura di invincibilità che però inizia a mostrare tutti gli scricchiolii dettati dal passare del tempo. Il leader dell'IMF appare mai come prima indebolito nel fisica dall'età che avanza, rallentato nelle proprie imprese ai limiti dell'umano da un fisico che inevitabilmente non è più quello di un giovane uomo, proprio come il divo hollywoodiano che non può più fregiarsi del titolo di sex symbol per eccellenza dello star system. Si crea dunque un corto circuito metacinematografico, tra personaggio di finzione e il suo interprete, che porta su un piano nuovo per la saga l'aspetto empatico, grazie anche all'evoluzione psicologica ed emotiva che accompagna quella fisica del protagonista.
L'incubo che funge da prologo all'intera pellicola mette in chiaro subito la volontà del regista e sceneggiatore americano di indagare anche attraverso la scrittura il percorso interiore di Hunt, le conseguenze di anni passati sempre sul filo del rasoio, costretto a fare sacrifici enormi (in particolare l'allontanamento dell'ex moglie), a perdere amici o compagni pur di servire un paese che più di una volta ne ha messo in discussione etica e modus operandi. Un uomo portato inevitabilmente alla solitudine e al rimpianto nei confronti di ciò che sarebbe potuta essere la sua vita se avesse scelto di lavorare come postino o semplice impiegato.
Per la prima volta Hunt/Cruise, grazie alle possibilità offerte da una serializzazione totale e dalla penna di McQuarrie, riflette sul tema della senilità per gli uomini d'azione e sugli effetti dell'eroe sull'uomo che si nasconde al suo interno con una consapevolezza e un'efficacia mai raggiunte da altre pellicole come I mercenari (The Expendables, Sylvester Stallone, 2010) o Red (Robert Schwentke, 2010).

Senza rinunciare ai topoi della saga alla quale pertiene Mission: Impossible - Fallout si pone come capitolo capace di introdurre un modello narratologico prettamente seriale, concludere un percorso umano e narrativo iniziato negli anni Novanta, dando un degno epilogo anche alla serie nella serie composta dal dittico con il precedente Rogue Nation e al contempo mantenere altissimo il livello visivo e spettacolare del franchise. Al netto di ogni riflessione su personaggi e scrittura niente appaga e contiene cinema quanto sequenze esteticamente eccezionali come l'inseguimento in elicottero.