mercoledì 29 agosto 2018

SILENCE: LA POTENZA DELL'ASSENZA

Dopo una gestazione iniziata addirittura nei primi anni '90 nel 2016 Martin Scorsese riesce finalmente a realizzare e portare sugli schermi di tutto il mondo Silence, film tratto dall'omonimo romanzo storico del 1966 a opera dell'autore nipponico retto da una potente fede cristiana Shusaku Endo. Arrivato dunque in sala a pochi anni dal trionfo commerciale di una pellicola stilisticamente agli antipodi quale The Wolf of Wall Street (2013), il lungometraggio in questione trova inevitabilmente un riscontro ben diverso da parte del pubblico, posto dinanzi a un lavoro dotato di ritmo totalmente opposto e privo anche dell'appeal donato da una star quale Leonardo DiCaprio. Nonostante dunque una corsa poco fortunata al box office, probabilmente già preventivata come si potrebbe evincere dalla scelta di girare il film esattamente dopo il più grande successo della filmografia di Scorsese, la pellicola ottiene pareri entusiasti dalla critica, che la definisce la summa del percorso religioso intrapreso dal regista italoamericano a partire da Mean Streets (1973).

Protagonista assoluto dell'opera in analisi, ambientata nel XVII secolo, risulta senza ombra di dubbio il giovane gesuita Rodrigues (Andrew Garfield), il quale decide di intraprendere una pericolosissima missione in Giappone, nel pieno delle repressioni anticristiane, alla ricerca del suo mentore, Padre Ferreira (Liam Neeson), in compagnia solamente del suo amico fraterno Padre Garupe (Adam Driver). Sebbene i due siano spinti da una fortissima fede in Dio e dalla convinzione che sia impossibile che colui che li ha iniziati al Cristianesimo abbia rinnegato Gesù una volta arrivati nel paese asiatico si ritrovano immersi in un'ambiente miserabile e affascinante al tempo stesso, accolti da molti contadini devoti e disposti anche al martirio per il loro credo (come Mokichi, interpretato da Shinya Tsukamoto) ma anche dall'intransigenza dell'inquisitore Inoue (Issei Ogata) e dei suoi uomini, tra i quali spicca il colto interprete portato sullo schermo da Tadanobu Asano. Rodrigues sopporta qualsiasi tortura, fisica o psicologica, inflitta sia a sé che ai fedeli davanti ai propri occhi pur di resistere alla tentazione di rinnegare Cristo ma la sua visione del mondo e del rapporto con Dio non è più ferma come in Europa e il tanto atteso incontro con l'apostata Ferreira finirà per cambiarla del tutto o quasi.

In una società globale sempre più rapida, nella quale i confini si assottigliano in nome del progresso e della capacità di raggiungere in tempi brevi qualsiasi luogo sulla Terra, in cui le culture si ibridano fino a rendere quasi indistinguibili le rispettive origini Silence appare un vero azzardo da parte di Scorsese, un atto di coraggio paragonabile a quello dei due gesuiti raccontati all'interno del film che con una certa dose di incoscienza giovanile vanno incontro a un destino avverso. Certamente l'autore di Taxi Driver (1976) non è più un giovinetto eppure nella sua ferma volontà di portare sugli schermi una pellicola stilisticamente così lontana da quello dei suoi prodotti più apprezzati dal pubblico attuale sembra confermare una delle battute di Rodrigues che racchiude forse l'essenza stessa del film e dell'operazione del regista nella quale afferma, dinanzi all'inquisitore e altre autorità nipponiche, come qualsiasi azione essi possano compiere non smuoveranno mai il suo cuore. Nemmeno quando sembrerà che vi siano riusciti aggiungo io. Fin dall'incipit, introdotto da una lunga e silenziosa inquadratura vuota completamente nera sulla quale poi compare il titolo, il film adotta una forma rigorosa, scevra da commenti musicali o da prodigiosi movimenti di macchina (le uniche finezze in questo senso sono rappresentate dalla God's Eye View sulle scale proprio durante la prima sequenza e dalla vertiginosa carrellata all'indietro durante la fuga del protagonista che richiama in parte l'effetto Vertigo) in luogo di una ricerca prettamente incentrata sul colore. Quasi tutto il lungometraggio è dominato dall'ombra, dal fango e dal sangue che a esso si mescola, dipingendo dunque ambienti così oscuri da risaltare i piccoli e sporadici barlumi di luce protratti da fiaccole accese durante la notte, quando i persecutori non sono all'opera, capaci di ricreare quella singolare intimità silente tipica della pittura di Jan Vermeer.

Il riferimento al pittore fiammingo, attorno al cui operato si conforma quasi per intero lo stile di Silence, diventa il naturale strumento formale per poter mettere in scena la visione religiosa di Scorsese, già accennata e mostrata in molti suoi lavori precedenti ma che in questo caso trova il suo compimento e una maturità linguistica totale. Ciò che mostra il cineasta simbolo della New Hollywood è prima di tutto la natura assolutamente privata, intima della fede in contrasto con quella esteriore e rituale della stessa. Se da un lato risulta ben evidente anche a chi non abbia compiuto studi teologici quanto sia importante per ogni religione il versante del rito, del tramandare gesti pubblici compiuti magari collettivamente dai fedeli il regista ne evidenzia la fallacia, la subordinazione di questi atti formali dinanzi alla convinzione interiore di credere nell'esistenza di un'entità trascendente alla quale sottomettere il proprio egoistico interesse. Molta critica nostrana e americana sottolinea come la richiesta ai cristiani sotto minaccia da parte dell'inquisitore di calpestare una icona raffigurante Gesù rappresenti uno dei momenti in cui Scorsese dimostra l'abissale differenza tra la cultura europea e quella giapponese, nella quale le immagini religiose possiedono un valore realmente sacro e dunque profanarle significa davvero rinnegare Dio, a differenza dell'idea solamente simbolica che gli occidentali riservano a questi oggetti. A causa di tali differenza il Padre interpretato con enorme potenza emotiva da Andrew Garfield chiede più volte ai fedeli di cedere al ricatto degli aguzzini e per lo stesso motivo la maggior parte di essi preferiscono morire dopo atroci sofferenze piuttosto che voltare le spalle a Dio. La tematica relativa al relativismo culturale e all'arroganza violenta di matrice imperialista occidentale è dunque ben presente nella pellicola e lo dimostrano i colloqui tra Rodrigues, l'interprete e Ferreira ma vi sono due elementi che mi portano a pensare che al centro del percorso di martirio fisico e psicologico girato da Scorsese vi sia il primato dell'interiorità rispetto all'esteriorità: il primo è rappresentazione delle brutalità commesse da ogni singolo personaggio, dagli ufficiali del governo che perseguitano, torturano e uccidono loro simili solamente per paura che il Cristianesimo possa diventare un'arma di penetrazione europea nel paese allo stesso protagonista che per pura superbia finisce per identificarsi con Gesù e anche per questo rinuncia a calpestare le icone cristiane facendo morire centinaia di persone, persino il suo migliore amico. Nessuno è completamente libero dal peccato, il male sembra albergare ovunque sulla Terra a giudicare da ciò che si vede e quindi come può esservi la mano del Creatore in tanta sofferenza? La risposta all'interrogativo che assilla da secoli qualsiasi uomo e anche Rodrigues alberga nel personaggio più ambiguo e al contempo centrale del film, il peccatore Kichijiro. Un uomo che, come afferma in un momento di grande sconforto, se fosse nato qualche decennio prima sarebbe stato un ottimo cristiano ma che invece rinnega continuamente la fede, tradisce il prete che lo ha riportato in Giappone senza però accettare le trecento monete d'argento offerte dalla taglia e fugge dalla condanna al rogo inflitta a tutta la sua famiglia senza però fuggire lo sguardo sull'intera orribile scena. Kichijiro all'esterno appare un codardo, un approfittatore che pensa solo alla propria incolumità eppure ogni volta che pecca rischia anche la morte pur di chiedere al protagonista una confessione e questi, sebbene sempre più restio, finisce sempre per concedergliela, inizialmente quasi spinto solamente da quell'aberrante mania di grandezza che lo porta a identificarsi con Cristo (meravigliosamente didascalica la scena in cui il prete si specchia in un ruscello vedendo al posto del suo volto quello di Gesù e da questo prova un piacere irrazionale e perverso, come l'innamoramento di Narciso per la sua immagina riflessa) ma in seguito alla resa dinanzi all'inquisitore il giovane gesuita capisce finalmente che la sua prima guida nel paese asiatico rappresenta l'esempio massimo di come si possa al contempo peccare e amare Dio con tutta la forza che si ha. Kichijiro è la manifestazione vivente della dialettica tra fede esternata e fede intima e diventerà l'esempio da seguire, insieme al ritrovato Padre Ferreira, per Rodrigues, il quale vivrà una vita agli occhi del mondo da prete apostata, con un nome giapponese, moglie, figli e persino un impiego svolto con rigore estremo che prevede l'individuazione e l'eliminazione di qualsiasi riferimento al Cristianesimo nei prodotti importati dall'Europa in Giappone ma al contempo, durante il finale volutamente diverso rispetto a quello del romanzo, verrà sepolto, ovviamente secondo rito buddhista, con stretto tra le mani il crocifisso donatogli nel villaggio che lo aveva accolto al suo sbarco nel paese del Sol levante.

Dopo aver posto la luce sull'assordante caos dell'inferno economico di Wall Street e sull'ascesa/discesa del luciferino Jordan Belfort Scorsese decide dunque di mostrare come la vera ricchezza, l'essenza del nostro io stia nell'invisibile dimensione del silenzio, dell'assenza. Un ossimoro proprio come il mistero della fede.

sabato 25 agosto 2018

COLOSSAL: LE CONSEGUENZE DELLE DIPENDENZE

Con ben due anni di ritardo e per di più solamente tramite Netflix è finalmente stato distribuito in Italia Colossal, ultima pellicola firmata dallo spagnolo Nacho Vigalondo nel 2016. Come ormai da abitudine per questo autore indipendente dedito a una rilettura molto personale dei generi il film ha ricevuto un buon riscontro critico, specialmente per quanto concerne la performance della protagonista Anne Hathaway, ma è passata del tutto o quasi inosservata presso il grande pubblico, motivo per il quale i distributori italiani non hanno voluto scommettere su questo prodotto. Un grave peccato a mio avviso poiché proprio per questa release così posticipata e limitata, nonostante l'innegabile diffusione della piattaforma on-demand sopracitata, molti di voi hanno perso l'opportunità di godersi un film che, lo dico fin da subito, merita certamente una visione.

Dopo una sequenza di apertura ambientata in Corea del Sud che mostra l'apparizione di un misterioso quanto enorme mostro la narrazione si sposta cronologicamente di venticinque anni e spazialmente negli Stati Uniti, dove vive Gloria (Anne Hathaway), una donna chiaramente dipendente dall'alcol e che a causa di ciò non riesce a vivere con serietà ed equilibrio la propria vita. Proprio tale problema porta il suo ragazzo Tim (Dan Stevens) a lasciarla, i suoi datori di lavoro (la ragazza scrive per una rivista online) a licenziarla e nessun altro pare intenzionato ad assumerla, così la protagonista lascia miseramente New York per tornare nella piccola cittadina della sua infanzia. Mentre si avvia verso la casa lasciatale dai genitori Gloria incontra per caso (almeno così sembrerebbe) Oscar (Jason Sudeikis), suo vecchio amico dei tempi della scuola del quale in realtà ricorda poco o niente a causa delle continue sbronze. I due tornano a frequentarsi e l'uomo le offre di lavorare nel suo bar, frequentato quasi solamente dall'ex tossico Garth (Tim Blake Nelson) e dal giovane e impacciato Joel (Austin Stowell). Nel frattempo, tra una sbronza e l'altra, il mostro visto nell'incipit torna a tormentare Seul ma ciò che sconvolge realmente Gloria è la graduale scoperta che in realtà questi non è altro che una sorta di suo avatar che si attiva quando la donna entra in un parchetto della cittadina alle 8 e 5 di mattina. La situazione degenererà poi quando anche Oscar entrerà nel suddetto luogo dando vita a un suo avatar dalle sembianze di un robot simile a quelli che hanno reso famoso il mangaka Go Nagai. L'uso che il barista farà di questo potere sarà tutt'altro che positivo.

A dispetto di quanto faccio di solito per Colossal mi sono dilungato a lungo nell'esplicare la sinossi perché, come da tradizione ormai per Vigalondo, il film in analisi viene certamente catalogato per meri motivi pratici sotto l'etichetta della fantascienza ma il suo cuore supera abbondantemente le barriere del genere e probabilmente anche farlo rientrare all'interno del filone sociologico della sci-fi (si pensi a tal proposito a L'uomo che fuggì dal futuro di George Lucas o La decima vittima di Elio Petri, girati rispettivamente nel 1971 e 1965) non risulterebbe del tutto esatto. La pellicola in questione nel corso della narrazione dimostra con sempre maggiore sicurezza come gli elementi fantascientifici rappresentino degli inserti metaforici, dei simboli atti a rafforzare la riflessione tutt'altro che semplicistica o buonista sulle dipendenze da sostanze in grado di alterare la percezione della realtà, in primis l'alcol, e le conseguenze delle stesse. Nell'affrontare un tema tanto delicato quanto drammaticamente attuale il cineasta iberico mescola con fantasia e lucida conoscenza della realtà al contempo il registro drammatico a quello ironico con un senso dello humour che spesso tocca corde sprezzantemente ciniche ma solamente per raggiungere uno scopo ben preciso: dimostrare al pubblico quanto poco romantico o divertente sia in realtà vivere perennemente sotto l'influenza di una droga, di qualunque tipologia.
Ecco dunque che anche l'inserimento di queste figure mostruose di ascendenza nipponica si trasforma da scelta curiosa in ottima allegoria di ciò che diventano un uomo e una donna che gettano via il proprio libero arbitrio, la propria razionalità e dunque umanità in favore di uno smodato e continuo abuso di alcol, capace non solo di distruggere le loro vite ma anche e soprattutto quelle di chi gli sta accanto e persino di perfetti sconosciuti che vivono dall'altra parte del globo. Gloria e Oscar rappresentano due facce della stessa medaglia, accomunati dai medesimi vizi, dall'insoddisfazione, dall'incapacità di risultare affidabili e di stringere veri legami con il prossimo ma soltanto la prima nel corso del film riesce ad aprire gli occhi sulla propria condizione e conseguentemente a tentare di assumersi la responsabilità delle proprie azioni. Il barista invece non solo rifugge nella dipendenza la propria infelicità ma finisce per dimostrarsi una persona estremamente egoista e sadica, capace di infliggere dolore agli altri solamente per alleviare la sua solitudine. Nonostante ciò il regista non abbandona mai l'ironia già citata che contraddistingue la pellicola, rendendola in parte comparabile proprio alle velleità da dark comedy proprio de La decima vittima, dal quale recupera anche un certo utilizzo ludico di scenografie ed effetti speciali fantascientifici, sottolineando come l'elemento sci-fi sia solo un mezzo per raccontare qualcosa che è molto più presente rispetto ad astronavi e invasioni aliene.

Una breve ma doverosa menzione meritano i due attori principali, Anne Hathaway e Jason Sudeikis, i quali reggono sulle proprie spalle un film nel quale Vigalondo non cerca spericolati movimenti di macchina in favore di inquadrature ravvicinate atte proprio a esaltare le interpretazioni dei due. In particolare l'attore di Come ammazzare il capo...e vivere felici (Horrible Bosses, Seth Gordon, 2011) dimostra di poter recitare in maniera ottima anche al di fuori di contesti comici, donando al proprio personaggio persino sfumature esistenziali e morali che esulano dalla sceneggiatura, oltre a rendere palpabile il crescente ribaltamento etico dello stesso da cavaliere senza macchia ad alcolista infelice e spregevole.

lunedì 13 agosto 2018

PAIN & GAIN: LA STUPIDA E INQUIETANTE AMERICA SECONDO MICHAEL BAY

Penso di poter affermare con pochissimi dubbi che tra i registi più odiati, soprattutto nella tipica ostentazione dei social network, al mondo abbia un ruolo di spicco Michael Bay, nonostante quasi tutti i suoi film abbiano sbancato il botteghino, alla faccia dei detrattori e di una larga porzione della critica che non lo hai mai visto di buon occhio. Dopo aver girato alcuni blockbuster dagli ottimi incassi negli anni '90 il cineasta statunitense lega il proprio nome al franchise miliardario di Transformers, eppure proprio tra un capitolo e l'altro della saga ispirata ai giocattoli Hasbro riesce a realizzare un progetto con budget più contenuto e maggiormente personale: Pain & Gain. La pellicola, distribuita nel 2013, ottiene un discreto riscontro commerciale, sebbene lontano anni luce da quelli a cui è abituato il regista, contornato da reazioni ben più lusinghiere da parte della critica rispetto alla maggior parte dei suoi lavori precedenti.

Il film, a ulteriore dimostrazione della sua divergenza con Transformers (2007) e seguiti, si ispira a fatti realmente accaduti e testimoniati da numerosi articoli di giornale del 1999 circa le incredibili avventure criminali di tre bodybuilder di Miami. Il trio, composto dal capo Daniel Lugo (Mark Whalberg), l'amico Noel Doorbal (Anthony Mackie) e l'ex detenuto ossessionato dalla fede Paul Doyle (Dwayne "The Rock" Johnson), tenta di svoltare da una vita economicamente tutt'altro che soddisfacente con il rapimento del ricco e odioso Victor Kershaw (Tony Shalhoub). Nonostante i continui passi falsi compiuti dai protagonisti questi riescono a farsi intestare l'intero patrimonio della vittima ma non a ucciderlo, firmando così la loro condanna, grazie anche all'intervento dell'ex detective privato ora in pensione Ed Du Bois III (Ed Harris).

Nel corso della sua ormai ventennale carriera cinematografica Michael Bay è stato additato soprattutto di proporre uno stile estetico esagerato e ipercinetico abbinato a sceneggiature poco intelligenti e ricche di coordinate morali conservatrici. Ebbene Pain & Gain, che ci crediate o meno (a mio modesto parere una sola visione basta per rendersene conto), ribalta completamente questo stereotipo sfruttandolo a vantaggio della riuscita del film e della sua natura satirica. Ripescando una vena ironica dissacrante intravista precedentemente solo in The Rock (1996) il regista californiano realizza una dark comedy sfrontata sotto ogni punto di vista, dall'umorismo nero lontano anni luce dal politically correct del quale l'autore è stato spesso accusato alla violenza quasi mai censurata dalla cinepresa, e il cuore pulsante della stessa risulta proprio quella stupidità rimproveratagli dai suoi numerosi detrattori. Il trio di improvvisati criminali e in primis il leader Daniel credono di poter imitare l'ascesa di quei self made men resi iconici dalla cultura americana come Tony Montana o Rocky Balboa senza rendersi conto però di non avere un briciolo delle capacità dei loro idoli e di essere dei completi idioti, privi di istruzione e talmente goffi da non riuscire neanche a uccidere un uomo dopo averlo fatto schiantare in auto, bruciato vivo e investito due volte in una delle sequenze più esilaranti del film. Il ricorso al registro della farsa e del grottesco non si traduce mai in una completa empatia verso i protagonisti, così come neanche le loro vittime vengono dipinte come innocenti oggetti di aggressioni, rendendo in tale senso ogni personaggio su schermo estremamente ambiguo sul versante morale. Persino le "ignare" compagne di Doorbal e Doyle vengono poste sul banco degli imputati (prima metaforicamente e poi fisicamente nel finale) se non per aver contribuito ai reati dei loro uomini quanto meno per quello della stupidità, in questo caso per non essersi rese conto di ciò che accadeva davanti ai loro occhi. La suddetta stupidità trova la sua origine in un contesto culturale prettamente americano impregnato dal già citato mito del successo individuale a tutti i costi, un ideale che nel corso dei decenni ha finito per corrompere le menti degli statunitensi spingendolo a rinunciare a ogni remora etica e a delinquere pur inseguire questo ideale di soddisfazione economica del singolo. Proprio come da me evidenziato a proposito di The Social Network il sogno americano pare aver assunto forme sempre più devianti, conturbanti e inquietanti e sebbene il film di Bay sia ambientato negli anni '90 pare evidente come i suoi attacchi siano prettamente attuali.

Quale registro formale sarebbe stato più adatto a una storia su un trio di criminali stupidi se non quello etichettato come altrettanto stupido ricco di iperboli cinetiche, continui movimenti di macchina e ralenti tipico dello stesso autore di Bad Boys (1995)? Con una inaspettata quanto arguta scelta stilistica Bay mette in mostra la sua spesso messa in dubbio natura autoriale utilizzando metacinematograficamente quelli da sempre definiti come suoi difetti congeniti per attaccare quell'America conservatrice e amorale da molti considerata parte integrante dei suoi spettatori e, allo stesso tempo, la critica e detrattori convinti che non vi sia alcuna corrispondenza poetica alla forma delle pellicole da lui girate. Trovano dunque una loro ragion d'essere le soggettive impossibili di oggetti inanimati o il piano sequenza con la cinepresa che attraversa digitalmente la gabbia di ferro di un ventilatore, la cui chiara ispirazione al celeberrimo long take di Professione reporter (The Passenger, Michelangelo Antonioni, 1975) senza però alcuna affinità poetica si conforma ai difetti dei tre rapitori improvvisati.
Pain & Gain risulta alla luce di quanto evidenziato il film che potrebbe far cambiare opinione ai detrattori più accorti e aperti intellettualmente di Bay, dimostrandone almeno una maturazione rispetto al passato che trova il suo apice nel disilluso finale, capace di confermare ancora una volta l'inguaribile ingenuità del culturista interpretato con perizia da Mark Wahlberg ma anche una certa empatia verso lo stesso, certamente colpevole per tutto il male che ha causato ma anche vittima di una disumana rincorsa a un determinato status sociale dettata dalla cultura nel quale è nato e cresciuto.

sabato 11 agosto 2018

THE SOCIAL NETWORK: L'AMERICAN DREAM 2.0

A due anni dal successo unanime di un film tendente in un certo senso a un realismo magico di saviniana memoria quale The Curious Case of Benjamin Button (2008) David Fincher realizza nel 2010 una sua versione del genere che per antonomasia guarda al reale e alla storia, il biopic. Mi riferisco in questo caso a The Social Network, pellicola ispirata alla nascita e ai primi anni del boom del fenomeno Facebook e alle vicende legali inerenti. Nonostante o probabilmente anche grazie alle controversie legate a un topic tanto attuale e alla scelta di raccontare un personaggio non solo ancora vivo ma anche molto giovane il lungometraggio si rivela un trionfo, sia dal punto di vista commerciale che critico, con tanto di numerosi premi vinti in tutto il mondo e il suo inserimento in ogni classifica dei migliori film dell'anno.

Protagonista della pellicola è ovviamente, come non manca di evidenziare la prima sequenza, Mark Zuckerberg (Jesse Eisenberg), giovane studente di Harvard che, per sfogarsi dopo essere stato lasciato dalla sua ragazza Erica (Rooney Mara), hackera tutti i portali online dei dormitori universitari così da rubare le foto di tutte le sue compagne e utilizzarle per creare FaceMash, un sito sul quale gli utenti possono votare con un click chi tra una coppia di studentesse sia la più desiderabile. La creazione del giovane viene bloccata in poche ore ma solo dopo aver raggiunto tutti gli studenti dell'università, rendendolo di fatto una celebrità nel campus, tanto da venire avvicinato dai gemelli Winklevoss (Armie Hammer nel ruolo sia di Cameron che Tyler), due rampolli di una ricchissima famiglia statunitense campioni di canottaggio e desiderosi di assumere il compagno per creare HarvardConnection, un social network dedicato solamente a coloro che frequentano la prestigiosa università. Mark accetta immediatamente ma soltanto per rendersi conto di poter sfruttare tale idea plasmandola secondo criteri maggiormente democratici e attraenti per gli utenti. Propone l'idea di un proprio social network al suo migliore amico Eduardo Saverin (Andrew Garfield), lo stesso che gli aveva fornito l'algoritmo per creare FaceMash, il quale accetta di finanziare il progetto che una volta concretizzatosi diventa The Facebook. L'inesorabile e rapidissimo successo della creatura della coppia cambia completamente le loro vite, attira la rabbia dei gemelli, i quali finiscono per denunciare Zuckerberg, l'amicizia tutt'altro che disinteressata dell'eccentrico creatore di Napster Sean Parker (Justin Timberlake) e finisce per distruggere per sempre il rapporto fraterno dei due fino a uno scontro in tribunale.

All'uscita in sala e persino prima della distribuzione molte testate o personaggi reali citati in The Social Network hanno aspramente criticato la mancanza di aderenza ai fatti reali ma contestare il film di Fincher con tali accuse dimostra solo una mancata visione dello stesso. La sceneggiatura arguta di Aaron Sorkin, esattamente come nel caso del successivo Steve Jobs, evita deliberatamente di porsi quale accurata ricostruzione degli eventi pubblici o privati ormai ben noti del personaggio che racconta ma tenta di carpirne il mistero interiore, l'insondabile abisso che si trova nella sua mente e con esso, attraverso un processo di sineddoche, mettere in scena la frammentarietà e impossibilità di racchiudere in categorie kantiane un presente sempre più liquido. Il Mark Zuckerberg ritratto dalla sua penna certamente affascina per le intuizioni geniali delle quali si mostra capace e la strafottenza con cui si fa beffe della potente famiglia Winlevoss ma al contempo appare incapace di aprirsi al mondo. Proprio colui che ha connesso ogni continente semplicemente attraverso un sito internet riesce soltanto ad allontanare le persone con le quali entra in contatto fisicamente, da Erica fino a Eduardo, ancora incredulo per come possa essere stato tradito così. Il protagonista appare sempre ambiguo: Fincher lo inquadra quasi sempre di tre quarti e con il viso solcato da una netta ombra obliqua che lo allontana anni luce dal tipo dell'eroe da classicismo hollywoodiano, programmaticamente buono dal punto di vista etico e inquadrato con primi piani frontali per aiutare lo spettatore a immedesimarsi nello stesso. Il creatore di Facebook risulta dunque maggiormente accostabile al fascino machiavellico di personaggi quali Hannibal Lecter o Dracula nella sua versione di Francis Ford Coppola, figure eticamente difficili da ammirare eppure capaci di entrare in un forte rapporto empatico con lo spettatore, il quale ne coglie contraddizioni e lotte interiori. In fondo lo stesso Fincher, sfruttando con sagacia il mezzo cinematografico per eccellenza, il montaggio, mette sempre in dubbio i reali sentimenti del giovane miliardario attraverso ellissi sempre efficaci rese poi evidenti dalla sequenza nella quale al protagonista viene fatto notare quanto sarebbe facile insinuare nella giuria di un eventuale processo tra Mark ed Eduardo come il primo potesse essere la mente dietro le diffamazioni riguardanti presunti abusi su animali del secondo e persino aver chiamato la polizia per cogliere sul fatto Sean Parker durante un festino a base di minorenni e cocaina.

Ancora una volta dunque il cinema del regista di Seven (1995) porta sullo schermo il dubbio, l'ambiguità morale della società americana focalizzandosi questa volta su una vera e propria deflagrazione del mito del sogno americano, del self-made man e della possibilità offerta dalla democrazia a stelle e strisce a ogni uomo volenteroso e capace di poter realizzarsi professionalmente e così vivere felice. Saverin e lo stesso Zuckerberg affermano più di una volta che questi non possiede un grande interesse per il tornaconto economico eppure sacrifica ogni affetto, la carriera universitaria e addirittura la propria immagine pubblica per poter realizzare qualcosa di grande, un progetto che possa renderlo famoso, rispettato e temuto. Un uomo in controllo, proprio come lo Steve Jobs dell'omonimo film di Boyle. Ecco dunque cosa diventa il sogno americano nell'era del web 2.0, della rivoluzione digitale e della condivisone con sconosciuti di ogni attimo della nostra vita privata, un inquietante delirio di affermazione della propria individualità a discapito di tutto e tutti, persino se stessi, come denuncia con raggelante efficacia la sequenza finale in cui il protagonista, rimasto solo nell'ufficio nel quali si sono svolti gli scontri legali con il suo ex migliore amico, invia dopo una breve esitazione una richiesta d'amicizia sul sito che ha creato alla sua ex ragazza, la stessa che gli aveva rimproverato di essere uno stronzo incapace di rapportarsi con la vita reale e che lo aveva deriso augurandogli buona fortuna con il suo videogioco (Mark l'aveva incontrata in un locale dopo i primi successi di The Facebook e tentando di scusarsi con lei le aveva raccontato con candido orgoglio i trionfi della sua creazione). Il film si conclude con l'inquadratura statica del giovane che osserva lo schermo del pc in attesa che la ragazza accetti la sua richiesta e il suono ossessivo del mouse che lascia intendere come questi aggiorni continuamente la pagina del browser.
David Fincher si conferma con The Social Network, anche grazie al grande lavoro in sede di sceneggiatura di Sorkin, tra i più abili cineasti nel raccontare le ossessioni del mondo contemporaneo. 

mercoledì 8 agosto 2018

STEVE JOBS: IL BIOPIC SECONDO LA COPPIA BOYLE-SORKIN

Sebbene spesso si tenda a limitare la gran parte dell'attuale panorama cinematografico hollywoodiano e commerciale in genere ai blockbuster supereroistici o ad altri prodotti seriali preminentemente fantastici quali Star Wars o Jurassic Park è innegabile come il genere del biopic abbia riscontrato negli ultimi anni una certa rinascita, sancita da pellicole campioni di incassi e premiate in tutto il mondo come La teoria del tutto (The Theory of Everything, James Marsh, 2014) e The Danis Girl (Tom Hooper, 2015). All'interno di questa nuova età dell'oro della biografia filmica dominata da registi e produzioni estremamente debitrici del cinema classico e delle performance delle star che giganteggiano nei ruoli da protagonisti trova un suo spazio e una propria identità Steve Jobs, lungometraggio diretto dall'inglese Danny Boyle (Trainspotting, 1996; 28 Days Later, 2002) e scritto da Aaron Sorkin, commediografo e sceneggiatore ben più avvezzo a questo tipo di operazioni rispetto al cineasta appena citato. Sostenuto da un cast attoriale di prim'ordine il film convince in pieno la critica in tutto il mondo ma si rivela tutt'altro che un successo economico, mettendo in mostra per l'ennesima volta la distanza che spesso intercorre tra i gusti del pubblico e quelli della stampa specializzata, in special misura quando al centro delle indagini si trova un prodotto ascrivibile a un genere molto popolare ma che ne affronta stilemi e topoi in maniera molto personale.

Come facilmente intuibile dal titolo il lungometraggio in analisi ripercorre alcune tappe fondamentali della vita, sia pubblica che privata, del volto più noto dietro le fortune della Apple, interpretato per l'occasione da Michael Fassbender. Il film si divide in tre atti separati da spazio e tempo che rappresentano sempre i minuti che precedono una presentazione di un nuovo e fondamentale prodotto ideato da Jobs, come il Macintosh o l'iMac, e dunque le continue discussioni con l'ex migliore amico Steve Wozniak (Seth Rogen), l'incoraggiamento e le preoccupazioni della esperta di marketing e sua compagna in ogni avventura finanziaria Joanna Hoffman (Kate Winslet) ma soprattutto il graduale e incostante sviluppo di un rapporto con la figlia Lisa, inizialmente neanche riconosciuta come tale e infine rivelatasi fonte di ispirazione non solo per l'omonimo computer ma soprattutto per uno dei maggiori successi tecnologici del cofondatore della società di Cupertino, l'iPod.

Immaginare un autore come Danny Boyle alle prese con il classico biopic che racconta l'intera vita di un personaggio storicamente noto pare un azzardo per chiunque ne conosca la filmografia e in fondo una pellicola molto aderente ai dettami del genere esisteva già prima dell'uscita di Steve Jobs: mi riferisco a Jobs, diretto nel 2013 da Joshua Michael Stern con protagonista Ashton Kutcher. A scanso di equivoci è bene chiarire immediatamente che con l'opera del regista britannico ci troviamo su ben altri lidi, immersi grazie alla sapienza teatrale e drammaturgica di Sorkin all'interno di una bolla di sapone, di un continuo nonluogo, riprendendo il lemma coniato da Marc Augé, formato da corridoi, quinte teatrali e camerini all'interno dei quali prende forma tutto il mondo interiore del protagonista. Un io tutt'altro che unitario e coeso, immergendo dunque Jobs all'interno di quella categoria antropologica alla quale appartiene l'uomo contemporaneo caratterizzata dalla frammentazione della coscienza, dalla stratificazione dell'interiorità emotiva e psicologica. Il personaggio magistralmente interpretato da Fassbender appare diviso tra l'enorme ego che ostenta davanti al prossimo e ai media, al punto da risultare persino insopportabile anche alle persone che più gli sono vicine, e l'evidente mole di difese costruite per evitare di affezionarsi alle persone, di perdere il controllo (citando un'esplicita dichiarazione contenuta nel film) su ciò che lo circonda lasciandosi tentare dai sentimenti. Il controllo è ciò a cui aspira maggiormente la mente dietro iPhone e iPad, la sensazione di poter dominare la propria vita e quella altrui e che dunque lo spinge a immettere sul mercato tecnologie end to end (ossia non personalizzabili dall'utente), a negare dei sacrosanti riconoscimenti pubblici verso il grande lavoro svolto dal "rain man" (così definito proprio da Jobs nella sequenza centrale) Wozniak e infine a vivere un ruolo genitoriale sempre distaccato, summa di questa mania per il controllo nata dalla sua condizione di orfano rifiutato da almeno due famiglie.

Sorkin divide astutamente la pellicola in tre atti ben distinti e al contempo capaci di susseguirsi in maniera quasi indistinta grazie alle scelte registiche di Boyle, il quale abbandona gran parte dei propri stilemi formali divenuti famosi negli anni '90 in favore di un largo ricorso al piano sequenza, a lunghe inquadrature separate da stacchi di montaggio talmente morbidi da risultare quasi invisibili, creando un effetto che ricorda, anche per assonanze tematiche e scenografiche, Birdman (Alejandro Gonzalez Inarritu, 2014) e Nodo alla gola (Rope, Alfred Hitchcock, 1948) e che dunque si pone agli antipodi dall'approccio ipercinetico di inizio carriera, mostrando una maturazione linguistica e formale confermata dal successivo T2 Trainspotting. Una chiara presa di posizione formale dettata non da virtuosismi fini a se stessi o dalla bieca imitazione del successo appena citato a opera del cineasta messicano ma generata inevitabilmente perché il centro, il punto focale dell'intero film è il mondo interiore di Steve Jobs, la sua mente e non gli avvenimenti che ormai tutti conosciamo e che per questo vengono presentati allo spettatore con numerose licenze rispetto alla verità storica. Ciò che sta a cuore della coppia Sorkin-Boyle è rappresentare il frastagliato, complesso e ruvido universo emotivo che si cela dietro i tanti successi e le altrettante sconfitte che dominano la vita di un uomo simbolo del mondo in cui viviamo. Parafrasando le evoluzioni della letteratura occidentale il film in questione si pone nel solco della ricerca novecentesca sull'inconscio e la memoria operata da figure quali Marcel Proust o James Joyce, in aperto contrasto con un genere cinematografico tra i più vicini al romanzo ottocentesco rappresentato da Charles Dickens o Gustave Flaubert.
Steve Jobs potrebbe dunque essere definito come la ricerca del tempo e degli affetti perduti del geniale cofondatore di Apple, un viaggio sospeso tra spazio e tempo teso a indagare l'uomo e non il personaggio, l'orfano più che l'imprenditore, il padre e solamente dopo l'inventore.