giovedì 26 luglio 2018

THE VOID: IL NEW HORROR AI TEMPI DEL CROWDFUNDING

Nel corso degli ultimi anni il fenomeno economico e mediale del "crowdfunding", ossia del finanziamento online di un dato progetto tramite offerte libere da parte degli utenti della rete, ha conosciuto un grande sviluppo rivelandosi un ottimo sistema produttivo per quei creativi indipendenti privi di qualsiasi produttore alle loro spalle. Molti videogame, album musicali o persino dispositivi di realtà virtuale hanno potuto vedere la luce attraverso le donazioni, in cambio di alcuni premi prefissati a seconda dell'entità della stessa, di fan o semplici curiosi attirati dalle idee messe in mostra dal richiedente. Tra i progetti andati fortunatamente in porto trova il suo posto d'onore anche The Void, pellicola horror il cui modestissimo budget è costituito per la maggior parte dal denaro raccolto attraverso il sistema appena citato e diretta dal duo di esperti di effetti speciali Jeremy Gillespie e Steven Kostanski. Nonostante il limitato capitale a disposizione, specie per un prodotto statunitense, il film riesce a essere distribuito in alcune sale americane e a raggiungere il resto del mondo in home video, riscontrando buoni risultati economici e ottime recensioni dalla critica di genere.

Al centro delle vicende narrate si trova un gruppo non esattamente affiatato di individui trovatisi loro malgrado a non poter abbandonare un poco attrezzato ospedale nella provincia americana: il vicesceriffo Daniel, sua moglie e infermiera Allison, il dottor Powell, la tirocinante Kim, una ragazza incinta di nome Maggie accompagnata dal nonno e James, un tossicodipendente soccorso dallo stesso Daniel e dunque causa della sua presenza nell'edificio. Senza alcun apparente motivo i presenti vengono costretti a non abbandonare l'ospedale da una folta e sinistra schiera di uomini incappucciati mentre altri dei presenti si tramutano in esseri mostruosi e assetati di sangue. L'improvviso irrompere nella struttura da parte di Vincent, un irruento uomo armato, e suo figlio muto Simon complicano ancora di più la convivenza all'interno del gruppo, mentre appare chiara la presenza di oscuri segreti all'interno dell'ospedale.

Dopo pochi minuti dall'inizio di The Void appaiono piuttosto esplicitamente molti dei riferimenti che hanno accompagnato nella realizzazione dello stesso la coppia di registi. Se, come sbandierato da molte recensioni sia anglofone che italiane, il modello Carpenter guida i due specialmente per quanto concerne i tipi, i caratteri che formano il gruppo di protagonisti e la loro condizione di reclusi (in realtà tale espediente narratologico andrebbe ricondotto ad autori precedenti e ben noti al regista di Halloween del 1978 come David Wark Griffith o Howard Hawks) mi sembrano ben più forti le ispirazioni provenienti dalla mitologia di H. P. Lovecraft, da Hellraiser (Clive Barker, 1987) e Silent Hill, il videogioco prodotto da Konami nel 1999 e successivamente trasposto cinematograficamente da Christoph Gans. Queste tre fonti si rivelano delle vere e proprie guide, delle bussole alle quali i registi si affidano sia sul versante poetico che formale, come dimostra l'abbondante ricorso a effetti speciali completamente artigianali e privi di CGI per creare deformità e mostri estremamente carnali, fisici in grado di mutare nel corso della stessa inquadratura dando vita a immagini gore ricche di elementi fallici e altri riferimenti sessuali (si pensi alla costanza con la quale le uccisioni prevedano che i corpi vengano trapassati da coltelli, accette o aste metalliche), richiamando alla mente la patologica  coesistenza di Eros e Thanatos alla base del lungometraggio su Pinhead. Della serie videoludica apparsa per la prima volta sulla prima Playstation Gillespei e Kostanski abbracciano la claustrofobia generata da stretti e tetri corridoi colorati solamente dal rosso ramato del sangue così come lo stesso setting ospedaliero e le sovrannaturali quanto improvvise mutazioni dell'ambiente in cui agiscono i protagonisti dimostrano l'ascendenza da tali videogame.

A questo punto potreste pensare che la pellicola in analisi rappresenti l'ennesimo prodotto dell'ondata di nostalgia verso gli anni '80 e '90 che ha sancito il successo di remake quali It (Andy Muschietti, 2017) o il serial televisivo Stranger Things (Matt e Ross Duffer, 2016-) ma il lavoro in questione si distingue per il sottile equilibrio con il quale da un lato evita di nascondere meschinamente i grossi debiti nei confronti di decenni di cinema di genere, soprattutto di quel new horror nato nel corso dell'esplosione del fenomeno Hollywood Reinassance grazie a registi come lo stesso John Carpenter,e dall'altro rielabora le lezioni impartite dai riferimenti appena evidenziati attraverso inquadrature molto ben costruite dal punto di vista della composizione, un montaggio molto più rapido e un ottima alternanza tra azione e sequenze oniriche che sfiorano sempre più il metafisico verso il finale.
Probabilmente con un budget più consistente e uno sceneggiatore più coraggioso The Void avrebbe potuto eccellere semplicemente donando maggiore rigore e spessore immaginifico ai suddetti momenti trascendenti, i quali, pur affascinando lo spettatore attraverso l'inquietudine provocata dall'onnipresente motivo geometrico del triangolo o dalle immobili figure incappucciate, appaiono non così potenti da sopperire attraverso le immagini alle ellissi su tematiche di sicuro interesse come le dialettiche vita-morte e genitori-figli. Nonostante ciò il film resta un prodotto consigliato senza remore e in grado di soddisfare i palati di ogni appassionato di cinema dell'orrore.

venerdì 20 luglio 2018

SKYFALL: LA RESURREZIONE DI JAMES BOND

Gli eccellenti risultati commerciali ottenuti da Quantum of Solace (Marc Forster, 2008) confermano i favori del pubblico nei confronti del nuovo corso della mitopoiesi di 007, convincendo la MGM a mettere in cantiere un ulteriore sequel, ancora una volta legato diegeticamente alla narrazione del film precedente, esattamente come nel caso della pellicola sopracitata con Casino Royale (Martin Campbell, 2006). Reiterando una coraggiosa scelta di casting avvenuta già nel caso del film del 2008 la produzione affida la regia a un autore tutt'altro che avvezzo con i blockbuster d'azione: Sam Mendes, director asceso alla ribalta internazionale attraverso il grande successo di un lungometraggio indipendente quale American Beauty (1999), premiato persino con l'Academy Award per la miglior regia. Nel 2012 le sale di tutto il mondo vengono dunque invase da Skyfall, ventitreesimo episodio della saga distribuito in occasione del cinquantennio della stessa che si rivela un successo commerciale strepitoso (più di un miliardo di dollari incassati globalmente) e conquista letteralmente la critica, tanto da guadagnarsi due premi Oscar su cinque nomination.

Il film in analisi inizia con una delle celebri sequenze action che aprono tutti gli episodi della saga nella quale Bond (Daniel Craig), coadiuvato dalla più giovane Eve (Naomie Harris), insegue un bersaglio in possesso di preziose informazioni per l'Intelligence inglese fino a una rocambolesca caccia all'uomo sul tetto di un treno ma quella che sembrerebbe routine per l'agente segreto si trasforma in tragedia quando la collega lo colpisce per sbaglio con un fucile da cecchino. James viene dato per morto mentre il suo obbiettivo fugge portando con sé le identità di tutti gli agenti dell'MI6. Attraverso queste preziose informazioni un misterioso hacker riesce a penetrare ogni mezzo di sicurezza inglese perpetrando un attentato che distrugge l'intera base dei servizi segreti. Colpita nell'orgoglio e accusata di non aver svolto in maniera adeguata il proprio lavoro dal governo, M (Judi Dench) trova dei validi alleati per vendicare i suoi uomini caduti solamente in tre figure, il nuovo Q (Ben Whishaw), ossia il responsabile delle tecnologie dell'Intelligence, la stessa Eve e il redivivo 007, tornato in patria dopo aver passato alcuni mesi a godere della libertà dovuta alla sua presunta morte. In una lotta senza quartiere la spia è costretta ad affrontare il suo predecessore Raoul Silva (Javier Bardem), mosso da un risentimento inarrestabile nei confronti proprio dell'anziana mentore.

Il cambio di regista e anche di sceneggiatori (assente in questo caso Paul Haggis) si nota immediatamente in Skyfall. Fin dalla prima inquadratura appare con chiarezza il gusto estetico di Mendes, coadiuvato dal talentuoso direttore della fotografia Roger Deakins, impostato sul rigoroso rispetto della prospettiva centrale, un magistrale utilizzo di luci antinaturalistiche che affettano letteralmente l'inquadratura, alternanza tra campi lunghi e primi piani sia nei momenti maggiormente action che in quelli prettamente intimistici e soprattutto l'abbandono totale o quasi della macchina a mano tanto cara a Forster. Il cineasta britannico rinuncia alla sovrabbondanza di inseguimenti e lotte furiose tipiche della saga per costruire un crescendo emotivo e psicologico incentrato totalmente su un triangolo familiare atipico (tematica già espressa in tutta la sua filmografia) costituito da Bond, M e Silva. Come già in parte espresso in Quantum of Solace la donna interpretata da Judi Dench funge da figura materna per il protagonista, così come in passato lo è stata per il biondo villain ed entrambi i "figli"condividono un certo risentimento verso la "genitrice" a causa di un tradimento subito, di un martirio al quale sono stati condannati proprio per ordine della stessa. Tale tradimento unisce e rende molto simili eroe ed antagonista, come sottolineato da Bardem attraverso la parabola sui topi che lo introduce all'interno della diegesi, ma le conseguenze dei loro sentimenti, la reazione alla ferita subita li divide fatalmente: l'ex spia decide di vendicarsi a costo della propria vita e di quella di chiunque lo intralci, dimostrando un patologico attaccamento a M che supera persino l'edipico rapporto tra madre e figlio descritto da Sigmund Freud nei propri scritti, mentre 007, grazie anche alle traumatiche esperienze vissute nei film precedenti, riesce nel corso della pellicola a mettere da parte l'ostilità in favore dell'amore per la donna che lo ha cresciuto dopo la morte dei genitori, rendendo particolarmente efficace da un punto di vista simbolico la scelta della vecchia dimora della famiglia Bond come resa dei conti finale. Attraverso un metaforico ritorno al ventre materno (in contrapposizione a quello ben più fisico visto in Only God Forgives di Nicolas Winding Refn del 2013) Bond sconfigge il suo doppelgänger, il proprio riflesso allo specchio attraverso un coltello, l'arma più viscerale conosciuta dall'uomo per quella essenza di prolungamento quasi naturale del corpo che l'ha resa il simbolo stesso della natura metaforica del filone slasher dell'horror (si pensi in tal senso ad Halloween di John Carpenter del 1978).

Proprio la sequenza dell'uccisione di Silva tramite una coltellata alle spalle rappresenta una delle tantissime citazioni, easter eggs e strizzate d'occhio ai precedenti episodi della saga bondiana. Mendes dimostra di conoscere a menadito la longeva sequela di avventure della creatura di Ian Fleming ma non si limita a inanellare citazioni per il semplice gusto di compiacere i fan o per mettere in risalto la propria cultura cinefila (a differenza di molti protagonisti dell'intemperia postmoderna anni '90) bensì assembla un crescendo di precisi rimandi estetici e narrativi per mostrare allo spettatore la vera rinascita di James Bond, prima diegeticamente attraverso la caduta in acqua inscenata nei titoli di testa sorretti dalla voce di Adele e poi metacinematograficamente attraverso una riappropriazione da parte dell'eroe di tutti gli stilemi che lo hanno contraddistinto in ogni sua incarnazione (il vodka martini, i flirt con Eve Moneypenny, la versione maschile di M, i gadget ecc.) e che erano stati omessi in Casino Royale e Quantum of Solace. Con Skyfall l'apprendistato del Wilhelm Meister Bond arriva finalmente alla sua conclusione restituendo al pubblico quella spia sicura di sé, ironica e affascinante che aveva conosciuto nel 1962 attraverso lo charme di Sean Connery. Il cineasta britannico chiunque dunque un cerchio iniziato nel 2006 per riaprirne un altro, ben più antico ma senza evitare di aggiornarlo secondo i tempi e la propria personalità autoriale, un risultato che pone il lungometraggio nell'Olimpo di quei pochissimi blockbuster d'autore quali ad esempio la saga di Christopher Nolan su Batman o Superman di Richard Donner (1978).

mercoledì 18 luglio 2018

QUANTUM OF SOLACE: IL CREPUSCOLARE BOND FIRMATO MARC FORSTER

Nel 2006 con Casino Royale Martin Campbell e lo sceneggiatore Paul Haggis avevano destrutturato e ricostruito uno dei miti fondativi del cinema postclassico, quel James Bond che nonostante i cambi di interprete (da Sean Connery a Pierce Brosnan) sembrava immune a qualsiasi cambiamento di rilievo, fedele a certi vezzi che ne caratterizzavano il personaggio ancora prima di sentirlo pronunciare l'iconico frase "I'm Bond, James Bond" come l'inappagabile appetito sessuale, la passione per il vodka martini agitato non mescolato o gli innumerevoli gadget fantascientifici da mettere in mostra a ogni nuova avventura, divenuti ancora più rilevanti tramite le pellicole con Brosnan protagonista (tra le quali spicca proprio la regia del già citato Campbell GoldenEye del 1995). L'enorme successo critico e commerciale del soft reboot che aveva introdotto l'algido Daniel Craig nel ruolo della spia inglese spinge la MGM a mettere in cantiere un sequel, per la prima volta connesso diegeticamente al predecessore, e dunque scrittura per la regia, con una certa sorpresa, Marc Forster, autore poco avvezzo al cinema d'azione, affiancandolo alla penna di Haggis, ormai sinonimo di garanzia qualitativa. Il risultato del sodalizio porta il titolo di Quantum of Solace, ispirato da un racconto breve di Ian Fleming, che viene distribuito nel 2008 incassando quasi 600 milioni di dollari nel mondo ma cadendo sotto il peso delle spaventose aspettative generate da Casino Royale.

Il film in analisi riprende istantaneamente le fila del prequel mostrando l'inseguimento, ambientato a Siena, subito da Bond da parte degli scagnozzi di Mr. White (Jesper Christensen), criminale invischiato con la misteriosa organizzazione che controllava Le Chiffre (Mads Mikkelsen), villain del lungometraggio di Campbell, e dunque coinvolto nella morte della donna amata dal protagonista. Sopravvissuto all'agguato l'agente segreto si reca nella base segreta dei servizi inglesi nella cittadina toscana per interrogare il pericoloso prigioniero ma questi viene liberato da un infiltrato all'interno degli inglesi, rischiando peraltro di uccidere M (Judi Dench), direttore dell'Intelligence britannica. L'unica pista che collega il fuggitivo e l'organizzazione di cui fa parte risultano essere alcune banconote segnate connesse proprio con Le Chiffre e che conducono James in Bolivia, dove il magnate Dominic Greene (Mathieu Amalric) stringe accordi con il generale Medrano: in cambio di finanziamenti al golpe del militare il villain rivendica il possesso di un'area desertica da sfruttare per appropriarsi di tutte le risorse idriche del paese, con le quali intende tenere in scacco l'intera nazione e il proprio establishment politico. Con l'inaspettato aiuto dell'amante di Greene, Camille Montes (Olga Kurylenko), e dell'ex spia Mathis (Giancarlo Giannini) Bond tenta di fermare i loschi piani del nemico e al contempo di vendicare l'ex compagna, a costo anche di inimicarsi i servizi segreti inglesi e americani.

Persino dalla lunghezza e dal contenuto di questo piccolo sunto sulla pista narrativa di Quantum of Solace appare evidente come Forster abbia deciso di proseguire sulla via del rinnovamento introdotta dal predecessore e anzi aumentare ancora le distanze rispetto al passato della longeva saga. Mai prima d'ora vi era stato un sequel diretto da una delle pellicole bondiane e il film in oggetto comincia addirittura pochi minuti dopo il finale di Casino Royale, privando lo spettatore del celebre intro gunbarrel (la piccola sequenza iconica nella quale Bond viene inquadrato dall'interno della canna di una pistola mostrandolo mentre cammina da destra verso sinistra per poi sparare verso la cinepresa) almeno fino alla fine del film stesso, rimandando dunque anche l'entrata in scena del tema di 007, solitamente usato in funzione leitmotivica e invece del tutto assente in questo caso. Lo stesso agente segreto, sebbene abbia acquisito maggiore esperienze rispetto agli esordi mostrati nel reboot del 2006, si mostra ben diverso dall'elegante e ironico personaggio interpretato da Roger Moore o da Sean Connery: si limita a pochissime battute, peraltro piuttosto acide, si lascia andare alla seduzione femminile solamente in due occasioni e consuma un rapporto sessuale solamente in una di esse, non chiude occhio, beve compulsivamente e non solamente il celeberrimo vodka martini. Il bond dal volto arcigno di Daniel Craig è una figura tormentata, ossessionata dall'amore per Vesper (Eva Green) ma anche dal suo tradimento e dunque incapace di fidarsi del prossimo, costantemente in cerca di vendetta e privo di freni inibitori nella persecuzione di coloro che hanno architettato la morte della donna. Solamente la collisione con tre personaggi molto diversi tra loro riesce a riportare sul viale della ragione il protagonista e ad aiutarlo a combattere i propri demoni. Il primo di essi è proprio M, la donna che, come indirettamente confermato dallo stesso James, rappresenta un surrogato materno per la spia, capace di difenderlo anche quando ogni prova e qualsiasi potere forte sembra essergli contro, proprio come una madre che non può fare a meno di amare il proprio bambino a prescindere dagli errori che questi commette. Il secondo e forse fondamentale incontro che restituisce umanità al personaggio di Craig arriva dal passato ed è Mathis, la cui saggezza derivata da decenni vissuti guardandosi le spalle da chiunque gli permettono di capire meglio di chiunque altro il dolore e i dubbi del collega inglese e il suo sacrificio, reso ancora più potente dal punto di vista emotivo con  un abbraccio che ricorda l'iconografia della Pietà, sembra stappare il cuore bloccato e indurito di Bond, permettendogli così di potersi fidare di Camille, una "Bond-girl" che nega quasi ogni topos di questo ruolo scambiando un solo bacio con l'uomo e che condivide con lui l'ossessione per la vendetta.
Alla luce di quanto appena detto Forster, Haggis e Craig ritraggono uno 007 ben lontano dagli esempi del passato e molto più vicino agli antieroi portati sullo schermo, sia in quanto regista che attore, da Clint Eastwood (non a caso Paul Haggis ha scritto alcune sue pellicole come Million Dollar Baby del 2004 e Flags of Our Fathers del 2006); uomini consumati da esperienze regresse dolorose, difficili da accantonare e per questo restii a guardare al futuro poiché il passato costituisce per loro un'ancora troppo pesante da spostare. Ben più vicino al nuovo Bond appare la spia che ha segnato il terzo millennio cinematografico, quel Jason Bourne che nonostante soffra di amnesia non riesce a liberarsi dall'ombra di ciò che è stato e che, proprio come Craig in Quantum of Solace, fugge costantemente di paese in paese, da un continente all'altro inseguito più dai propri fantasmi che non da persone reali. La stessa Camille conferma con una breve battuta l'intero status emotivo e psicologico del protagonista dicendogli "Vorrei liberarti ma la tua prigione è qui dentro" (indicando con la mano la testa dell'uomo). Persino da un punto di vista prettamente formale il cineasta tedesco, alla sua prima regia action, opta per un utilizzo intenso della camera in spalle durante le sequenze più concitate, marchio di fabbrica dell'autore per eccellenza dell'autore della saga bourniana Paul Greengrass, al quale però aggiunge tocchi della propria estetica raffinata come il magistrale montaggio alternato che contraddistingue la sequenza dell'allestimento della Tosca.

Probabilmente Quantum of Solace paga per molti fan del mito bondiano la sua natura di transizione tra la rivoluzione totale espressa da Casino Royale e l'osannato blockbuster autoriale Skyfall (Sam Mendes, 2012) eppure non può essere negata la sua capacità di intrattenere e al contempo di scavare all'interno della psicologia di un personaggio che per sua natura, in quanto figura mitica, psicologia vera e propria non aveva e dunque la pellicola di Marc Forster resta uno dei più coraggiosi capitoli della saga, raffinato e rabbioso insieme.

martedì 17 luglio 2018

L'ODORE DELLA NOTTE: HOLLYWOOD REINASSANCE TRA LE BORGATE ROMANE

Alle spalle dello sfavillante universo popolato di star e budget miliardari costituito dall'industria hollywoodiana e più in generale dal mainstream che invade i multisala esiste un mondo ben lontano da tanta opulenza, un sottosuolo vissuto da migliaia di cineasti indipendenti e da tutti quei registi europei che, purtroppo, riescono a ottenere una certa visibilità solamente attraverso festival distanti dal grande pubblico. Tra questi partigiani della celluloide spicca per qualità e per sfortuna in egual misura la figura di Claudio Caligari, regista e sceneggiatore scomparso nel 2015 durante la lavorazione del suo terzo e ultimo lungometraggio, quel Non essere cattivo che ha saputo conquistare la critica e che ha finalmente aperto gli occhi anche di una buona fetta di pubblico cinefilo su questo autore, impossibilitato a rilasciare sul mercato solamente tre pellicole di fiction, dopo alcuni documentari. Il film che intendo proporvi è il secondo di questo terzetto che per affinità stilistiche, poetiche e di ambientazione può essere definito una vera e propria trilogia: L'odore della notte, girato nel 1998 e protagonista dell'edizione del 1999 del Nastro d'argento. L'ottima accoglienza da parte della critica purtroppo non è stata corrisposta da un pari successi commerciale, rilegando la pellicola a una nicchia piuttosto ristretta.

La seconda opera del director romano segue la discesa tra gli inferi della criminalità da parte di Remo Guerra (Valerio Mastandrea), poliziotto durante il giorno e rapinatore di notte insieme agli amici e complici Maurizio (Marco Giallini) e Roberto (Giorgio Tirabassi). Data la scarsa affidabilità dei due e il desiderio di colpire obiettivi sempre più altolocati Remo decide di associarsi per i suoi violenti furti al Rozzo, altro delinquente delle borgate attratto più dalla violenza in se stessa che dai guadagni economici. In coppia con il nuovo alleato e con il saltuario aiuto di Maurizio la banda diventa un vero e proprio spauracchio per la borghesia romana, alimentando l'ego da Robin Hood del protagonista e causando di conseguenza il suo arresto durante un assalto alla villa di un importante esponente della Democrazia cristiana. Libero dalla galera grazie alla libertà vigilata, Remo tenta di redimersi attraverso il bar che aveva precedentemente comprato insieme a Roberto ma i debiti e l'incapacità di tenersi lontano dai guai lo riaffondano nella melma della criminalità rappresentata dal Rozzo.

Ambientato esattamente come l'esordio Amore tossico (1983) tra le classi più umili del milieu di Roma, L'odore della notte recupera gran parte degli stilemi estetici visti in quel lungometraggio incentrato sulla gioventù eroinomane degli anni '80, si svolge nell'arco del medesimo periodo storico ma aggiorna, amplia molte delle tematiche espresse più di dieci anni prima e dimostra, anche visivamente, la profonda conoscenza del mezzo cinematografico e della sua storia da parte di Caligari. Se nel primo lungometraggio di fiction il cineasta aveva chiaramente messo in mostra la propria devozione nei confronti di Godard e di Pasolini, del loro sferzante rifiuto della grammatica classica e del loro sguardo politico incentrato soprattutto sugli emarginati, nel film in questione le ancora presenti influenze pasoliniane si affiancano all'enorme presenza del cinema americano nella mente dell'autore, come dimostra persino la scelta di affrontare, seppur in maniera estremamente personale e destrutturante, un genere prettamente a stelle e strisce quale il neo-noir. L'utilizzo costante di una voce over che commenta l'escalation fattuale e psicologica all'interno della criminalità da parte di Remo trae evidentemente ispirazione da un topos del noir classico ma l'ambientazione urbana, prettamente notturna, tra i bassifondi di una grande città come Roma e la sottolineatura dello stato di alienazione da parte di questi ceti sociali dimenticati dal boom economico e dalla politica del compromesso democristiana avvicinano la pellicola alla rilettura del genere operata dai giovani registi che hanno animato la New Hollywood tra anni '60 e '70, tra i quali è impossibile non ricordare l'idolo di Caligari: Martin Scorsese, il cui Taxi Driver (1976) costituisce un modello chiaramente onnipresente. Proprio come Travis Bickle l'ex poliziotto dal volto di Mastandrea non riesce ad allacciare autentici rapporti interpersonali, prova a costruirsi un'esistenza da comune cittadino borghese ma fallisce miseramente e dunque finisce per perseguire, anche a costo della propria vita, un percorso tortuoso attraverso gli inferi della metropoli, tra arcidiavoli maledetti più per l'abbandono subito dal lato chiaro della Luna costituito dalla media e grande borghesia che per dei veri e propri peccati da essi commessi volontariamente. Eppure Remo non risulta del tutto "innocente" come gli antieroi pasoliniano o l'alienato tassista De Niro, la macchina da presa rifugge quasi sempre i classici primi piani frontali dedicati all'eroe in favore di angolazioni asimmetriche o inquadrature infrante da effetti chiaroscurali antinaturalistici, sottolineando attraverso la forma filmica il terrore espresso dallo stesso personaggio nei confronti del proprio volto, simbolo della propria caduta morale e psicologica alla stregua del ritratto di Dorian Gray nell'omonimo romanzo di Oscar Wilde. Persino le continue riflessioni del rapinatore da un lato mettono in mostra questa inesorabile discesa negli inferi ma dall'altro espletano l'ambiguità del personaggio e dell'intero lungometraggio, perennemente diviso tra la critica sociale e la riflessione sul cinema stesso, in pieno spirito moderno proprio come i registi ribelli fautori della Hollywood Reinassance.
Non per caso il film si conclude con citazioni sempre più forti ed esplicite a un caposaldo del cinema statunitense quale The Great Train Robbery di Edwin Porter (1903), fondatore del mito del genere per eccellenza, il western, ma soprattutto pellicola che mette al centro dell'inquadratura, dell'occhio di Dio il male e non il bene con un atteggiamento di coraggio artistico e indagine sulla realtà proprie di quel cinema moderno esploso solamente mezzo secolo dopo.

Con questa brevissima trattazione spero di aver suscitato in voi quantomeno una minuscola curiosità nei riguardi di una figura unica all'interno del panorama cinematografico italiano e non solo, colta e popolare insieme, incompresa e forse anche per questo ancora più affascinante. Date una chance a L'odore della notte e non credo che ve ne pentirete.
P.s. Il solo cammeo di Little Tony vale la visione.