giovedì 28 novembre 2019

THE NEON DEMON: NARCISO, BACCANTI E ALTA MODA

Tra i profili più riconosciuti e riconoscibili del cinema contemporaneo europeo (e non solo) figura senza alcun dubbio quello di Nicolas Winding Refn, il cui status di cineasta-divo viene certificato dalla griffe NWR apposta alle sue ultime opere, siano esse lungometraggi, serial o addirittura piattaforme di condivisione online. Dopo aver conquistato il mondo intero con Drive (2011) la sua filmografia ha intrapreso un percorso di nuovo allontanamento dai canoni hollywoodiani, all'interno del quale ho scelto di approfondire il suo ultimo lavoro cinematografico: The Neon Demon. Presentata al Festival di Cannes nel 2013, con tanto di scandalo annesso, la pellicola ha spaccato letteralmente a metà critica e pubblico, attirando lo sdegno di molti e l'ammirazioni di tanti altri, finendo addirittura al terzo posto della classifica dei migliori film dell'anno stilata dai prestigiosi Chaiers du Cinema.

L'esile intreccio del film, scritto dallo stesso Refn, segue l'arrivo a Los Angeles della giovanissima Jesse (Elle Fanning), aspirante modella ancora minorenne e priva di qualsiasi esperienza, non solo sulla passerella. Nonostante l'ingenuità e la mancanza di conoscenze altolocate la ragazza riesce immediatamente ad entrare in una prestigiosa agenzia e attrae come una calamita lo sguardo e i favori di chiunque posi lo sguardo su di lei, in particolar modo la truccatrice Ruby (Jena Malone), il fotografo Jack (Desmond Harrington) e il designer Robert (Alessandro Nivola). Una tale ascesa accende però anche l'invidia di alcune colleghe, come l'esperta Gigi (Bella Heathcote) e la bellissima ma fragile Sarah (Abbey Lee).

Due poli apparentemente opposti animano il cuore sia narrativo che estetico di The Neon Demon: uno legato alla contemporaneità, alla società nella quale viviamo e alle istanze dell'audiovisivo strettamente attuali; l'altro connesso invece alle radici della cultura occidentale, al mito greco e al racconto fiabesco. Certamente appare chiaro come la pellicola utilizzi il microcosmo della moda, luogo per eccellenza in cui la superficie conta più di ogni altra cosa, per attaccare ferocemente l'horror vacui che caratterizza i nostri tempi. "La bellezza non è tutto, è l'unica cosa" afferma Robert esplicitando tale tematica , tutt'altro che nuova, e probabilmente questa epitome, così come l'intera critica imbastita dal regista danese, si riferisce anche all'attuale status del cinema e del più ampio panorama audiovisivo, sempre più ricco nell'involucro ma, allo stesso tempo, svuotato di significanti che vadano oltre la superficie e la vendita di un prodotto a una popolazione mondiale costituita da soli consumatori. Accettando questa chiave di lettura, certamente non così esoterica, diventa estremamente adatto l'impianto formale adottato dall'autore di Bronson (2008), dominato da asettiche inquadrature prive o quasi di movimenti di macchina, specchi, illuminazione esasperatamente artificiale e antinaturalistica, cura per la composizione così raffinata da trasformare ogni singola inquadratura in un set da servizio fotografico d'alta moda. L'artificio, la ricostruzione palesemente falsata del reale sostituisce il reale stesso al punto da rendere ben più perturbanti le rare sequenze ambientate alla luce del sole rispetto ai notturni a base di neon e violenza tutt'altro che edulcorata.
Completamente ed efficacemente fuso a questa essenza prettamente contemporanea del film vi è pero anche un polo poetico ed estetico ancorato fieramente alle fondamenta della cultura e della narrativa, ossia la mitologia e la fiaba. Refn ha più volte ribadito il proprio amore nei confronti del cinema di Dario Argento e in particolare per Suspiria (Dario Argento, 1977): notizie apparentemente aneddotiche che in realtà confermano come la pellicola in analisi si ispiri al capolavoro del cineasta romano e, soprattutto, a quella precisa scelta narratologica che prevede l'abbandono di qualsivoglia pretesa di verosimiglianza da romanzo ottocentesco in favore di un'atemporalità e un volo pindarico verso l'onirismo tipici della fiaba. Proprio come la Susy interpretata da Jessica Harper, Jesse entra in un mondo in cui lo spettacolo (la danza, la moda) si rivela essere solamente una copertura, un'ennesima superficie vuota abitata da esseri che di umano possiedono ormai poco. Streghe, stregoni, figure tanto affascinanti quanto sinistre che irretiscono le ragazze per poi cibarsene, metaforicamente e non. L'eroina di Refn, appartenendo a un racconto ibrido in cui la fiaba è solo una delle sue sfaccettature, nel corso del lungometraggio si dimostra però tutt'altro che candida e immacolata come quella argentiana o come Cappuccetto rosso. La giovane dal volto angelico di Elle Fanning vive un percorso personale che sveste man mano le premesse fiabesche per indossare invece quelle del mito e della tragedia classica greca, nello specifico quelle del mito di Narciso, la cui indescrivibile bellezza lo portò prima a innamorarsi di se stesso e poi a morire annegato nel tentativo di baciare il proprio riflesso nelle acque di un fiume. Come l'incauto personaggio classico la bionda sedicenne acquisisce una sempre maggiore consapevolezza della propria avvenenza fisica, del fascino che esercita sul prossimo, sia esso uomo o donna, fino a una scena in cui la sovrapposizione Jesse/Narcisio diviene totale ed esplicita. La prima sfilata professionistica della protagonista della pellicola viene filmata da Refn fin da subito con un montaggio rapidissimo e sincopato che, coadiuvato dalle psichedeliche luci al neon che illuminano a intermittenza un'ambiente totalmente nero, tramuta la realtà in sogno (o incubo). Un sogno in cui ai primi piani della modella si contrappongo delle rapide visioni di una inquietante costruzione triangolare. La sfilata si trasforma così in un vero e proprio trip che culmina nel congiungimento tra la ragazza e l'oscuro simbolo (il dio al neon a cui allude il titolo), durante il quale l'immagine di Jesse viene riflessa e la stessa finisce per venire attratta a tal punto da questa immagine speculare da baciarla, proprio come accadeva a Narciso. Di chiara matrice mitologica e tragica è poi anche il finale che attende la bellissima modella, in cui la hybris viene inevitabilmente punita in una sequenza che riporta alla mente sia i sabba delle streghe che la brutale morte di Orfeo, sbranato dalle Baccanti.

Questo e molto altro scaturisce fin dalla prima visione di The Neon Demon, ennesima escursione di Refn al di fuori della confort zone del cinema contemporaneo e proprio per questo capace di smuovere emozioni e riflessioni nello spettatore, anche nei detrattori.

mercoledì 20 novembre 2019

STORIA DI UN FANTASMA: UN GRANELLO TRA LE SABBIE DEL TEMPO CHIAMATO UOMO

Trovare all'interno del panorama americano contemporaneo un regista, sotto i quarant'anni, capace compiere il grande salto dall'indipendenza alla Disney per poi tornare nuovamente a lavorare con budget ridotti e grande libertà creativa è una vera impresa, eppure un nome c'è: David Lowery. Il magnifico Senza santi in paradiso (Ain't Them Bodies Saints) gli aveva aperto, nel 2013, le porte di quella che è attualmente la più grande major al mondo ma, nonostante ciò, nel 2017 è tornato a un cinema di dimensioni produttive ridotte con Storia di un fantasma (A Ghost Story). Pur senza, ovviamente, gli introiti milionari da blockbuster la pellicola si è rivelata un ottimo successo economico, specie a dispetto del basso budget, ma soprattutto un nuovo trionfo a livello critico, persino in Italia dove la distribuzione ha per l'ennesima volta ignorato o quasi un'eccellente opera firmata Lowery e A24.

Il lungometraggio segue la vita di coppia, costellata da momenti di tipica quotidianità, di un uomo (Casey Affleck) e di una donna (Rooney Mara), dei quali vengono rivelati solamente le lettere C ed M all'interno dei credits. La loro normale convivenza fatta di attimi di tenerezza e passione per la musica viene bruscamente interrotta da un incidente in auto, nel quale C perde la vita. Mentre la compagna si trova a dover convivere con un lutto tanto inatteso, l'uomo incredibilmente si ripresenta sotto forma di fantasma, coperto da un lenzuolo bianco con due fori per gli occhi. Incapaci di proferire parola o di essere visto dagli umani, lo spettro torna a casa.

Dopo secoli di letteratura e cinema gotico ognuno di noi associa immediatamente l'idea di spettro all'horror, alla paura ma in questo Storia di un fantasma non vi è alcuna traccia di orrore. Vi sono elementi tipicamente gotici e la paura è un tema tutt'altro che secondario ma stavolta non ci troviamo nel campo dei vari The Conjuring (James Wan, 2013) o The Grudge (Takashi Shimizu, 2006). Per il film in analisi Lowery utilizza la figura del fantasma, dotandola addirittura di quell'aspetto ai limiti del ridicolo che di solito i bambini gli attribuiscono, e alcuni topoi del genere gotico (il legame tra il soprannaturale e l'ambiente domestico, i rumori notturni ecc.) per raccontare una storia, ben definita in tre atti, estremamente umana: un legame amoroso che si spezza a causa della morte e le conseguenze del lutto. Lo scheletro narrativo della pellicola segue i canonici tre segmenti in cui una situazione di equilibrio iniziale viene infranto da un evento inatteso e solamente dopo una serie di disavventure il protagonista riesce a riassestare l'instabilità creatasi. Un percorso classico dunque che, proprio avendo nel ruolo di eroe un defunto, potrebbe richiamare il campione d'incassi Ghost (Jerry Zucker, 1990) ma che trova una sua strada, assolutamente anticlassica, sia nello stile che nell'intreccio. A differenza dell'elegante ma, sostanzialmente, conservatore nella forma lungometraggio con Patrick Swayze, l'opera del cineasta di Milwaukee si distingue per un approccio stilistico dal rigore estremo, quasi completamente privo di movimenti di macchina e scandito da una serie di piani sequenza di notevole durata, tra i quali ne spicca, per minutaggio e straziante forza emotiva, quello in cui una M distrutta dal lutto cerca invano di mangiare un intero dolce da sola. Le lunghissime e statiche inquadrature assumono dunque i tratti quasi di una serie di fotografie o diapositive montate in sequenza. Un effetto reso ancor più efficace dalla scelta di girare il film in un insolito formato di 1.33:1 (simile ai 4:3 dei televisori a tubo catodico) che aumenta il senso di staticità delle immagini e sembra imprigionare letteralmente i personaggi all'interno del quadro. Figure umane (o ex umane) già ingabbiate nel corpo e nello spirito dalla nostalgia, dal lutto o da una condizione esistenziale che non permette loro di abbandonare un luogo in cui una volta erano state felici.

All'interno di questo assetto stilistico all'insegna della stasi e della dilatazione temporale proprio la dimensione cronologica, il tempo diventa, minuto dopo minuto, l'altro centro della riflessione operata dal director. Come viene a un certo punto espletato da un delirante monologo di uno dei partecipanti a una festa tenuta nella casa nella quale vivevano C e M, il lutto vissuto dalla coppia senza nome diventa un'occasione per riflettere, amaramente, su quanto gli uomini cerchino di superare la finitezza della vita mortale attraverso opere, azioni o composizioni che li rendano immortali, che lascino un segno della loro presenza nel futuro. Una volontà che accomuna il più umile degli esseri umani ai geni come Beethoven ma che, in tutti i casi, è destinata solamente al fallimento poiché ogni prodotto dell'ingegno umano, per quanto meraviglioso sia, è destinato inevitabilmente all'oblio, vicino o lontano nello spazio o nel tempo ma ineluttabile. In questo contesto filosofico anche il tempo diegetico subisce una inesorabile mutazione, perdendo ogni connotazione lineare e mostrando così come l'essenza di un fantasma risieda più che nell'assenza di vita nella mancanza di limiti spazio-temporali. Nell'avvicinamento a quell'oblio che la natura umana tenta disperatamente di rimandare.

mercoledì 13 novembre 2019

SONATINE: IL PARADISO SOSPESO TRA VIOLENZA E (INEVITABILE) MORTE

Se Takeshi Kitano è considerato tra i maestri del cinema (asiatico e non) contemporaneo lo si deve in primis al Leone d'oro vinto da Hana-bi (Hana-bi - Fiori di fuoco, 1997) ma il suo primo vero exploit al di fuori della terra d'origine, dove peraltro i suoi primi lungometraggi erano stati tutt'altro che campioni d'incassi, è in realtà costituito dal precedente Sonatine, scritto, diretto, interpretato e montato dall'autore di Violent Cop (1989) nel 1993. Presentato a Cannes nella sezione Un Certain Regard, il film ha lentamente ma inesorabilmente conquistato i palati prima europei e poi statunitensi, complice anche l'assenza di quel pregiudizio diffuso in Giappone verso il regista causato dal suo passato da attore e autore di programmi televisivi comici.

Al centro delle vicende raccontate all'interno della pellicola vi è lo yakuza Murakawa (Tskeshi Kitano), stanco e disilluso dopo una vita in cui ha scalato le gerarchie di una delle bande che domina Tokyo e dunque intenzionato a ritirarsi dalle attività illecite. Prima che possa abbandonare la criminalità il boss gli chiede, come ultimo lavoro, di recarsi a Okinawa per risolvere la contesa tra due bande in affari con la loro. Nonostante i numerosi e accesi dubbi sulla missione Murakawa obbedisce ma, arrivato alla meta insieme ai suoi uomini di fiducia, scopre, come temuto, di essere stato attirato in una trappola.

Definire Sonatine un tipico yakuza movie sarebbe una semplificazione estrema, per non dire addirittura un errore. Analizzando il versante prettamente narrativo dell'opera in questione si potrebbe definirla tripartita, più come una sinfonia in tre movimenti che non come la tipologia di composizione musicale richiamata dal titolo. Il primo movimento è quello che può essere, pur con le sue unicità, ricondotto agli stilemi del genere yakuza, i seguenti cambiano notevolmente registro: un adagio per la sezione centrale e un malinconico epilogo folgorato da alcuni lampi di violenza cruda, spiazzante e assolutamente lontana dalle estetizzazioni dei coevi lavori tarantiniani. Al centro, non a caso, c'è però quel segmento riconducibile, volendo mantenere la metafora musicale, a un adagio che è il cuore pulsante della pellicola e l'esplosione compiuta della poetica e dello stile di Kitano. Costretto a rifugiarsi con i pochi sottoposti sopravvissuti all'attentato nemico in una piccola casa abbandonata sulla spiaggia, il protagonista ammazza il tempo inventando giochi in cui si mescolano, in maniera sempre più perturbante, trivialità e bestialità, infantilità e violenza. Esemplare di questo meccanismo è certamente la sequenza con la roulette russa, capace di esplicitare in pochi minuti l'intera Weltanschauung kitaniana, dominata dalla consapevolezza dell'onnipresenza della morte all'interno della vita di ogni uomo e delle scelte che compie. La vita come un lungo percorso in cui tutto accade in funzione della fine, della meta. Una visione del mondo estremamente nichilista che rende evidente i motivi per cui il cineasta nipponico resti così affascinato dai mafiosi, personaggi costantemente appesi al filo che lega vita e morte, ma che trova una luce all'interno dell'oscurità nella meraviglia della natura, o meglio in parte di essa: il mare. Costantemente nel cinema di Kitano il mare diventa una sorta di luogo in cui la spirale di violenza e morte si arresta; un limbo, una terra di mezzo tra questi due estremi che regolano la vita degli yakuza (e non solo) che dunque assume i caratteri di una paradiso sulla Terra.
La parte centrale del film ambientata in spiaggia segna, come già anticipato, non solo la prima e matura enunciazione dei temi cari all'autore di Violent Cop ma anche la piena realizzazione di un percorso stilistico che porta il regista ad affrancarsi pienamente dai cardini del genere per giungere a uno stile personale e riconoscibile. Dopo la prima parte ancora legata al gangster movie in versione nipponica Kitano abbandona il ritmo sostenuto nel montaggio e le inquadrature strette dilatando enormemente i tempi, allargando il quadro. In questo modo si crea una distensione spazio-temporale di carattere chiaramente contemplativo, adatto in tutto e per tutto a quella sorta di momentanea pausa dagli oneri dell'esistenza di un criminale. Il gangster movie si colora dei tempi, delle attese e del rigore stilistico di maestri del passato come Ozu o Antonioni, rievocato da Beat Takeshi in particolare con l'attenzione rivolta verso il vento, protagonista assoluto di pellicole come L'avventura (1960) o L'eclisse (1962).

Sonatine può essere dunque definito uno yakuza movie? Forse sì ma uno yakuza movie dotato di un lirismo tanto inatteso quanto sconfinato. Un lirismo che ha aperto le porte del mondo al signor Kitano e che ha permesso al mondo di conoscere il complesso e affascinante universo di un ex comico che riflette costantemente sulla morte.

sabato 2 novembre 2019

SUSPIRIA: L'ORRORE ESERCITATO DAL POTERE (AUTORITARIO)

Ogni volta che viene pronunciata la parola "remake" il cuore del cinefilo medio sussulta per il disgusto, dimenticando come la pratica di narrare nuovamente una storia già conosciuta sia insita nella natura stessa dell'uomo o anche semplicemente come il cinema abbia offerto, nel corso dei decenni, numerosi esempi di rifacimenti di elevata qualità (si pensi, per esempio, a quel The Thing diretto da John Carpenter del 1982). Nonostante questa remora culturale contemporanea di una consistente fetta di pubblico Luca Guadagnino, esperto nell'arte di dividere spettatori e critici, porta sugli schermi, nel 2018, il secondo remake della sua carriera: dopo A Bigger Splash (2015), riproposizione personale de La piscina (La Piscine, Jacques Deray), dirige Suspiria, ispirato all'omonimo capolavoro di Dario Argento risalente al 1977. Quasi superfluo sottolineare come la reazione alla pellicola sia divisa quasi equamente tra ammiratori e detrattori, nonostante alcuni premi ricevuti e una discreta performance al box office per una distribuzione molto limitata, dovuta alla produzione made in Amazon Prime.

Ambientato nel pieno dell'autunno caldo vissuto da Berlino nel 1977, il film, diviso in sei atti con epilogo, segue l'arrivo in città di Susie (Dakota Johnson), giovane proveniente dall'Ohio che intende entrare nella compagnia di danza guidata da Madame Blanc (Tilda Swinton). Grazie alla misteriosa scomparsa di una delle ballerina, Patricia (Chloë Grace Moretz), la ragazza riesce ad avere un posto nella compagnia ma diventa sempre più evidente la presenza di qualcosa di sordido all'interno della stessa.

Basterebbe anche una superficiale conoscenza delle filmografie di Guadagnino e Argento per capire quanto distanti siano i rispettivi percorsi cinematografici e, di conseguenza, capire perché i due Suspiria siano così distanti l'uno dall'altro, escludendo ovviamente gli elementi più basilari dell'intreccio come l'arrivo in Germania della giovane protagonista americana, la scuola di danza e il mito delle Tre madri. Da autore profondamente conscio del proprio percorso artistico ma anche della grandezza dell'opera di riferimento, il regista siciliano modifica quanto più possibile il lavoro del collega romano per adattarlo al proprio stile e ai temi a lui cari e così, fin dai titoli di testa e dalla prima sequenza ecco che il gusto per i colori antinaturalistici e violentemente accesi di Argento cedono il passo a una tavolozza completamente priva di colori primari, così come la non riconoscibilissima Friburgo viene sostituita da una Berlino totalmente immersa nel periodo storico scelto e che diventa co-protagonista. Se il director di Inferno (1980) aveva immerso la propria opera in un'atmosfera e una narrazione di stampo fiabesco e in cui, di conseguenza, i riferimenti all'attualità divenivano tracce che venivano solamente suggerite, l'autore di Chiamami col tuo nome (Call Me by Your Name, 2017) esplicita tutti quei sottotesti eliminando del tutto la componente appena menzionata e creando, invece, un duplice percorso, strettamente intrecciato, tra la storia socio-politica della attuale capitale tedesca nel 1977 e la trama fantastica legata alla scuola di danza creata dalle streghe.
Pur nella ricchezza di suggestioni culturali, filosofiche e morali (dalla maternità fino a una tutt'altro che superficiale riflessione metacinematografica) la rilettura di Guadagnino del classico del cinema horror nostrano affonda continuamente i denti in una precisa direzione, ossia quella dell'esplorazione del tema del potere e in particolare delle conseguenze del suo uso autoritario. La scelta di ambientare il racconto in un momento storico di grande subbuglio sociale e politico, di enorme divisione non solo tra le due metà della città ma, soprattutto, tra la generazione dei genitori, colpevoli di aver assecondato gli orrori del nazismo, e i figli marchiati a fuoco da questa genealogia, da questo peccato originale, è soltanto una delle innumerevoli prove che sostengono la lettura della pellicola attraverso questo filtro. Proprio come era accaduto negli anni Trenta con l'ascesa di Hitler, anche all'interno della congrega di streghe che domina il Markos Tanzgruppe vi è una lotta intestina tra due fazioni dalla quale, approfittando del caos generato da un evidente vuoto di potere, esce vincitrice una leader legittimata unicamente dalla violenza e dal sangue e che utilizza i medesimi metodi per governare nel proprio microambiente. Allo stesso modo anche nella Repubblica Federale di Germania i disordini causati dalla ribellione giovanile e a Berlino dalla innaturale e sofferta ripartizione, simboleggiata da quel muro che non a caso si trova proprio nei pressi della scuola di danza, portano a un inasprimento della repressione da parte delle forze dell'ordine dei diritti civili alla libera espressione di dissenso della popolazione. Un'ulteriore manifestazione di abusi da parte della classe dirigente al potere all'insegna della violenza che rendono limpida la connessione con quanto accade nella congrega esoterica.
Attraverso questo tipo di lettura trovano un senso pienamente compiuto altre due scelte divergenti rispetto al film originale: l'importanza rivestita dalla danza e l'epilogo. Nella versione del 1977 la coreutica e l'ambiente della compagnia di danza restavano quasi sempre sullo sfondo, offrendo certamente degli spunti estetici o tematici ma senza mai conquistare la scena. Guadagnino, al contrario, dona ai movimenti dei corpi, alle coreografie espressioniste e allo statuto stesso della compagnia di artisti un rilievo centrale, rendendo la coreutica lo strumento attraverso cui le streghe danno forma ai propri incantesimi. Attraverso questo espediente il regista palermitano riesce non solo a dare vita a sequenze di grandissima potenza estetica e orrorifica, come ad esempio quella in cui Susie tortura involontariamente una sua collega semplicemente danzando, bensì sottolinea la corrispondenza tra le streghe e le vittime di persecuzioni politiche di ogni epoca, tra quelle donne che per secoli sono state arse vive da una società violentemente maschilista e i diversi che, in ogni dove e in ogni quando, rischiano la vita solamente per l'incapacità o la non-volontà di allinearsi alle direttive di autorità sanguinarie e dittatoriali. In linea con questa associazione sia estetica che di pensiero si trovano così sia il grandguignolesco pre-finale, in cui il sabba delle streghe si confonde con un numero di danza e finalmente l'usurpatrice del potere viene punita dalla legittima detentrice, che l'epilogo vero e proprio, nel quale Mater Suspiriorum dimostra che l'esercizio del dominio può e deve avvenire in primo luogo attraverso l'amore e la compassione. I due sentimenti che vincono lo spazio e il tempo nell'ultima inquadratura, in tutto il cinema di Guadagnino e forse anche nella vita reale.

P.s. Per coloro che possono pensare a una incapacità del regista di A Bigger Splash di creare momenti di genuino orrore non posso che consigliare la visione della sopracitata sequenza del sabba: un magistrale omaggio all'indimenticabile rosso dell'originale Suspiria unito alla tipica cura per la composizione delle inquadrature di Guadagnino e persino alle derive gore e surreali al tempo stesso di una figura di spicco dell'horror contemporaneo quale Rob Zombie, regista non a caso di un'altra pellicola di fusione tra musica e stregoneria (Le streghe di Salem, The Lords of Salem, 2012).