mercoledì 13 marzo 2019

SENZA SANTI IN PARADISO: UNA LETTERA D'AMORE ALLA NEW HOLLYWOOD

Negli ultimi anni i (più o meno) giovani autori che riescono a raggiungere il mercato mainstream attraverso i successi di critica ottenuti all'interno del filone indipendente americano incarnato dal Sundance sono molti, come può facilmente dimostrare l'esempio eclatante offerto da Ryan Coogler con il suo cinecomic campione di incassi e vincitore di ben tre Academy Awards Black Panther. David Lowery non ha ancora raggiunto vette commerciali di tale livello eppure ha già diretto un lungometraggio ad alto budget per la Disney (Il drago invisibile, Pete's Dragon, 2016) e il commiato al set cinematografico di Robert Redford The Old Man & the Gun (2018); traguardi resi possibili in primis dal film che intendo proporre oggi, Senza santi in paradiso (Ain't Them Bodies Saints). Quest'opera, realizzata nel 2013, è stata presentata proprio al celebre festival patrocinato dal già citato Redford dove ha conquistato immediatamente i favori della critica e la possibilità di una distribuzione internazionale, purtroppo rivelatasi in seguito piuttosto deludente.

Ambientata in un imprecisato momento storico individuabile negli Stati Uniti degli anni Settanta la pellicola ruota attorno alla tormentata storia d'amore tra Bob Muldoon (Casey Affleck) e Ruth Guthrie (Rooney Mara), due giovani che vivono in una piccola comunità di campagna compiendo rapine. Proprio quando la ragazza resta incinta la coppia viene coinvolta in uno scontro a fuoco con le forze dell'ordine durante il quale l'amico fraterno di Bob, Freddy, resta ucciso e Ruth colpisce a una spalla il poliziotto Patrick Wheeler (Ben Foster). Conscio della gravità della situazione lo stesso Bob decide di arrendersi e di consegnarsi alla polizia, assumendosi la colpa della compagna e dunque finendo condannato al carcere per lei. A circa quattro anni di distanza l'uomo riesce a evadere di prigione nel tentativo di ritrovare la donna amata e la figlia Sylvie ma la situazione è resa ancor più complicata dal rancore che cova nei suoi confronti Skerritt (Keith Carradine), da alcuni uomini intenzionati a uccidere il protagonista e dal rapporto di crescente affetto che viene a crearsi proprio tra Guthrie e Patrick.

Come affermato esplicitamente anche dal regista Senza santi in paradiso non è un film narrativamente complesso, non si focalizza sulla detection o sulla complessità dei piani del racconto. Questa chiara dichiarazione di intenti è la prima prova di come l'opera in questione viva non solo diegeticamente in una dimensione atemporale: non solo le vicende che coinvolgono Bob e Guthrie vengono ambientate in un contesto spaziotemporale imprecisato, che mescola gli ultimi decenni del Novecento a un immaginario western molto forte ma l'intero impianto filmico scelto da Lowery tradisce una rielaborazione certamente contemporanea di un modo di fare cinema passato, più precisamente quel periodo ormai mitico definito New Hollywood o Hollywood Reinassance. Il fatto che una larga fetta di critica statunitense abbia paragonato la pellicola alla prima filmografia di Terrence Malick rappresenta (stranamente per i canoni di questi confronti spesso azzardati) un ulteriore indizio dell'ispirazione visuale e poetica loweriana. In tale direzione si muove anzitutto la decisione di girare in 35 mm in luogo dell'ormai usuale digitale, così come il ricorso costante all'illuminazione naturale, resa ancor più evidente e vivida dalle numerosissime tracce di rifrazione della luce sulla macchina da presa, un marchio distintivo non solo del precedentemente menzionato autore di La rabbia giovane (Badlands, 1973) ma di tutto quel movimento di rinnovamento del cinema americano che sbatteva in faccia alla vecchia Hollywood infrazioni della grammatica classica come questa. Rievocano tale momento storico e culturale anche le musiche di influenze folk composte da Daniel Hart ma soprattutto la tragica love story che si trova al centro della narrazione.
Bob e la sua amata non possono non rievocare il ricordo di Bonnie e Clyde, capaci di aggiornare il mito dell'amore impossibile di Romeo e Giulietta donandogli dei connotati di criminalità moralmente giustificabile e di ribellione giovanile. Certo il finale di Gangster Story (Bonnie and Clyde, Arthur Penn, 1967) sanciva una punizione potremmo dire divina per quella rivolta nei confronti della legge, prima etica e poi penale, e anche Lowery sembrerebbe in un certo senso confermare come il titanismo del personaggio interpretato da Casey Affleck possa portare solamente a una morte prematura, eppure nel frattempo il regista porta attraverso delicati flashback, contraddistinti da long take di grande eleganza, lo spettatore a empatizzare in maniera strenua con lui, con la sua lotta contro il mondo intero per la donna che ama. Allo stesso tempo l'autore di A Ghost Story (2017) fornisce una analoga, se non addirittura superiore, introspezione anche a Gurthie, donna capace di crescere al meglio una bambina da sola nonostante il peso del rimorso per essere la causa dell'incarcerazione dell'uomo della sua vita, la crescente solitudine e il tentativo di celare ogni debolezza per resistere all'estenuante attesa del ritorno di Bob. La donna dunque assume un ruolo ben diverso rispetto al personaggio di Faye Dunaway, figlio anche di una attualità nella quale l'universo femminile ha acquisito una rilevanza e una indipendenza ben maggiore rispetto a quello che poteva percepire Penn, così come di matrice più contemporanea è la presenza di un una terza figura che si interpone tra i due protagonisti. Patrick appare inizialmente quasi come un McGuffin hitchcockiano per poi trasformarsi lentamente in una figura che da un lato rende palpabile, concreto il senso di colpa della bandita col volto di Rooney Mara e dall'altro però finisce per trasformarsi ineluttabilmente in quell'uomo, in quel padre che Bob, ribelle per natura seppur dotato di buon cuore (si pensi a come tenti fino all'ultimo di non uccidere i suoi assalitori), non sarebbe mai potuto essere. Un amico, magari un compagno che certamente possiede codici morali meno progressisti ma che, grazie a una sensibilità resa quasi tangibile dal calore dei colori che monopolizzano le inquadrature in cui appare, sembra voler mostrare una volontà di Lowery di nobilitare un passato più remoto (la Hollywood classica, i valori della famiglia americana) che pur con i suoi limiti ha costituito le radici degli Stati Uniti.

Senza santi in paradiso si pone in definitiva come un lavoro non solo di mirabile bellezza estetica ma soprattutto ricco di strati di significato. analizzabile e apprezzabile su diversi livelli e capace di colpire le corde dell'emozione di qualunque tipo di spettatore. E scusate se è poco.

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