martedì 19 marzo 2019

BARRY SEAL - UNA STORIA AMERICANA: LA DEFLAGRAZIONE GROTTESCA DELL'AMERICAN DREAM

Benché molti "cinefili" da web 2.0 possano storcere il naso, proprio il famigerato Michael Bay con il suo Pain & Gain (Pain & Gain - Muscoli e denaro) ha aperto la strada nel 2013 a un certo filone filmico in cui storie reali di criminalità statunitense, capaci di mettere in grave imbarazzo i principi cardine del moralismo che sbandiera ormai da decenni, vengono rilette attraverso toni da commedia algida e grottesca, in bilico perenne tra farsa e tragedia. Nel solo anno appena citato hanno raggiunto le sale mondiali infatti anche American Hustle (American Hustle - L'apparenza inganna, David O. Russell), candidato a ben undici Academy Awards, e The Wolf of Wall Street di Scorsese, probabilmente il punto più alto di questa sorta di sottogenere e la pellicola che ha maggiormente ispirato le opere successive, data anche la tutt'altro che velata influenza su questo tipo di lavori da parte di un altro capolavoro scorsesiano quale Quei bravi ragazzi (Goodfellas, 1990). Oggi ho scelto di porre alla vostra attenzione Barry Seal - Un storia americana (American Made in originale), regia di Doug Liman risalente al 2017 che si inserisce a pieno in questo trend puramente americano. Sebbene il film possa contare su una star del calibro di Tom Cruise non si può certo definirlo un blockbuster, sia per dimensioni produttive che per marketing, eppure nonostante ciò è riuscito a ottenere incassi notevoli e recensioni molto positive che ne sanciscono una piena riuscita su tutti i fronti.

Il lungometraggio racconta, con grandi licenze ammesse a più riprese da produzione e regista, le assurde ma reali disavventure vissute da Barry Seal (Tom Cruise), pilota di aerei civili che verso la fine degli anni Settanta viene contattato dalla CIA per trasportare armi ai ribelli del Nicaragua che lottano contro il neonato regime comunista. Durante la missione top secret l'uomo viene avvicinato da un trio di potenti narcotrafficanti colombiani che lo convincono ad aiutarli a trasportare centinaia di chili di cocaina negli States. Per quanto incredibile possa sembrare il protagonista si trova a contribuire alla nascita del cartello colombiano guidato da Pablo Escobar e ad alimentare le azioni di guerriglia dei contras nei confronti del governo sandinista mentre accumula ricchezze sempre più incommensurabili. Ovviamente però la carriera criminale dell'ex pilota della TWA non può durare a lungo senza intoppi.

Che American Made sia tutt'altro che uno di quei biopic portatori di grandi messaggi etici da Academy risulta scontato fin dal titolo (purtroppo la scelta della localizzazione italiana annulla l'effetto sarcastico del titolo originale), così come nella scelta di affidare la regia a Liman, capace sì di adattarsi a produzioni molto eterogenee nel corso della sua carriera ma indubbiamente più a suo agio con la commedia caustica. Proprio come nella precedente collaborazione con Tom Cruise (Edge of Tomorrow, 2014), anche in questo suo ultimo lavoro l'autore di The Bourne Identity (2002) rilegge un genere solitamente votato alla serietà (in questo caso il biopic e il crime movie) con una vena ironica che non risparmia colpi bassi e frecciate ben evidenti al militarismo statunitense e alla sua facciata da difensore della democrazia. Certo in questo caso, come già affermato in precedenza, il cineasta newyorkese non inventa poi molto e anzi esibisce in maniera esplicita i numerosi riferimenti al cinema di Scorsese, a cominciare dalla scelta di rendere il protagonista anche narratore del film, come in Quei bravi ragazzi, passando per il periodo storico individuabile negli anni Ottanta reaganiani fino ai colori acidi della fotografia di César Charlone che richiamano, oltre a Traffic (2000) di Soderbergh (non a caso altra opera incentrata sul contrabbando di stupefacenti), il precedentemente menzionato The Wolf of Wall Street. Dunque chi è alla ricerca di chissà quale innovazione folgorante potrebbe restare deluso ma tutti gli altri si troveranno dinanzi a una pellicola dotata di una messinscena molto singolare per l'ambito americano, ricca di passaggi repentini da materiale found footage a ritmate sequenze caratterizzate da un uso preminente di giallo e verde estremamente saturi, passando per le riprese che lo stesso Barry realizza con una telecamera amatoriale, guardando dritto in macchina per poter imprimere su nastro la propria storia. Ecco il vero punto di forza, centro di gravità permanente del lungometraggio: il protagonista. Grazie a una prova eccelsa per autoironia e riflessione sul proprio passato divistico Cruise dona a una figura tutt'altro che moralmente eccepibile quella simpatia da mascalzone adorabile che porta il pubblico a patteggiare sempre per lui e, con una grande intuizione metacinematografica, persino gli altri personaggi, a cominciare dal trio colombiano guidato da Pablo Escobar. Lo stesso Seal più volte resta sorpreso di come ogni situazione finisca sempre per risolversi in un'opportunità per arricchirsi, persino le più tragiche e pericolose, proprio come potrebbe accadere solamente al tipico eroe classico americano, quello che tra anni Ottanta (gli stessi del film) e Novanta l'attore di Syracuse interpretava a ripetizione e che da almeno un decennio invece tende a sbeffeggiare tramite personaggi più ironici (uno su tutti l'esilarante Grossman in Tropic Thunder, girato da Ben Stiller nel 2008).

Insomma in questo Barry Seal è difficile non lasciarsi trasportare dalla crescente assurdità delle disavventure del suo protagonista ma, allo stesso tempo, non si può restare indifferenti a come Liman utilizzi questa figura di criminale per sbaglio alla stregua di un Forrest Gump realmente esistito, capace di avere un ruolo fondamentale nel suo "piccolo" all'interno della grande storia degli USA. Quella Storia con la esse maiuscola in cui però il gigante americano mostra tutta l'ambiguità della sua politica sia interna che esterna, specie nel momento in cui alla presidenza arriva l'ormai famigerato Ronald Reagan. Dietro la sua facciata rassicurante l'ex cowboy si è reso motore di un periodo storico dominato da un liberismo estremo colpevole di una escalation dell'ossessione del cittadino nei riguardi del denaro e del potere, l'unica meta da raggiungere a discapito di ogni remora etica. Allo stesso modo gli Stati Uniti durante gli anni Ottanta, nonostante le scorie della tragedia vietnamita, si sono resi complici di gravi atti di prevaricazione del diritto internazionale in Nicaragua e in Iran e la pellicola in analisi non lesina nel mettere sul banco degli imputati questa orrenda deformazione dell'american dream e dei principi morali alla base della storia della "terra delle opportunità". Come dimostra millenni fa Aristofane non vi è arma più tagliente per criticare i vizi della società in cui si vive della commedia e anche in questo American Made non delude.

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