lunedì 13 agosto 2018

PAIN & GAIN: LA STUPIDA E INQUIETANTE AMERICA SECONDO MICHAEL BAY

Penso di poter affermare con pochissimi dubbi che tra i registi più odiati, soprattutto nella tipica ostentazione dei social network, al mondo abbia un ruolo di spicco Michael Bay, nonostante quasi tutti i suoi film abbiano sbancato il botteghino, alla faccia dei detrattori e di una larga porzione della critica che non lo hai mai visto di buon occhio. Dopo aver girato alcuni blockbuster dagli ottimi incassi negli anni '90 il cineasta statunitense lega il proprio nome al franchise miliardario di Transformers, eppure proprio tra un capitolo e l'altro della saga ispirata ai giocattoli Hasbro riesce a realizzare un progetto con budget più contenuto e maggiormente personale: Pain & Gain. La pellicola, distribuita nel 2013, ottiene un discreto riscontro commerciale, sebbene lontano anni luce da quelli a cui è abituato il regista, contornato da reazioni ben più lusinghiere da parte della critica rispetto alla maggior parte dei suoi lavori precedenti.

Il film, a ulteriore dimostrazione della sua divergenza con Transformers (2007) e seguiti, si ispira a fatti realmente accaduti e testimoniati da numerosi articoli di giornale del 1999 circa le incredibili avventure criminali di tre bodybuilder di Miami. Il trio, composto dal capo Daniel Lugo (Mark Whalberg), l'amico Noel Doorbal (Anthony Mackie) e l'ex detenuto ossessionato dalla fede Paul Doyle (Dwayne "The Rock" Johnson), tenta di svoltare da una vita economicamente tutt'altro che soddisfacente con il rapimento del ricco e odioso Victor Kershaw (Tony Shalhoub). Nonostante i continui passi falsi compiuti dai protagonisti questi riescono a farsi intestare l'intero patrimonio della vittima ma non a ucciderlo, firmando così la loro condanna, grazie anche all'intervento dell'ex detective privato ora in pensione Ed Du Bois III (Ed Harris).

Nel corso della sua ormai ventennale carriera cinematografica Michael Bay è stato additato soprattutto di proporre uno stile estetico esagerato e ipercinetico abbinato a sceneggiature poco intelligenti e ricche di coordinate morali conservatrici. Ebbene Pain & Gain, che ci crediate o meno (a mio modesto parere una sola visione basta per rendersene conto), ribalta completamente questo stereotipo sfruttandolo a vantaggio della riuscita del film e della sua natura satirica. Ripescando una vena ironica dissacrante intravista precedentemente solo in The Rock (1996) il regista californiano realizza una dark comedy sfrontata sotto ogni punto di vista, dall'umorismo nero lontano anni luce dal politically correct del quale l'autore è stato spesso accusato alla violenza quasi mai censurata dalla cinepresa, e il cuore pulsante della stessa risulta proprio quella stupidità rimproveratagli dai suoi numerosi detrattori. Il trio di improvvisati criminali e in primis il leader Daniel credono di poter imitare l'ascesa di quei self made men resi iconici dalla cultura americana come Tony Montana o Rocky Balboa senza rendersi conto però di non avere un briciolo delle capacità dei loro idoli e di essere dei completi idioti, privi di istruzione e talmente goffi da non riuscire neanche a uccidere un uomo dopo averlo fatto schiantare in auto, bruciato vivo e investito due volte in una delle sequenze più esilaranti del film. Il ricorso al registro della farsa e del grottesco non si traduce mai in una completa empatia verso i protagonisti, così come neanche le loro vittime vengono dipinte come innocenti oggetti di aggressioni, rendendo in tale senso ogni personaggio su schermo estremamente ambiguo sul versante morale. Persino le "ignare" compagne di Doorbal e Doyle vengono poste sul banco degli imputati (prima metaforicamente e poi fisicamente nel finale) se non per aver contribuito ai reati dei loro uomini quanto meno per quello della stupidità, in questo caso per non essersi rese conto di ciò che accadeva davanti ai loro occhi. La suddetta stupidità trova la sua origine in un contesto culturale prettamente americano impregnato dal già citato mito del successo individuale a tutti i costi, un ideale che nel corso dei decenni ha finito per corrompere le menti degli statunitensi spingendolo a rinunciare a ogni remora etica e a delinquere pur inseguire questo ideale di soddisfazione economica del singolo. Proprio come da me evidenziato a proposito di The Social Network il sogno americano pare aver assunto forme sempre più devianti, conturbanti e inquietanti e sebbene il film di Bay sia ambientato negli anni '90 pare evidente come i suoi attacchi siano prettamente attuali.

Quale registro formale sarebbe stato più adatto a una storia su un trio di criminali stupidi se non quello etichettato come altrettanto stupido ricco di iperboli cinetiche, continui movimenti di macchina e ralenti tipico dello stesso autore di Bad Boys (1995)? Con una inaspettata quanto arguta scelta stilistica Bay mette in mostra la sua spesso messa in dubbio natura autoriale utilizzando metacinematograficamente quelli da sempre definiti come suoi difetti congeniti per attaccare quell'America conservatrice e amorale da molti considerata parte integrante dei suoi spettatori e, allo stesso tempo, la critica e detrattori convinti che non vi sia alcuna corrispondenza poetica alla forma delle pellicole da lui girate. Trovano dunque una loro ragion d'essere le soggettive impossibili di oggetti inanimati o il piano sequenza con la cinepresa che attraversa digitalmente la gabbia di ferro di un ventilatore, la cui chiara ispirazione al celeberrimo long take di Professione reporter (The Passenger, Michelangelo Antonioni, 1975) senza però alcuna affinità poetica si conforma ai difetti dei tre rapitori improvvisati.
Pain & Gain risulta alla luce di quanto evidenziato il film che potrebbe far cambiare opinione ai detrattori più accorti e aperti intellettualmente di Bay, dimostrandone almeno una maturazione rispetto al passato che trova il suo apice nel disilluso finale, capace di confermare ancora una volta l'inguaribile ingenuità del culturista interpretato con perizia da Mark Wahlberg ma anche una certa empatia verso lo stesso, certamente colpevole per tutto il male che ha causato ma anche vittima di una disumana rincorsa a un determinato status sociale dettata dalla cultura nel quale è nato e cresciuto.

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