mercoledì 8 agosto 2018

STEVE JOBS: IL BIOPIC SECONDO LA COPPIA BOYLE-SORKIN

Sebbene spesso si tenda a limitare la gran parte dell'attuale panorama cinematografico hollywoodiano e commerciale in genere ai blockbuster supereroistici o ad altri prodotti seriali preminentemente fantastici quali Star Wars o Jurassic Park è innegabile come il genere del biopic abbia riscontrato negli ultimi anni una certa rinascita, sancita da pellicole campioni di incassi e premiate in tutto il mondo come La teoria del tutto (The Theory of Everything, James Marsh, 2014) e The Danis Girl (Tom Hooper, 2015). All'interno di questa nuova età dell'oro della biografia filmica dominata da registi e produzioni estremamente debitrici del cinema classico e delle performance delle star che giganteggiano nei ruoli da protagonisti trova un suo spazio e una propria identità Steve Jobs, lungometraggio diretto dall'inglese Danny Boyle (Trainspotting, 1996; 28 Days Later, 2002) e scritto da Aaron Sorkin, commediografo e sceneggiatore ben più avvezzo a questo tipo di operazioni rispetto al cineasta appena citato. Sostenuto da un cast attoriale di prim'ordine il film convince in pieno la critica in tutto il mondo ma si rivela tutt'altro che un successo economico, mettendo in mostra per l'ennesima volta la distanza che spesso intercorre tra i gusti del pubblico e quelli della stampa specializzata, in special misura quando al centro delle indagini si trova un prodotto ascrivibile a un genere molto popolare ma che ne affronta stilemi e topoi in maniera molto personale.

Come facilmente intuibile dal titolo il lungometraggio in analisi ripercorre alcune tappe fondamentali della vita, sia pubblica che privata, del volto più noto dietro le fortune della Apple, interpretato per l'occasione da Michael Fassbender. Il film si divide in tre atti separati da spazio e tempo che rappresentano sempre i minuti che precedono una presentazione di un nuovo e fondamentale prodotto ideato da Jobs, come il Macintosh o l'iMac, e dunque le continue discussioni con l'ex migliore amico Steve Wozniak (Seth Rogen), l'incoraggiamento e le preoccupazioni della esperta di marketing e sua compagna in ogni avventura finanziaria Joanna Hoffman (Kate Winslet) ma soprattutto il graduale e incostante sviluppo di un rapporto con la figlia Lisa, inizialmente neanche riconosciuta come tale e infine rivelatasi fonte di ispirazione non solo per l'omonimo computer ma soprattutto per uno dei maggiori successi tecnologici del cofondatore della società di Cupertino, l'iPod.

Immaginare un autore come Danny Boyle alle prese con il classico biopic che racconta l'intera vita di un personaggio storicamente noto pare un azzardo per chiunque ne conosca la filmografia e in fondo una pellicola molto aderente ai dettami del genere esisteva già prima dell'uscita di Steve Jobs: mi riferisco a Jobs, diretto nel 2013 da Joshua Michael Stern con protagonista Ashton Kutcher. A scanso di equivoci è bene chiarire immediatamente che con l'opera del regista britannico ci troviamo su ben altri lidi, immersi grazie alla sapienza teatrale e drammaturgica di Sorkin all'interno di una bolla di sapone, di un continuo nonluogo, riprendendo il lemma coniato da Marc Augé, formato da corridoi, quinte teatrali e camerini all'interno dei quali prende forma tutto il mondo interiore del protagonista. Un io tutt'altro che unitario e coeso, immergendo dunque Jobs all'interno di quella categoria antropologica alla quale appartiene l'uomo contemporaneo caratterizzata dalla frammentazione della coscienza, dalla stratificazione dell'interiorità emotiva e psicologica. Il personaggio magistralmente interpretato da Fassbender appare diviso tra l'enorme ego che ostenta davanti al prossimo e ai media, al punto da risultare persino insopportabile anche alle persone che più gli sono vicine, e l'evidente mole di difese costruite per evitare di affezionarsi alle persone, di perdere il controllo (citando un'esplicita dichiarazione contenuta nel film) su ciò che lo circonda lasciandosi tentare dai sentimenti. Il controllo è ciò a cui aspira maggiormente la mente dietro iPhone e iPad, la sensazione di poter dominare la propria vita e quella altrui e che dunque lo spinge a immettere sul mercato tecnologie end to end (ossia non personalizzabili dall'utente), a negare dei sacrosanti riconoscimenti pubblici verso il grande lavoro svolto dal "rain man" (così definito proprio da Jobs nella sequenza centrale) Wozniak e infine a vivere un ruolo genitoriale sempre distaccato, summa di questa mania per il controllo nata dalla sua condizione di orfano rifiutato da almeno due famiglie.

Sorkin divide astutamente la pellicola in tre atti ben distinti e al contempo capaci di susseguirsi in maniera quasi indistinta grazie alle scelte registiche di Boyle, il quale abbandona gran parte dei propri stilemi formali divenuti famosi negli anni '90 in favore di un largo ricorso al piano sequenza, a lunghe inquadrature separate da stacchi di montaggio talmente morbidi da risultare quasi invisibili, creando un effetto che ricorda, anche per assonanze tematiche e scenografiche, Birdman (Alejandro Gonzalez Inarritu, 2014) e Nodo alla gola (Rope, Alfred Hitchcock, 1948) e che dunque si pone agli antipodi dall'approccio ipercinetico di inizio carriera, mostrando una maturazione linguistica e formale confermata dal successivo T2 Trainspotting. Una chiara presa di posizione formale dettata non da virtuosismi fini a se stessi o dalla bieca imitazione del successo appena citato a opera del cineasta messicano ma generata inevitabilmente perché il centro, il punto focale dell'intero film è il mondo interiore di Steve Jobs, la sua mente e non gli avvenimenti che ormai tutti conosciamo e che per questo vengono presentati allo spettatore con numerose licenze rispetto alla verità storica. Ciò che sta a cuore della coppia Sorkin-Boyle è rappresentare il frastagliato, complesso e ruvido universo emotivo che si cela dietro i tanti successi e le altrettante sconfitte che dominano la vita di un uomo simbolo del mondo in cui viviamo. Parafrasando le evoluzioni della letteratura occidentale il film in questione si pone nel solco della ricerca novecentesca sull'inconscio e la memoria operata da figure quali Marcel Proust o James Joyce, in aperto contrasto con un genere cinematografico tra i più vicini al romanzo ottocentesco rappresentato da Charles Dickens o Gustave Flaubert.
Steve Jobs potrebbe dunque essere definito come la ricerca del tempo e degli affetti perduti del geniale cofondatore di Apple, un viaggio sospeso tra spazio e tempo teso a indagare l'uomo e non il personaggio, l'orfano più che l'imprenditore, il padre e solamente dopo l'inventore.

Nessun commento:

Posta un commento