sabato 16 marzo 2019

IN THE HEART OF THE SEA: GLI ABISSI DELL'OCEANO E DELL'ANIMA

Dopo essere entrato nei televisori di tutto il mondo come protagonista di Happy Days (Garry Marshall, 1974-1984) Ron Howard ha trovato la sua consacrazione artistica come regista cinematografico, grazie soprattutto al supporto di George Lucas che ne aveva intuito il talento in American Graffiti (1973). Oggi "Richie Cunningham" può contare su una filmografia di notevole vastità, condita da grandi successi commerciali e riconoscimenti prestigiosi ma anche da taluni tonfi al box office, tra i quali spiccano i suoi ultimi due prodotti. Oggi ho deciso di prendere in esame proprio uno di questi due, ossia In the Heart of the Sea (in Italia Heart of the Sea - Le origini di Moby Dick), diretto nel 2015 con un budget da blockbuster ma incapace di conquistare il botteghino e gran parte della critica statunitense.

Ispirata all'omonimo romanzo storico scritto da Nathaniel Philbrick nel 2000, la pellicola si dipana attraverso due sezioni spaziotemporali: la prima, ambientata nel 1850, vede il romanziere Herman Melville (Ben Whishaw) fare visita all'ex marinaio Thomas Nickerson (Brendan Gleeson) per poter avere una testimonianza diretta sulla vicenda del naufragio della baleniera Essex; il secondo rappresenta proprio il racconto di quest'ultimo, che vede come protagonista Owen Chase (Chris Hemsworth), baleniere esperto al quale però viene assegnato solamente l'incarico di primo ufficiale della Essex, così da favorire come capitano della spedizione il nobile ma meno affidabile George Polland. Dell'equipaggio in cerca di olio di balena fanno parte anche l'amico fraterno di Chase Matthew Joy (Cillian Murphy) e l'allora novellino Nickerson (Tom Holland). Il viaggio, reso già arduo dalla convivenza tutt'altro che pacifica tra capitano e primo ufficiale, diviene un inferno quando i due decidono di sfidare la sorte avventurandosi in una zona del Pacifico lontanissima dalla civiltà e solcata da un'enorme e agguerrita balena bianca.

A differenza di quanto lasci credere il marketing sotteso al titolo utilizzato dalla distribuzione italiana, In the Heart of the Sea non porta sul grande schermo il romanzo di Melville, bensì la vicenda storica che l'ha ispirato e dunque quella transizione narrativa che porta il fatto a divenire racconto. In questo senso diviene evidente come lo stesso romanziere statunitense rappresenti un doppio del regista stesso, specie nel momento in cui si riflette su quanto la filmografia di Ron Howard sia costellata di trasposizioni di storie realmente accadute, lasciando trasparire l'interesse del regista per la modificazione di tali eventi in una chiave filmica che da un lato guarda al postclassicismo di Clint Eastwood e dall'altro a un'attenzione per le possibilità offerte della tecnologie più recenti che aveva caratterizzato il precedente Rush (2013). Proprio quest'ultimo, al netto della chiara distanza storica e di ambientazione narrativa, diventa il vero metro di paragone con il quale si confronta la pellicola in analisi, quasi come se ne costituisse un seguito spirituale. Anzitutto entrambi i lungometraggi si ispirano a storie realmente accadute e si concentrano su una dialettica duale tra personaggi dotati di personalità e Weltanschauung completamente diverse: se la rivalità tra il pragmatico e fedele a un'unica donna Niki Lauda con il donnaiolo spericolato James Hunt (interpretato anche lui da Hemsworth) domina il cuore di Rush, lo stesso accade per gran parte di In the Heart of the Sea, con tanto di analoghe battaglie all'interno di contesti nei quali le loro vite vengono messe a rischio costantemente e un finale che porta una delle due forti personalità a fare un passo indietro verso l'altra. Allo stesso modo le due coppie si trovano, come spesso accade nei lavori dell'autore di Cocoon (Coocon - L'energia dell'universo, 1985), a dover loro malgrado superare ostacoli imprevisti durante il loro rischioso percorso lavorativo che finiscono per modificarne in parte il temperamento e a mettere da parte le rivalità per la propria sopravvivenza. Ciò che distingue il dualismo Chase-Polland da quello Lauda-Hunt risulta invece l'essenza del suddetto ostacolo, che nel più recente tra i due lungometraggi non è più qualcosa di intangibile (la velocità e la connessa brama di vittoria) ma un sentimento fin troppo umano (una bramosia che diventa ben presto hybris) che viene reificato in una manifestazione inaspettata del terrificante potere della natura: la balena bianca. L'enorme essere marino, pur non potendo raggiungere le vette simboliche presenti nel romanzo di Melville a causa dell'essenza epica dello stesso, fin dalla falsa soggettiva che apre la pellicola entra in ogni inquadratura fagocitandone lo spazio trasmettendo allo spettatore tutta la potenza incontrollabile da parte dell'uomo della quale è dotato, divenendo dunque la manifestazione fisica dei limiti dell'uomo stesso e della vendetta della natura nei confronti del crudele sfruttamento intensivo delle risorse terrestri. L'olio di balena in quanto antesignano del petrolio (non a caso citato nel finale) come combustibile aggiunge una vena di ecologismo che funziona soprattutto come ulteriore valvola di sfogo per l'attacco di Howard alla presunzione umana.
Proprio in questa direzione agisce anche l'impianto formale adottato dal regista e dal direttore della fotografia Anthony Dod Mantle, caratterizzato da una combinazione altamente spettacolare di classicismo con un ricorso abbondante a action cam montate sugli alberi o sul ponte della Essex che elevano la dimensione avventurosa e il senso di aggressione prodotto dall'agente naturale costituito dal mare. Proprio quest'ultimo diventa una sorta di estensione della balena e di tutto il suo carico allegorico: grazie alla color correction particolarmente antinaturalistica e acida adottata l'oceano assume immediatamente connotati particolarmente sinistri che aumentano costantemente con l'inasprirsi dei contrasti tra capitano e primo ufficiale fino a raggiungere un climax durante la strage perpetrata in coppia (ancora una volta ricorre il due) onde marine-balena, per poi mutare nuovamente in una tonalità di blu quasi accecante quando i sopravvissuti al naufragio si trovano a dover rinunciare a ogni remora morale pur di resistere a quel tratto di Pacifico che Nickerson, non a caso, definisce più come un deserto che come distesa d'acqua. Proprio in questa sezione del narrato avviene la svolta che trasforma quella che sembra ormai avere ogni connotato della tragedia attica, ossia la scelta di Chase di non colpire il gigantesco cetaceo con l'arpione quando quest'ultimo compare nuovamente agli stremati marinai; una decisione dettata da un mix di sentimenti contrastanti che sembra essere interpretata dalla divinità dei mari come una riscossa etica da parte di quel manipolo di uomini e che dunque viene premiata con il salvataggio degli ultimi superstiti dell'Essex.

In the Heart of the Sea non raggiunge, come precedentemente affermato, le vette epiche di Moby Dick così come non apporta grandi novità al cinema contemporaneo, eppure dimostra ancora una volta come il cinema di transizione tra passato e presente di Ron Howard funzioni egregiamente anche in dimensioni avventurose oggi poco frequentate e sappia raccontare le pulsioni più viscerali dell'uomo senza perdere mai l'obiettivo dell'impatto emotivo su qualunque tipologia di spettatore.

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