venerdì 8 marzo 2019

LA CASA DI JACK: RITRATTO DELL'ARTISTA (NON PIÙ DA GIOVANE) LARS VON TRIER

Il mondo del cinema non è certo privo di personaggi contraddittori, capaci di suscitare scandalo sia con le proprie opere che con comportamenti sopra le righe fuori dal set, eppure non credo che esista personalità più controversa, almeno tra i viventi, di Lars von Trier. A sette anni dall'ormai famigerata cacciata dal Festival di Cannes in seguito a dichiarazioni poco felici su Hitler e il nazismo (a mio modesto parere largamente fraintese) il regista danese torna alla rassegna francese nel 2018 con The House That Jack Built, sua ultima fatica che in questi giorni arriva finalmente anche in Italia con il titolo La casa di Jack. Come da facile pronostico la pellicola sconvolge fin dalla prima proiezione gli spettatori, spacca nettamente la critica mondiale e nel nostro paese viene distribuita, in modo assolutamente folle, in due versioni, una censurata e l'altra integrale, entrambe vietate ai minori di 18 anni. Scopriamo se ci troviamo dinanzi a una provocazione fine a se stessa o all'ennesimo grande lavoro dell'autore di Melancholia (2011).

Il lungometraggio si presenta come una lunga conversazione intrattenuta tra Jack (Matt Dillon) e Verge (Bruno Ganz) a proposito dei motivi che hanno spinto il primo a vivere ben dodici anni come serial killer, autore di più di sessanta omicidi sempre più efferati e complessi. Nel raccontare il proprio percorso l'assassino utilizza cinque episodi che definisce incidenti, intramezzati da spiegazioni sulle velleità artistiche dell'uomo che lo avrebbero spinto a rifugiarsi in questa "carriera".

Per quanto perfettamente compiuto in se, sia esteticamente che narrativamente, per poter penetrare e comprendere nella sua totalità l'allucinato viaggio nel male costituito da La casa di Jack è necessario possedere una buona conoscenza della filmografia pregressa del suo autore, poiché è indubbio come il film rappresenti un vero e proprio compendio del cinema di von Trier e soprattutto un'analisi in forma filmica di se. Certamente è facile riconoscere in Jack un alter ego tutt'altro che velato del regista, del quale condivide l'incapacità nel confrontarsi emotivamente con l'altro e la conseguente scelta di rifugiarsi nell'arte, elemento misterico capace di trascendere persino ogni valenza di ordine morale in virtù di un unico principio ordinatore, la bellezza. Proprio come il controverso danese il protagonista del lungometraggio mostra una Weltanschauung particolarmente nichilista, priva dei più elementari sentimenti umani, diffidente verso qualsiasi traccia di bontà nell'animo umano, così come invece resta affascinato da un concetto di creazione artistica totalmente amorale e improntata al lato oscuro nella sua totalità (si pensi all'insistenza sul concetto di negativo e di ombra, sia nelle foto che nella lunga divagazione grafica con l'uomo che cammina sotto i lampioni). All'interno delle numerose espletazioni dell'idea di creazione secondo Jack e su come dunque l'omicidio sia la sua più alta modalità d'espressione, il protagonista rivendica una fascinazione estrema verso l'idea di icona, indentificata però non con un Michelangelo o Dickens, bensì con Speer e altre figure simbolo del nazismo, rievocando in maniera lapalissiana le già citate polemiche sul presunto antisemitismo di von Trier.
Allo stesso modo persino la forma scelta per rappresentare questa sorta di autoanalisi filtrata attraverso la Divina Commedia e il semiautobiografismo di Ritratto dell'artista da giovane di Joyce  riflette l'idea dell'autore di mettere a nudo per intero la propria essenza di uomo e cineasta: nei 155 minuti di durata del film riemergono tutti gli stilemi che hanno contrassegnato il percorso filmico dell'autore di Le onde del destino (Breaking the Waves, 1996), a partire dalla camera a mano invocata dal manifesto di Dogma 95 fino a un ricorso costante a materiale found footage, all'interno del quale spiccano nientemeno che frammenti dei suoi precedenti lavori. Ecco la prova più esplicita di come La casa di Jack sia l'opera più personale e totale di von Trier, l'unica tra quelle più direttamente influenzate dal proprio mondo interiore nella quale emerge finalmente anche la pars costruens del processo umano e creativo del danese, reificata in Verge. L'ultimo personaggio interpretato dal leggendario Ganz non può che personificare il lato meno distruttivo della concezione artistica del regista, la sua moralità più vera e nascosta, quel lato umano e cinematografico di se rimasto fin troppo a lungo sepolto sotto continue provocazioni pubbliche e pregiudizi di addetti ai lavori perbenisti. Come il principe centauro invocato da Machiavelli il vero io di questo controverso artista non risiede né in Jack, né in Verge/Virgilio ma nella complementazione di entrambi.

Un po' golpe, un po' lione, esattamente come The House That Jack Built.

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