mercoledì 25 agosto 2021

CAPONE: DECOSTRUIRE IL MITO CINEMATOGRAFICO CRIMINALE

Woody Allen ha dedicato uno dei suoi migliori lavori, Match Point (2005), all'importanza della sorte nella vita umana, a dispetto di qualunque talento o azione che possiamo perpetrare. Probabilmente oggi anche Josh Trank concorderebbe con gli assunti alleniani, barattando molto volentieri il suo innegabile talento per una bella botta di...fortuna. Dopo aver mostrato al mondo la possibilità di realizzare cinecomic senza budget miliardari con Chronicle (2012), il suo, apparentemente, radioso futuro lavorativo va a scontrarsi con l'ambiente dei grandi studios, che lo inghiottiscono per poi sputarlo via con le ossa rotte. Dopo aver disconosciuto pubblicamente il disastroso The Fantastic Four (2015) la sua carriera imbocca una parabola discendente, costellata unicamente da progetti naufragati ancor prima di iniziare. L'occasione del riscatto arriva nel 2020 con l'ambizioso Capone, del quale filma anche sceneggiatura e montaggio, con tanto di cast ricco di attori di notevole fama. Peccato che anche in questo caso il fato si dimostri poco amichevole con il regista: la pandemia di COVID impedisce al film di uscire in sala e la distribuzione on-demand, nonostante numeri discreti, ovviamente non riesce a rendere la produzione un successo economico, complice anche l'accoglienza piuttosto controversa riservatale dalla critica. Ma è davvero un disastro annunciato il suo ultimo lavoro?


La pellicola mostra l'ultimo anno di vita del leggendario boss Al Capone (Tom Hardy), contraddistinto dal rapido peggioramento della sua salute mentale a causa della sifilide. Incapace di ricordare dove avrebbe nascosto ben dieci milioni di dollari, pedinato dall'FBI e totalmente dipendente dalle cure della moglie (Linda Cardellini), l'uomo passa le sue giornate su una sedia a rotelle, fumando una carota che scambia per un sigaro e rivivendo nella propria mente alcuni dei misfatti commessi in gioventù.

Analizzare e giudicare Capone è un compito più arduo di quanto potrebbe sembrare. Una delle caratteristiche che in estetica viene ritenuta fondamentale da millenni per apprezzare un'opera d'arte è l'equilibrio, cuore pulsante di tutto il classicismo greco-romano e che influenza la nostra percezione ancora oggi. Il film in questione di equilibrio ne ha ben poco, sia a livello narrativo, specie per quanto concerne il ritmo, che formale, con i suoi picchi di violenza e realismo nel ritrarre il deterioramento fisico del protagonista. Eppure come si può pretendere moderazione, simmetria da una pellicola che racconta, per l'appunto, l'improvviso tracollo della salute di un uomo potente, astuto e ancora piuttosto giovane? Con coraggio e una certa cognizione di causa, Trank si spinge oltre i topoi del biopic, persino di quel sottogenere dello stesso legato a figure criminali o comunque moralmente esecrabili, a partire dal soggetto. Limitando la narrazione all'ultima fase di vita del gangster, quella contrassegnata quasi unicamente dalla malattia, il cineasta californiano decide di disfarsi dell'aura glamour che nei decenni ha investito la figura di Al Capone, divenuto l'essenza stessa dell'idea del fuorilegge spietato ma affascinante al tempo stesso. Senza di lui l'immaginario collettivo di numerose generazioni non avrebbe mai associato al mafioso il volto e le iconiche citazioni di Al Pacino in Scarface (Brian De Palma, 1983), a sua volta reinterpretazione dell'omonimo lungometraggio diretto da Howard Hawks nel 1932. Ebbene stavolta tutto ciò che lo spettatore immagina quando viene nominato il re del crimine di Chicago viene completamente scardinato, trovandosi ad assistere a scene di ordinaria malattia per tutte quelle persone che accudiscono parenti non autosufficienti, senza nascondere persino l'incapacità del protagonista di trattenere i propri bisogni fisiologici. Molti critici sembrano inorriditi dal vedere un uomo di quasi cinquant'anni bagnare la propria raffinatissima poltrona, senza neanche accorgersene, ma sono fin troppe le famiglie o gli operatori sanitari che riconoscono in tutto ciò stralci della loro quotidianità. Fonzo, come viene chiamato da parenti e amici, nelle mani dell'autore di Chronicle non è più il boss mitizzato dal cinema e neanche un semplice malato da compatire, come magari lo avrebbe dipinto un classico biopic revisionista, bensì un essere umano a trecentosessanta gradi, la cui cagionevole salute psichica ne accentua ancora di più i contrasti. Esemplare in tal senso è il rapporto con Mae, che, con forza di volontà e pazienza infinite, accudisce il marito dopo aver già sofferto per i suoi efferati crimini. Incapace di mantenere a lungo la lucidità, il protagonista passa nell'arco della stessa scena dal pronunciare parole estremamente amorevoli alla moglie per poi attaccarla con il più scurrile dei linguaggi, mostrando di non riconoscere neanche la propria interlocutrice.

La tragica condizione del gangster italoamericano viene sottolineata, cercando però di evitare il semplice patetismo, da una serie di sequenze ambientate nei suoi ricordi o in ciò che questi sono diventati in seguito all'insorgere della demenza. Frammenti del suo antico potere sulla società altolocata di Chicago si alternano a esplosioni di violenza che rammentano al pubblico che quell'ormai debole figura umana è stata davvero Al Capone, il terrore delle strade. Anche in questi casi Trank non distoglie lo sguardo della cinepresa neanche dinanzi a lunghe pile di cadaveri sui quali l'uomo si arrampica o quando uno dei suoi sgherri pugnala a ripetizione il collo di un presunto traditore, ma ben più potente a livello sia visuale che concettuale è l'espressione esterrefatta di Fonzo dinanzi alla sua immagine da giovane riflessa in uno specchio, di cui sembra non avere alcuna memoria certa. Non c'è momento di maggiore solitudine per una persona rispetto a quello in cui ci si specchia, figuriamoci quando l'immagine che ci restituisce la superficie riflettente non ci risulta neanche più familiare.

Il sopracitato ritmo cadenzato e una certa mancanza di approfondimento delle dinamiche interpersonali con il resto della famiglia impediscono a Capone di eccellere, nonostante ciò resta un film dotato di notevole fascino, grazie anche alle sue imperfezioni e all'interpretazione di un Tom Hardy ormai sempre più a suo agio con la recitazione coperta da maschere (in questo caso il pesante trucco impostogli dal ruolo). Nei soli occhi e nei movimenti appena accennati delle sue labbra è possibile vivere tutto il travaglio di un uomo che ha smesso finalmente di essere solo un personaggio di genere, premiando il coraggio di un autore che di sicuro non ha la sorte dalla propria parte.

sabato 21 agosto 2021

EVANGELION: 3.0+1.0 THRICE UPON A TIME: IL COMMIATO DEFINITIVO A UNA SAGA E A UNA FASE DELLA VITA

Chiunque abbia una minima dimestichezza con il mondo degli anime, in special misura se nato tra la fine degli anni Ottanta e i primi Novanta, ha visto o conosce Neon Genesis Evangelion (Hideaki Anno, 1995-1996), grazie anche alle trasmissioni televisive sulla defunta MTV. L'ambiziosa serie, solamente in apparenza legata al sottogenere mecha, anche a causa di un finale solamente abbozzato, ha dato vita a un franchise multimediale, culminato nel film The End of Evangelion (Hideaki Anno, Kazuya Tsurumaki, 1997), opera grandiosa che chiude il cerchio in maniera più esplicita rispetto agli ultimi due episodi dell'anime. Nonostante questo epilogo, peraltro trionfale da ogni punto di vista, lo stesso creatore originale dell'intero intreccio ha deciso di dare vita a una sorta di reboot cinematografico dello stesso; una tetralogia racchiusa sotto il nome di Rebuild of Evangelion e iniziata nel 2007. A distanza di ben quattordici anni gli appassionati di tutto il mondo possono godere finalmente dell'ultimo capitolo di questa ambiziosa riproposizione della saga, intitolato Evangelion: 3.0+1.0 Thrice Upon a Time (Hideaki Anno, Kazuya Tsurumaki, Katsuichi Nakayama, 2021). Distribuita in sala solamente in Giappone, la pellicola risulta essere comunque il miglior incasso di sempre per l'intero franchise, con recensioni lusinghiere in tutto il mondo.

Raccontare troppo della trama del film sarebbe un delitto, specie per i numerosi colpi di scena sparsi lungo i suoi 155 minuti di durata, dunque mi limito a riferire come questa riprenda esattamente il filo del discorso lasciato in sospeso con il precedente Evangelion: 3.0 You Can (Not) Redo (Hideaki Anno, Mahiro Maeda, Kazuya Tsurumaki, Masayuki, 2012), mostrando le conseguenze su Shinji e gli altri protagonisti del quasi compiuto Fourth Impact e della morte di Kaworu. Per il giovane pilota di Eva lo shock è difficile da superare ma, attraverso un insperato processo di maturazione e accettazione del dolore, unisce ancora una volta le forze con Asuka, Mari, Misato e gli altri della Wunder per la battaglia finale contro la Nerv, ormai relegata solamente all'imperscrutabile progetto di Kozo Fuyutsuki e Gendo Ikari.

Evitare spoiler e approfondire la tantissima carne a fuoco compressa all'interno di Evangelion 3.0+1.0 è arduo quasi quanto districarsi attraverso i continui rimandi religiosi ed esoterici che pervadono fin dal primo episodio dell'anime la saga in questione ma cercherò di mantenere questa impostazione. Ovviamente per godere appieno della visione è necessario aver visionato almeno la tetralogia cinematografica ma altrettanto importante risulta la visione di The End of Evangelion, poiché molti dei temi centrali di allora tornano in questo nuovo epilogo, come in una sorta di aggiornamento di quanto narrato nel 1997. Certamente i cambiamenti narrativi occorsi già nelle precedenti pellicole rendono molto diverso lo svolgimento dell'intreccio ma guardare a pochi giorni di distanza le due pellicole rende evidente la loro parentela. Un rapporto scandito dall'avvicendarsi degli anni, delle tecnologie, dei mezzi espressivi del medium ma soprattutto del rinnovato stato d'animo del suo autore, a conferma di quanto questo franchise rappresenti, in realtà, un vero e proprio processo di esteriorizzazione del percorso interiore di quest'ultimo. Attraverso i canoni dell'arte che meglio conosce e apprezza, l'animazione a base di robottoni e battaglie per il destino dell'umanità, Anno ha raccontato per anni la propria, personalissima, storia di uomo alle prese con la più machiavellica delle malattie, la depressione, e la tendenza all'isolamento che colpisce chi ne è affetto. Shinji Ikari, ancora una volta alle prese con la sua cronica incapacità di rapportarsi con il mondo esterno, con le altre persone e con la sofferenza che, inevitabilmente, vivere davvero può comportare, incarna ancora una volta le fatiche del suo creatore, stavolta con un cortocircuito metanarrativo ancor più esasperato rispetto a quello già molto potente del lungometraggio summenzionato. In questo caso, infatti, i creatori in questione sono due: oltre al regista è impossibile non fare riferimento anche a Gendo, mai come in questo caso sviscerato in ogni recesso del suo io tormentato e sconvolto dal trauma della perdita dell'amata consorte, l'unico essere umano che avesse scalfito la sua impenetrabile solitudine. Attraverso una lunga sequenza ambientata in una dimensione onirica, che trascende persino la quarta parete, padre e figlio riescono finalmente a dialogare a cuore aperto, rivelando la comune propensione all'isolamento e, di conseguenza, a un'esistenza così egoisticamente autoreferenziale da non poterla neanche definire vita a tutti gli effetti. Con una presa di coscienza ancor più esplicita rispetto a quella vista in passato, è proprio l'adolescente a rompere il guscio in cui entrambi vivono, scegliendo la strada più tortuosa dell'apertura verso l'esterno, il perdono verso gli errori propri e del genitore, accettando quella verità finora negata, ossia che persino una vita costellata di momenti dolorosi vale la pena di essere vissuta, così da godere anche delle gioie che si alternano a questi. 

Una svolta tanto ottimistica rispetto al costante nichilismo che avvolgeva la saga, quanto ben orchestrata nel corso della tetralogia e del suo ultimo capitolo, rendendola razionalmente coerente con l'iter narratologico ma, soprattutto, emotivamente appagante come raramente accade dinanzi a uno schermo, probabilmente anche per merito dell'aura di sincerità resa possibile solamente dall'autobiografismo impressogli dall'autore.

A cotanta potenza narrativa, capace di resistere anche agli acciacchi dovuti allo strabordare di nuove informazioni che infarcisce alcuni segmenti della pellicola, si abbina una forma raffinatissima, capace di mescolare ogni possibile tecnica figurativa per esaltare l'azione sfrenata dei combattimenti tra robot, l'idillio momentaneo durante la permanenza a Villaggio-3, l'incontro-scontro emotivo e psicologico tra gli Ikari e il preziosissimo finale, in cui animazione analogica, cgi, riprese live action e bozzetti disegnati a mano si mescolano senza soluzione di continuità. Un pastiche postmoderno che riesce a non eccedere mai nel semplice, seppur apprezzabile, esibizionismo estetico, a dimostrazione dell'avvenuta maturazione di Anno non solo in quanto uomo, bensì come regista e narratore per immagini.

Shinji/Hideaki è diventato un adulto autoconsapevole a tutti gli effetti, in grado di apprezzare le soddisfazioni che il mondo può regalargli e di resistere agli altrettanti colpi che gli infligge, proprio come quel pubblico che nell'arco di più di venti anni ha capito, attraverso questo straordinario racconto transmediale, che chiudersi in se stessi è il peggior torto che un essere umano possa fare a se stesso. Aprirsi al mondo è ciò che può salvarci davvero, persino se questo significa mettere da parte un universo che abbiamo amato tanto come quello di Evangelion.

venerdì 13 agosto 2021

HIGH LIFE: ALLA SCOPERTA DELL'ESSENZA UMANA TRA LE STELLE

Spesso il grande cinema di genere dietro gli schemi fissi ben riconoscibili dal pubblico di riferimento, situazioni archetipiche e personaggi con ruoli definiti fin dal principio nasconde analisi della realtà e dell'essere umano sottili e coraggiose, libere da ogni freno inibitore proprio perché celate tra le maglie di elementi confortanti dinanzi agli occhi dello spettatore. Tali ambizioni sociologiche o filosofiche spesso risultano maggiormente esposte nel caso della fantascienza, grazie anche all'esempio di maestri del passato come Godard o Tarkovskij. Alla sempre più numerosa pletora della cosiddetta sci-fi sociologica può essere accostato anche High Life (2018), prima incursione in questo particolare genere da parte della cineasta francese Claire Denis. Distribuito in Italia soltanto nel 2020, il film è accolto dal plauso quasi unanime della critica, al punto da finire in varie classifiche dei migliori lavori dell'anno, ma con maggiore scetticismo dal pubblico, a conferma di un trend non molto positivo per questo tipo di pellicole da una decina di anni.

La pellicola, attraverso continui salti temporali, segue la stentata sopravvivenza su una navicella spaziale da parte di Monte (Robert Pattinson), ergastolano che si è sottoposto come volontario a una spedizione interstellare alla ricerca di fonti energetiche nei pressi di un buco nero. Durante l'avvicinamento alla meta il gruppo di ex detenuti, formato da quattro uomini e altrettante donne, viene sottoposto a un esperimento per la nascita di un bambino capace di sopravvivere alle radiazioni spaziali dalla dottoressa Dibs (Juliette Binoche). Soltanto dal seme di Monte nasce una bambina con tali caratteristiche, che finirà per rappresentare l'unica compagna di viaggio del protagonista alla morte del resto dell'equipaggio.

Nonostante il pedigree prettamente "art house" che ne contraddistingue la filmografia, Claire Denis filma un'opera che non nasconde assolutamente i numerosi punti di riferimento provenienti dal genere di riferimento. High Life, sia nella forma che nello sviluppo del racconto, evidenzia molti punti in comune con i più celebri esponenti della fantascienza sociologica ma anche con lungometraggi maggiormente pop: la struttura narrativa, il montaggio spesso vicino quello delle attrazioni e la cura per le inquadrature non possono che ricordare Solaris (Andrej Tarkovskij, 1972) ma, al contempo, l'idea di un gruppo di ergastolani costretti a convivere nello spazio da una singolare alternativa alla detenzione carceraria è molto vicina all'Alien 3 (1992) disconosciuto da David Fincher. A ben vedere con quest'ultimo i punti in comune aumentano ancora se si pensa all'importanza, in entrambi i film, rappresentata dalle implicazioni morali della sessualità. Nel terzo capitolo della saga inaugurata da Ridley Scott l'arrivo tra i detenuti, tutti maschi, di Ellen Ripley rompe un equilibrio decennale in maniera non così dissimile rispetto all'intervento mortale dello xenomorfo, innescando un evidente paragone tra la ferocia irrazionale dell'alieno e la bestialità in cui precipitano i prigionieri non appena i loro pruriti più essenziali vengono stimolati. Un mix di Eros e Thanatos innescato dalla convinzione che, venute a mancare le rigide sbarre della società civile, l'uomo sia naturalmente portato a buttare via qualsiasi convinzione morale pur di soddisfare i propri appetiti.

Esattamente la medesima situazione in cui incappano i soggetti dell'esperimento indetto da Dibs, la cui ossessione per la dialettica piacere/morte viene esemplificata, senza alcuna parola, dalla sequenza della sex box. Stimolati anche da una diffusa dipendenza da farmaci, incoraggiata dalla stessa dottoressa, ben presto l'iniziale stabilità viene infranta dal crescente desiderio dei detenuti di sopraffare l'altro, usando il sesso come arma. In un modo o nell'altro ogni cosmonauta viene ucciso da questo irrazionale desiderio, confermando una visione della pulsione sessuale difficilmente separabile dalla volontà di imporre il proprio potere sul prossimo. A fare eccezione, non a caso, e a sopravvivere è unicamente Monte, che rifiuta di masturbarsi per l'esperimento di fecondazione e la cui astinenza viene interrotta solamente dallo stupro subito proprio dalla scienziata. 

Nonostante sia dunque nata da una violenza, Willow (Scarlett Lindsey) diventa l'unico interlocutore umano per il protagonista e anche il motivo per non gettare anche la propria vita. Attraverso sequenze legate tra loro soprattutto per intuizioni emozionali, come quella in cui l'uomo insegna alla piccola a camminare, Denis inizia a far emergere anche una pars costruens del proprio discorso filosofico sulla natura più profonda della condizione umana. Attraverso riflessioni singolarmente vicine alla saga di anime fantascientifica per eccellenza, Gundam (Yoshiyuki Tomino, Hajime Yatate, 1979-), l'autrice sembra suggerire che, al netto degli istinti bestiali dimostrati dalla maggioranza degli umani liberi dalle leggi della società, forse tra le stelle, lontani dalle imposizioni dell'esistenza frenata dalla gravità, gli uomini possono scoprire lati di sé imprevisti e tornare a sperare in un futuro più radioso e conciliante. L'atto di fede finale, con i suoi richiami a Interstellar (Christopher Nolan, 2014) sembra proprio confermare che, privato del peso della vita terrestre, persino un assassino può scoprire l'amore per una figlia mai desiderata e affidare la propria vita alle sue irrazionali sensazioni.

mercoledì 11 agosto 2021

ONCE: RINASCERE ATTRAVERSO LA MUSICA

Parlare dello strettissimo rapporto tra cinema e musica ci porterebbe fino all'alba della sua nascita, a quelle prime immagini in movimento, prive di suono ma accompagnate sempre da qualche tipo di commento musicale, che fosse eseguito dal vivo o registrato. Prima ancora che la narrazione diventasse un elemento fondamentale del medium le melodie erano già presenti, dando vita a un connubio oggi vivo più che mai. Quante volte abbiamo visto anche registi dedicarsi alla musica o, viceversa, musicisti passare davanti o dietro la cinepresa? Quest'ultimo è il caso di John Carney, ex bassista che trova la propria vocazione più autentica nella settima arte, senza dimenticare mai il proprio passato. Non a caso il film che lo consacra alla ribalta internazionale vede la musica come suo cuore pulsante: Once, diretto nel 2006. Girato a bassissimo costo, con un gran numero di attori non professionisti, il lungometraggio si rivela un successo di pubblico e di critica, arrivando a competere persino ai Golden Globe e agli Academy Awards, dove si aggiudica la statuetta per la miglior canzone originale.

La pellicola, ambientata tra le strade di una Dublino ancora lontana dal suo recente boom economico, mette in scena l'incontro, del tutto fortuito, tra uno squattrinato musicista di strada (Glen Hansard), che per vivere ripara aspirapolveri con il padre, e una ragazza madre ceca (Markéta Irglova). Parlando della comune passione per la musica e iniziando anche a comporre delle canzoni insieme i due si avvicinano sempre più, fino a registrare, insieme ad altri musicisti ambulanti, un demo con i pezzi composti insieme.

Il chiaro punto di partenza per la narrazione di Once è la commedia romantica ma, come sanno i registi più fini, la forza dei generi si situa negli ampi spazi di manovra che i loro tratti più riconoscibili lasciano al singolo autore. Poche coordinate ben definite e una miriade di possibili declinazioni di tutto il resto. Carney, in questo caso, libera il canovaccio della romcom dall'alone glamour tipico delle sue versioni più hollywoodiane, focalizzandosi sui ceti più popolari di una città tutt'altro che modaiola e scegliendo due protagonisti assolutamente comuni, al punto da non dargli neanche un nome. Dei veri e propri avatar in cui milioni di spettatori possano trasferire il proprio vissuto, i propri sentimenti e la propria condizione di individui qualunque, né ricchi, né belli quanto lo star del cinema americano mainstream. Persino gli interpreti non sono realmente professionisti, bensì perlopiù cantanti o musicisti, sottolineando in tal senso le linee-guida dell'opera: musica e realismo. Ad accentuare quest'ultimo è, senza alcun dubbio, un registro formale costantemente votato alla sottrazione. Sfruttando quasi unicamente l'illuminazione naturale, ambienti non ricostruiti in studio e macchina a mano, la pellicola assume i contorni di un lavoro documentaristico, come conferma anche la tendenza della cinepresa a seguire i protagonisti alla stregua di quanto farebbe un reporter sul fronte per un documentario bellico. Tutto ciò inevitabilmente incrementa il coinvolgimento emotivo del pubblico nei confronti del crescente feeling tra i personaggi principali, quasi come se stesse spiando attraverso il buco della serratura i primi vagiti di una storia d'amore.

Una storia d'amore che non avrebbe alcun principio e che non risulterebbe tanto coinvolgente per il fruitore se non fosse per l'altro elemento cardine: la musica. Non solo i due si conoscono e iniziano a interagire per merito di questa comune passione ma entrambi scoprono di portare delle ferite, che sembrano poter essere lenite soltanto dalle sette note. Le delusioni, i cuori spezzati e gli stenti economici divengono semplice e impercettibile sottofondo quando la chitarra di lui e il piano di lei si incontrano e danno vita a una danza magica, capace di trasformare tutto il dolore in bellissime composizioni, sincere nella propria emotività almeno quanto le interpretazioni dei due non-attori e i sentimenti che i personaggi cominciano a provare l'uno per l'altro. Pur evitando deleteri spoiler per chi non avesse visto il lungometraggio, è fondamentale sottolineare, da questo punto di vista, quanto per Carney conti proprio la forza guaritrice dell'arte, l'incredibile sortilegio con cui convince due esistenze ormai rassegnate al grigiore a credere nuovamente nei rispettivi sogni, in ciò che li rendeva vivi prima dell'ennesimo schiaffo ricevuto dalla vita.

Come ribadito anche nel successivo Tutto può cambiare (Begin Again, 2013) qualche volta l'amore dura soltanto una manciata di istanti ma quello per la musica, per l'arte in genere, può cambiare completamente le prospettive di una vita intera, salvandoci dall'abisso in cui spesso i colpi del destino sembrano averci seppelliti.

sabato 7 agosto 2021

PERSONAL SHOPPER: I FANTASMI DEL MONDO 2.0

Formatosi all'interno della critica prima di passare dietro la macchina da presa; Olivier Assayas ha sempre flirtato con il mondo dei generi, sebbene abbia frequentato assiduamente i festival più "arthouse" e ripudiato ogni facile etichetta legata allo stile o a topoi narrativi. Nel 2016 dirige, però, quella che è probabilmente la sua opera più vicina al genere per eccellenza del cinema popolare, ossia l'horror: Personal Shopper. Presentato al Festival di Cannes, il lungometraggio divide nettamente spettatori e addetti ai lavori, con sonori fischi alla prima proiezione da una parte e il premio per la miglior regia dall'altra. Un'accoglienza bifronte quanto mai adatta all'opera e adesso scopriremo perché.


La pellicola si districa attraverso le solitarie giornate di Maureen (Kristen Stewart), divisa tra il lavoro come assistente in materie di shopping per una top model e le proprie capacità medianiche, che tanta di sfruttare per mettersi in contatto con il gemello defunto, a causa di una malformazione cardiaca che condivide proprio con la sorella. A complicare ulteriormente la connivenza tra queste due parti della vita della protagonista contribuisce la comparsa di un anonimo interlocutore, che, tramite messaggi sul cellulare, perseguita la donna e la incoraggia a seguire i suoi istinti più nascosti.


Fin dalla soprastante breve sinossi è possibile evincere l'evanescenza della narrazione di Personal Shopper, caratteristica peraltro che risulta tra i temi centrali dell'opera in toto. Assayas dissemina il racconto di tracce, possibili punti di partenza per trame tipicamente di genere, come la ghost story d'ispirazione asiatica delle prime sequenze o il thriller tecnologico legato allo stalking del misterioso autore degli sms. Persino a livello di atmosfere, costruzione della tensione e scelta delle inquadrature tutto sembra presagire una chiara svolta in una di queste direzioni: i lunghi piani sequenza con suadenti movimenti di macchina nelle scene in cui Maureen cerca di contattare il fratello ricordano puntualmente la fase più horror di Kiyoshi Kurosawa o Ring (1998) di Hideo Nakata, mentre la staticità successiva sembra ammiccare a lavori che sperimentano con la tensione degli schermi quali Searching (Aneesh Chaganty, 2018) o Unfriended (Levan Gabriadze, 2014).
La svolta, pero, resta sempre soltanto accennata, potenziale e il racconto sceglie di conseguenza di non scegliere, in totale aderenza con la propria protagonista. grazie anche a una interpretazione flemmatica di Kristen Stewart, sempre più a suo agio con cineasti in grado di dirigere davvero il suo talento, ogni singola azione della donna delinea un emblematico riflesso della condizione di assoluta incorporeità dell'essere umano contemporaneo. Continuamente sospesa tra un lavoro di totale mancanza di contatto umano e l'altro, tra un mondo dei vivi a cui partecipa solo tramite comunicazioni a distanza e quello dei morti a cui non crede neanche fino in fondo, la personal shopper che dà il titolo al film risulta forse un fantasma ben più autentico anche delle inquietanti e sparute apparizioni sullo sfondo di alcune inquadrature e a renderla tale non è certo l'abituale repertorio che lo spettatore ha imparato a conoscere tramite decenni di horror a tema soprannaturale. L'incorporeità, la fugacità dell'esistenza di Maureen nasce in primo luogo da una incapacità di rapportarsi con gli altri esseri umani attraverso la fisicità, la presenza e la relazione diretta: gli unici momenti in cui dialoga con esseri umani presenti fisicamente dinanzi a lei riesce soltanto ad accennare frasi di circostanza e la sua mimica tradisce un disagio più marcato rispetto anche a quello provato nei riguardi degli strani messaggi che riceve sul cellulare. Un disagio che vive in realtà anche con il proprio io, arrivando spesso a chiedersi, in maniera più o meno esplicita, chi sia davvero. Emblematico di tale assenza di autodeterminazione è la trasgressione che la protagonista si concede indossando, di nascosto, gli abiti della propria datrice di lavoro e con cui arriva fino a masturbarsi. Un impeto di Eros e Thanatos esasperato non solo dallo scambio d'identità provocato dall'utilizzo di beni altrui, ma anche dalla successiva scoperta della morte di quest'ultima, come se il desiderio sostituirla avesse preso forma dopo aver aleggiato nell'universo astratto dell'Iperuranio platonico.


Con Personal Shopper Assayas realizza, in conclusione, una pellicola tanto sfuggente nella propria identità quanto la sua protagonista, che, in un'attualizzazione dei concetti del gotico al mondo della tecnologia imperante in cui viviamo oggi, materializza la propria incapacità di relazionarsi con se stessa e il mondo fisico tramite gli spettri. Gli stessi spettri in cui la solitudine esistenziale contemporanea sta trasformando tutti noi, a maggior ragione dopo una pandemia che ci ha reclusi per più di un anno nelle bare costituite dalle nostre abitazioni.

venerdì 6 agosto 2021

RITRATTO DELLA GIOVANE IN FIAMME: UTOPIA FEMMINILE SU TELA

La stagione cinematografica del 2019 è stata dominata, quantomeno per ciò che concerne festival e premi della critica, a quasi ogni latitudine da Parasite (Bong Joon-ho, 2019), arrivato persino a strappare le più importanti statuette ai titoli americani nel corso della notte degli Oscar. Prima del trionfo in terra statunitense il film sudcoreano aveva ricevuto anche la Palma d'oro, dando il via proprio a quella ascesa mondiale appena menzionata. Alla suddetta rassegna francese però anche un'altra pellicole ottiene un consenso pressoché unanime e ben due premi, quello per la miglior sceneggiatura e la Queer Palm: mi riferisco a Ritratto della giovane in fiamme (Portrait de la jeune fille en feu, 2019), scritto e diretto da Céline Sciamma. Un plauso universale che permette all'opera di finire nella lista delle migliori dell'anno redatte da tantissime testate, certificando un successo certamente meno popolare del trionfatore agli Academy ma altrettanto olistico.

La pellicola, ambientata nella Francia del XVIII secolo, all'indomani della rivoluzione, mette in scena l'incontro tra Marianne (Noémie Merlant), pittrice chiamata a ritrarre di nascosto la coetanea Héloise (Adèle Haenel) per conto della madre (Valeria Golino), contessa che, per esigenze economiche e il precedente suicidio dell'altra figlia, ha costretto la ragazza a lasciare il convento in vista di un matrimonio di convenienza con un uomo di Milano. Dopo un primo periodo di convivenza piuttosto teso, culminato nella distruzione del primo ritratto, le due donne, con il sostegno dell'inserviente Sophie (Luàna Bajrami), si avvicinano sempre più, fino a innamorarsi perdutamente, pur sapendo che al ritorno della contessa da un viaggio di alcuni giorni questa relazione è destinata a concludersi.

L'amore proibito è un tema senza alcun dubbio ricorrente nel cinema contemporaneo, sempre più, per fortuna, disinibito nel raccontare rapporti che travalichino gli stereotipi comuni e un repertorio etico che necessita di abbandonare la tendenza all'esclusione di qualunque forma di minoranza. Quanto un argomento diventa così diffuso è inevitabile che a sancire la riuscita della trattazione risulta la qualità dell'opera e il coraggio di usare strumenti personali per affrontarlo, proprio come accade con Ritratto della giovane in fiamme. L'incipit, che crea una cornice posteriore cronologicamente alla love story cuore pulsante dell'opera, mette subito in chiaro le coordinate attraverso cui Sciamma intende scandagliare una relazione esterna alla morale comune: dialettica continua con un ben preciso momento storico per l'Occidente e filtro artistico.

La scelta della seconda metà del Settecento, oltretutto in Francia, inevitabilmente richiama alla mente l'incombente rivoluzione, così come le già ben radicate, almeno all'interno dell'élite culturale, idee illuministe, portatrici di laicismo e rinnovato spirito tollerante nei confronti dei costumi. Un parallelo piuttosto evidente con le vicende di stretta attualità, con i paesi europei ancora divisi tra una porzione di popolazione quanto mai aperta al completo riconoscimento dei diritti di comunità discriminate da secoli e una lieve maggioranza silenziosa ancora troppo ancorata ai modelli culturali imposti dalla tradizione cattolica. All'interno di tale opposizione si muovono destini, aspirazioni, affetti e umori di un gruppo che di minoritario in realtà non ha proprio nulla, le donne. Trattate come pedine per strategie economiche, costrette a spostarsi da una reclusione all'altra e persino a sottoporsi volontariamente a decisioni dolorose, in senso sia fisico che psicologico, solamente dai capricci maschili. Questo è l'orizzonte a cui lo spettatore viene messo dinanzi nel corso della pellicola, spesso anche con scelte estetiche dotate di una certa brutalità, come ben esemplifica la sequenza dell'aborto di Sophie e quella presenza di un bambino al suo fianco che strania con un contrasto tanto sincero quanto crudele. A rompere gli schemi di questo universo patriarcale è la partenza della contessa, che nel film assume dunque un ruolo estremamente ambivalente, assimilabile a quello di Bernarda Alba all'interno della celebre drammaturgia composta da Federico Garcia Lorca, dove è proprio una autoritaria figura femminile a fare le veci dell'autorità maschile. Il personaggio interpretato da Valeria Golino lascia, d'altro canto, trasparire anche attraverso alcune sfumature di dialoghi ed espressioni facciali tutto il dolore per una condizione che gli è stata imposta in maniera del tutto simile a quanto accaduto alla figlia. Un dettaglio che le dona un velo malinconico equiparabile a quello sui volti delle due protagoniste negli anni successivi al loro incontro. In assenza della padrona di casa la triste residenza, orfana anche dell'ultimo baluardo patriarcale, si trasforma per circa una settimana in una sorta di repubblica utopica completamente femminile, priva delle convenzioni sociali rigidamente imposte del protocollo del tempo e del potere degli uomini. Marianne ed Héloise, il cui nome non a caso richiama l'eroina del romanzo filosofico di Rousseau, possono finalmente vivere il proprio amore in libertà, scoprire la bellezza dei loro corpi e delle emozioni che scaturiscono dal contatto con la persona amata e persino una banale partita a carte con la terza donna della casa assume i toni di un'occasione di liberazione e felicità mai esperita. La storia, purtroppo, ci dice da secoli che ogni utopia è destinata a vita breve e quindi anche in questo il sogno d'amore delle due giovani donne somiglia a una di quelle utopie socialiste ed egalitarie relegate all'oblio dai grandi eventi e dall'ingordigia dei centri di potere.

Già nelle righe antecedenti ho accennato ad alcuni riferimenti letterari presenti nel film ma è ogni sua singola inquadratura a rappresentare un inno alla potenza dell'arte come espressione dell'io più autentico dell'individuo, a partire persino dai titoli di testa, realizzati in forma di pennellate su uno sfondo bianco. Le lunghissime inquadrature, spesso prive di movimenti di macchina, assottigliano la discrepanza con il mondo della pittura, già centrale per motivi diegetici, e l'uso di un'illuminazione in gran parte affidata ai raggi del sole o a specifiche fonti immerse nel buio intensificano l'impianto pittorico della messinscena. Una sequenza in particolare, quella del piccolo falò con altre donne del luogo che ispira anche il quadro che dà il titolo al film, con i suoi contrasti cromatici tra il rosso e il giallo del fuoco e la completa oscurità circostante citano con grande dovizia di particolari alcune opere di Francisco Goya, un maestro non solo dei giochi di luce ma anche del loro uso espressivo per dare voce a frange della società solitamente escluse dall'arte accademica. Una scelta estetica che permea l'intero corso del lungometraggio e che non si limita semplicemente ad appagare la vista e l'erudizione del pubblico, bensì esalta un'idea di arte come più pura e inarrestabile forma di ribellione nei confronti delle ingiustizie e delle convenzioni sociali: le rivoluzioni, come quella giacobina, esplodono e nel giro di mesi o anni muoiono, le sommosse vengono spesso soffocate nel sangue ma un atto di sfida al potere costituito degli uomini come un ritratto di famiglia con un dettaglio legato all'amore per un'altra donna non potrà mai perdere il proprio valore libertario. Uno di quei tanti piccolo dettagli che rendono Ritratto della giovane in fiamme un trionfo della potenza di ogni forma d'arte nell'affermare noi stessi, a dispetto di qualsivoglia forma di controllo che tarpa le ali dei nostri sentimenti.

lunedì 2 agosto 2021

SOUND OF METAL: UNA PRIVAZIONE CHE PROFUMA DI LIBERAZIONE

Dopo un principio all'insegna di una qualità spesso tendente al mediocre, l'universo dei film prodotti dai giganti dello streaming si è reso protagonista di un netto salto in avanti, spesso connesso anche al richiamo nei confronti di cineasti già affermati o di esordienti attratti dalla possibilità di ricevere più libertà creativa. A questo secondo gruppo pertiene Darius Marder, che dirige il suo primo lungometraggio per Amazon dal titolo Sound of Metal (2019). In realtà il regista è già un nome discretamente affermato a Hollywood, specialmente dopo aver firmato la sceneggiatura di Come un tuono (The Place Beyond the Pines, Derek Ciafrance, 2012), ma è proprio il passaggio alla regia a regalargli un enorme successo di critica, con numerose candidature prestigiose e l'inclusione dell'opera in molte liste dei migliori film dell'anno.

La pellicola segue la repentina perdita dell'udito da parte di Ruben (Riz Ahmed), batterista del duo di rock sperimentale Blackgammon, che condivide con la compagna e vocalist Lou (Olivia Cooke). Non essendo più in grado di continuare il tour con la band, l'uomo cerca un modo per riacquisire il senso deteriorato, scoprendo però di non potersi permettere un costoso impianto acustico. Come alternativa all'intervento chirurgico il protagonista, ex tossico, viene indirizzato dal suo vecchio sponsor a una comunità per sordi, che ha lo scopo di aiutare ad accettare e convivere con tale condizione, a patto di rinunciare ai rapporti con gli affetti esterni.

Nato come progetto, peraltro estremamente legato al proprio personale vissuto, del già citato Ciafrance, Sound of Metal condivide molte scelte tematiche e formali con Blue Valentine (2010), probabilmente il titolo più noto nella filmografia del cineasta originario del Colorado. Nonostante il passato da sceneggiatore, Marder dirige un lungometraggio in cui lo script funziona principalmente come un canovaccio da commedia dell'arte, in cui gran parte della drammaturgia viene affidata alle performance attoriali e, in questo caso, alle scelte di regia, tutt'altro che limitate ai classici schemi hollywoodiani. Ricorrendo abbondantemente alla camera in spalla, il director esordiente segue costantemente, soprattutto alle spalle, Ruben, donando al film, unitamente alla completa rinuncia a qualsivoglia musica extradiegetica, uno stile documentaristico molto simile a quello del lavoro con Ryan Gosling e Michelle Williams. Nella pellicola in analisi, però, la decisione di mantenere un registro antispettacolare tradisce la volontà di rendere il pubblico emotivamente e sensorialmente partecipe della nuova condizione con cui si trova a convivere il protagonista, quasi come se ogni singolo fruitore si trovasse accanto a lui e dentro la sua testa.

In questo senso diventa fondamentale il lavoro svolto in sede di sound design: l'alternanza tra suoni ovattati e lunghi silenzi, atti a rappresentare la soggettività dell'ex batterista, con i rumori e le voci riprese con estrema chiarezza nel momento in cui la macchina da presa si allontana da quest'ultimo enfatizza da un lato la distanza che intercorre tra percezione soggettiva e oggettiva, dall'altro la solitudine, la bolla in cui finisce per trovarsi un uomo privato di uno dei cinque sensi. Ancor peggiore risulta questa privazione quando a subirla è un musicista, che letteralmente fa dell'udito, delle vibrazioni e della melodia la propria ragion d'essere. Senza più questo scopo, Ruben è costretto a reinventare se stesso e il proprio rapporto con l'esistenza stessa, osservando persino la relazione con la donna della sua vita da una distanza che ne modifica irrimediabilmente le coordinate.

Tutto ciò avrebbe avuto tutt'altro impatto emotivo senza la strepitosa prova attorica di Riz Ahmed, che, oltre a suonare in prima persona la batteria durante le sequenze musicali, dona un'umanità vivida, delicata e brutale al tempo stesso a un personaggio che trova nella perdita dell'udito una sorta di ultimatum ad affrontare finalmente la questione relativa al proprio posto nel mondo. Sound of Metal, difatti, non si limita a dipingere, senza scadere nel patetismo, il rapporto tra singolo individuo e società dinanzi alla diversità, bensì mette in scena la maturazione, il processo di disintossicazione nei confronti di un mondo divenuto fin troppo caotico e rumoroso, persino per l'amore.