sabato 7 agosto 2021

PERSONAL SHOPPER: I FANTASMI DEL MONDO 2.0

Formatosi all'interno della critica prima di passare dietro la macchina da presa; Olivier Assayas ha sempre flirtato con il mondo dei generi, sebbene abbia frequentato assiduamente i festival più "arthouse" e ripudiato ogni facile etichetta legata allo stile o a topoi narrativi. Nel 2016 dirige, però, quella che è probabilmente la sua opera più vicina al genere per eccellenza del cinema popolare, ossia l'horror: Personal Shopper. Presentato al Festival di Cannes, il lungometraggio divide nettamente spettatori e addetti ai lavori, con sonori fischi alla prima proiezione da una parte e il premio per la miglior regia dall'altra. Un'accoglienza bifronte quanto mai adatta all'opera e adesso scopriremo perché.


La pellicola si districa attraverso le solitarie giornate di Maureen (Kristen Stewart), divisa tra il lavoro come assistente in materie di shopping per una top model e le proprie capacità medianiche, che tanta di sfruttare per mettersi in contatto con il gemello defunto, a causa di una malformazione cardiaca che condivide proprio con la sorella. A complicare ulteriormente la connivenza tra queste due parti della vita della protagonista contribuisce la comparsa di un anonimo interlocutore, che, tramite messaggi sul cellulare, perseguita la donna e la incoraggia a seguire i suoi istinti più nascosti.


Fin dalla soprastante breve sinossi è possibile evincere l'evanescenza della narrazione di Personal Shopper, caratteristica peraltro che risulta tra i temi centrali dell'opera in toto. Assayas dissemina il racconto di tracce, possibili punti di partenza per trame tipicamente di genere, come la ghost story d'ispirazione asiatica delle prime sequenze o il thriller tecnologico legato allo stalking del misterioso autore degli sms. Persino a livello di atmosfere, costruzione della tensione e scelta delle inquadrature tutto sembra presagire una chiara svolta in una di queste direzioni: i lunghi piani sequenza con suadenti movimenti di macchina nelle scene in cui Maureen cerca di contattare il fratello ricordano puntualmente la fase più horror di Kiyoshi Kurosawa o Ring (1998) di Hideo Nakata, mentre la staticità successiva sembra ammiccare a lavori che sperimentano con la tensione degli schermi quali Searching (Aneesh Chaganty, 2018) o Unfriended (Levan Gabriadze, 2014).
La svolta, pero, resta sempre soltanto accennata, potenziale e il racconto sceglie di conseguenza di non scegliere, in totale aderenza con la propria protagonista. grazie anche a una interpretazione flemmatica di Kristen Stewart, sempre più a suo agio con cineasti in grado di dirigere davvero il suo talento, ogni singola azione della donna delinea un emblematico riflesso della condizione di assoluta incorporeità dell'essere umano contemporaneo. Continuamente sospesa tra un lavoro di totale mancanza di contatto umano e l'altro, tra un mondo dei vivi a cui partecipa solo tramite comunicazioni a distanza e quello dei morti a cui non crede neanche fino in fondo, la personal shopper che dà il titolo al film risulta forse un fantasma ben più autentico anche delle inquietanti e sparute apparizioni sullo sfondo di alcune inquadrature e a renderla tale non è certo l'abituale repertorio che lo spettatore ha imparato a conoscere tramite decenni di horror a tema soprannaturale. L'incorporeità, la fugacità dell'esistenza di Maureen nasce in primo luogo da una incapacità di rapportarsi con gli altri esseri umani attraverso la fisicità, la presenza e la relazione diretta: gli unici momenti in cui dialoga con esseri umani presenti fisicamente dinanzi a lei riesce soltanto ad accennare frasi di circostanza e la sua mimica tradisce un disagio più marcato rispetto anche a quello provato nei riguardi degli strani messaggi che riceve sul cellulare. Un disagio che vive in realtà anche con il proprio io, arrivando spesso a chiedersi, in maniera più o meno esplicita, chi sia davvero. Emblematico di tale assenza di autodeterminazione è la trasgressione che la protagonista si concede indossando, di nascosto, gli abiti della propria datrice di lavoro e con cui arriva fino a masturbarsi. Un impeto di Eros e Thanatos esasperato non solo dallo scambio d'identità provocato dall'utilizzo di beni altrui, ma anche dalla successiva scoperta della morte di quest'ultima, come se il desiderio sostituirla avesse preso forma dopo aver aleggiato nell'universo astratto dell'Iperuranio platonico.


Con Personal Shopper Assayas realizza, in conclusione, una pellicola tanto sfuggente nella propria identità quanto la sua protagonista, che, in un'attualizzazione dei concetti del gotico al mondo della tecnologia imperante in cui viviamo oggi, materializza la propria incapacità di relazionarsi con se stessa e il mondo fisico tramite gli spettri. Gli stessi spettri in cui la solitudine esistenziale contemporanea sta trasformando tutti noi, a maggior ragione dopo una pandemia che ci ha reclusi per più di un anno nelle bare costituite dalle nostre abitazioni.

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