martedì 27 agosto 2019

SULLY: EROE UMANO CONTRO IL DISPOTISMO DIGITALE

Nella mente di molti, sia appassionati che giornalisti, un biopic tra le mani di Clint Eastwood equivale a un pamphlet di americanismo e retorica conservatrice, per non dire fascista, a causa delle sua tutt'altro che velata antipatia nei confronti dei democratici. Tralasciando la miopia, per non dire stupidità, che può portare qualunque persona sana di mente ad affibbiare l'appellativo di fascista a un uomo che ha girato uno dei più sensazionali manifesti antirazzisti nella storia del cinema (Gran Torino, 2008), basterebbe la visione di Sully per smentire l'idea accennata qualche riga fa. Diretto dall'ex star di Il buono, il brutto, il cattivo (Sergio Leone, 1966), il film in questione ha in realtà conquistato quasi all'unanimità la critica di tutto il mondo e incassato grandi cifre anche al box office, confermando come, al netto delle polemiche, il cinema eastwoodiano continui a fare breccia in ogni tipo di spettatore.

La pellicola racconta le vicende immediatamente successive al miracoloso atterraggio di emergenza effettuato dal pilota di linea Chesley Sullenberger (Tom Hanks) sul fiume Hudson nel 2009. Acclamato dai media e dalle persone comuni per aver salvato tutti i passeggeri del volo, il capitano viene però messo sotto inchiesta dall'ente aeronautico statunitense poiché, secondo i simulatori e i dati forniti dagli ingegneri, la rischiosissima manovra da lui effettuata sarebbe potuta essere evitata, in favore di un meno azzardato atterraggio su una delle piste vicine. Il copilota Skiles (Aaron Eckhart), così come sua moglie o i tanti cittadini che incontra per le strade di New York, sono convinti che Sully abbia svolto egregiamente il proprio compito ma egli stesso inizia a vacillare dinanzi alle accuse e allo shock provocato dall'incidente.

Da decenni ormai Eastwood, complice anche la sua carriera da attore, riflette attraverso il suo cinema sulla figura dell'eroe, caposaldo del classicismo hollywoodiano ma soprattutto di tutta la cultura americana, e Sully non fa eccezione. Come nelle pellicole precedenti, il cineasta di San Francisco rielabora la visione prettamente individualista dell'epica statunitense e dunque dell'eroe solitario depauperandola di ogni mitizzazione aristocratica, di ogni aura sacrale: l'Odisseo, il John Wayne estwoodiano è in primis un uomo comune, un working class hero, citando John Lennon, che si caratterizza in primis proprio per l'etica del lavoro, qualunque tipo di mansione egli svolga. Attraverso opere come Gli spietati (Unforgiven, 1992), Flags of Our Fathers (2006) e American Sniper (2014) l'autore aveva già decostruito i principali miti costitutivi USA, ossia quello del cowboy e quello del soldato, ma è con la pellicola in analisi che offre la pars construens della sua riflessione. Il pilota interpretato magistralmente da Tom Hanks, già affermatosi in precedenza come emblema dell'uomo qualunque, soffre nel corso di tutto il film un disagio causato non solo dalle accuse ricevute o dal ricordo del disastro al quale è scampato ma, in prima istanza, dall'essere ritenuto un eroe senza avere niente di ciò che per un americano lo rende tale. Per l'esperto capitano ciò che ha fatto rientra semplicemente nei propri doveri di cittadino facente parte di una comunità e di lavoratore onesto, dedito alla propria mansione come lo è un fedele dinanzi al proprio Dio. Sully per Eastwood rappresenta dunque una sorta di novello Enea, eroe non della forza come Achille o dell'eros come Giasone, bensì della pietas, del rispetto verso i suoi oneri. Questo è il vero eroe secondo il regista di Mystic River (2003).
Come la fiaba ci insegna a ogni eroe si contrappone un antagonista, un ostacolo da superare perché possa tornare a vivere una situazione di equilibrio. Quasi sempre nella filmografia dell'autore californiano il "nemico" assume le sembianze di un rappresentante della legge o delle istituzioni in genere e anche in questo caso il director resta fedele alla propria poetica. Se la stragrande maggioranza dei cittadini, compresi quelli che effettivamente si trovavano a bordo dell'aereo, vedono in Sully un esempio da seguire, un uomo che avuto la prontezza e la capacità di fare la cosa giusta in una situazione di emergenza, l'ente aeronautico e alcuni giornalisti insinuano il dubbio che in realtà l'uomo abbia solo avuto fortuna dopo aver sbagliato manovra e, anzi, proprio l'NTSB pare non limitarsi a delle indagini di routine ma sembra voler incriminare a tutti i costi il capitano. Da dove nasce la sicurezza di quest'ultima circa la colpevolezza del pilota? Dai dati ottenuti attraverso i simulatori. Ecco che in questo modo la contrapposizione classica nel cinema di Eastwood tra eroe solitario e legge ingiusta assume i toni anche della dialettica uomo vs macchina, istinto vs calcolo matematico, mondo reale vs digitale. In un mondo sempre più votato alla disumanizzazione in favore della digitalizzazione di qualunque oggetto, momento o ambito, compreso il cinema, l'eroe ricorda a coloro che insinuano la sua colpevolezza come sia impossibile cogliere la realtà immanente, fisica, potremmo dire analogica, senza considerare proprio il fattore umano. Fallibilità, incertezze, senso di responsabilità, esperienza accumulata sono tutti ingredienti che nessuna macchina o aggregazione di bit può riprodurre. Compito dell'eroe eastwoodiano è dunque anche quello di svelare l'artificio dietro ai simulacri che investono le nostre esistenze ventiquattro ore su ventiquattro e in ogni luogo. A salvare più di centocinquanta persone da morte certa non è stato un dispositivo digitale ma l'azione in sinergia di un manipolo di uomini dediti al proprio lavoro e alla comunità in cui vivono, la perfetta coordinazione di piloti, assistenti di volo, passeggeri, soccorritori ecc.

Con Sully per la prima volta dopo anni di terrore un aereo che subisce un incidente a New York diventa un simbolo di vita e di speranza, all'insegna di un'umanità che non può essere soppiantata dai simulacri digitali, non a caso protagonisti invece di quell'11 settembre in cui gli aeroplani furono veicoli di morte e della conseguente tensione generale.

venerdì 23 agosto 2019

SUBWAY: EMARGINATI E SINCRETISMO NEL CUORE (CINEMATOGRAFICO) DI LUC BESSON

C'era una volta un regista francese che, in barba ai luoghi comuni, tentò di conquistare il mondo del cinema importando nel proprio paese e nella sua cultura il modello statunitense, a partire dall'aderenza ai generi popolari fino ad arrivare alla creazione di una vera e propria major, l'EuropaCorp. Ovviamente questo cineasta è Luc Besson, produttore instancabile, autore di uno dei film più amati dalle hipster italiane ma del quale raramente si ricordano i lavori precedenti alla coppia di successi strepitosi formata da Léon (1994) e Il quinto elemento (Le Quincième Élément, 1997). Tralasciando il discorso riguardante il coraggio che ha permesso a un europeo di allestire una società di produzione realmente assimilabile al modello industriale americano, oggi mi preme riportare a galla uno dei suoi primi lungometraggi, Subway, girato nel 1985, campione di incassi in Francia e vincitore di tre premi César.

Ambientata quasi interamente all'interno di una metropolitana, la pellicola ruota attorno alla fuga dalla polizia di Fred (Christopher Lambert), reo del furto di alcuni documenti compromettenti dalla cassaforte di Héléna (Isabelle Adjani), moglie di un ricco quanto pericoloso uomo d'affari. Tra il ladro e la vittima del reato si crea una certa attrazione ma i tutori della legge e i killer assoldati dal marito di Helena si avvicinano sempre di più al protagonista, nonostante il supporto trovato negli uomini che vivono all'interno della metropolitana.

Subway, mettendo in secondo piano la natura sperimentale del precedente Le Dernier Combat (1983), introduce alcuni elementi che diverranno poi centrali sia nella poetica che nello stile di Besson, dimostrando una natura estremamente personale rispetto al cinema francese del tempo, sebbene alcuni critici tendando ad assimilarlo ai lavori coevi di Leos Carax e Jean-Jacques Beinex. La sequenza d'apertura, un lungo inseguimento in auto dal ritmo sincopato che tende a ricalcare quello della musica rock che fuoriesce dallo stereo di Fred, è il biglietto da visita con cui il cineasta parigino intende mostrare la sua idea della settima arte, tutta improntata al sincretismo tra la tradizione transalpina e quella statunitense. Proprio il car chase e l'utilizzo del rock sia come commento musicale extradiegetico che intradiegetico sono elementi attinti in pieno dalla New Hollywood, così come il ricorso al jump cut e l'atipica love story che nasce tra il protagonista e la sua "vittima" riportano alla mente il Godard del periodo Nouvelle Vague. Proprio come l'autore de Il disprezzo (Le Mépris, 1963), Besson ambienta la sua storia in un presente e in un luogo aderenti al reale, in cui ogni spettatore può riconoscere elementi del proprio vissuto quotidiano, ma che presenta avvenimenti tutt'altro che ordinari. Se in Godard la riflessione sul cinema è totalizzante, onnipresente ed estesa a ogni sua componente, nel lavoro in analisi l'aspetto metacinematografico riguarda nella fattispecie proprio il bagaglio di tradizioni a cui attingere e l'ibridazione dei generi: è impossibile non leggere il film come una singolare sintesi tra musical e thriller, con la romance e la detection che si intersecano continuamente, anche a livello visuale, fino all'ambiguo finale, in cui finalmente i due protagonisti si dichiarano il proprio amore ma al contempo sembrerebbe che Fred sia sul punto di morire, colpito a morte da un killer a pagamento mentre la band che ha plasmato suona la sua canzone. I percorsi narratologici di entrambi i generi vengono dunque rispettati, fino però a convergere in un epilogo ibrido e velatamente ironico, con quella risata finale di Lambert, in sincrono quasi perfetto con la fine del brano musicale, che sembra quasi uno sberleffo del regista verso una lettura forzatamente seriosa dell'opera.
In questi termini si potrebbe pensare a Subway come una sorta di divertissement postmoderno ma, proprio tramite anche i riferimenti metacinematografici, emergono con forza alcuni dei temi che poi saranno al centro della poetica dell'autore di Nikita (1990). Nel momento in cui l'azione, dopo la prima sequenza, si sposta definitivamente nella metropolitana appare evidente come il director voglia mostrare al pubblico un microcosmo popolato unicamente da outsider, reietti della società che ne creano una parallela tra gli anfratti e le tante gallerie destinate ai treni. Personaggi come il pattinatore o il fioraio vivono sì di espedienti tutt'altro che legali ma, allo stesso tempo, emanano una vitalità straordinaria e agiscono secondo un codice morale che li avvicina molto di più alla gioventù alternativa che porterà alla caduta del muro di Berlino che non a dei veri criminali. L'emblema di questa corrispondenza è la band capitanata dal bassista interpretato dal compositore Éric Serra, un gruppo eterogeneo di individui ai margini di quella società benpensante (simboleggiata dal marito di Héléne e dai suoi amici) della quale non condividono né lo stile di vita, né l'abbigliamento o l'etica individualistica. Persino i poliziotti che tentano di catturarli vengono ritenuti dei completi incapaci dal resto della popolazione e dunque si trovano a difendere la legge senza alcun aiuto dai cittadini, i quali sembrano spesso persino incapaci di notare la loro presenza. 

Subway risulta dunque un tassello fondamentale per comprendere il cinema di un autore come Luc Besson ma, prima di tutto, un film estremamente personale e intriso di amore, per la settima arte e per una gioventù scapestrata che rinnega l'individualismo capitalista dei genitori. Un film ambientato in una realtà ben riconoscibile ma anche atemporale e priva di alcun riferimento a luoghi precisi, come in un mondo fiabesco che l'autore francese porterà alle sue estreme conseguenze in Angel-A del 2005.

giovedì 15 agosto 2019

ALITA - ANGELO DELLA BATTAGLIA: QUANDO LA TECNOLOGIA DIVENTA MAGIA

Per quasi vent'anni James Cameron, non esattamente un mestierante qualsiasi, ha cullato il sogno di trasformare in un lungometraggio live-action il manga sci-fi Alita l'angelo della battaglia (1990-1995) di Yukito Kishiro, nel quale aveva evidentemente visto molte delle ossessioni che affollano la sua poetica e che, non a caso, hanno ispirato anche il serial Dark Angel (2000-2002), creato dallo stesso autore canadese insieme a Charles H. Eglee. Dopo tanti ripensamenti, cambi di programma e slittamenti il 2019 ha finalmente portato alla luce Alita - Angelo della battaglia (Alita: Battle Angel), ideato interamente da Cameron in quanto sceneggiatore e produttore della pellicola ma diretto da Robert Rodriguez, scelto in queste vesti per la sua esperienza con il digitale e per l'ottimo riscontro ricevute dalle modifiche apportate allo script dal cineasta messicano. Concepito come il primo capitolo di una saga, il film si rivela il maggiore incasso nella carriera di Rodriguez con più di quattrocento milioni di dollari al botteghino mondiale. Una cifra enorme ma che potrebbe, purtroppo, non garantire il proseguimento del franchise a causa degli altissimi costi di produzione.

La pellicola, ambientata in un distopico futuro che, in seguito a una passata guerra, vede uomini e cyborg vivere insieme per la maggior parte nella Città di Ferro, vede come protagonista proprio un cyborg dalle fattezze di una adolescente ribattezzata Alita (Rosa Salazar) dal dottor Dyson (Christoph Waltz), che la trova all'interno di una discarica priva di gran parte del corpo. La ragazza, rimessa ins esto dal medico, non ricorda nulla del proprio passato ma inizia a scoprire la propria indole guerriera nel momento in cui aiuta il padre putativo in una delle sue ronde da cacciatore di taglie (figura chiamata Braccatore nell'universo del film), sconfiggendo facilmente il temibile Grewishka (Jackie Earle Haley). Nel tentativo di conoscere se stessa Alita si avvicina sempre di più a Hugo (Keenan Johnson), giovane meccanico che, a insaputa della protagonista, rapisce e priva di parti del corpo i cyborg per conto di Vector (Mahershala Ali), gangster del luogo e amante di Chiren (Jennifer Connelly), ex moglie di Dyson.

Sebbene Alita - Angelo della battaglia introduca nelle sue due ore molti spunti tematici e un variegato cosmo di personaggi, atti anche a essere approfonditi negli eventuali seguiti, appare chiaro fin dalla prima sequenza come il suo cuore sia tutto riposto nella dialettica tra corpo e macchina, umanità e tecnologia, guscio e contenuto. Chiunque sia abbastanza avvezzo al cinema di Cameron sa che la riflessione su questo rapporto tra organico e meccanico è ciò che muove tutte le sue opere, persino i documentari girati per la televisione, e dunque appare chiara la paternità da parte del canadese anche di questo progetto. Attraverso il connubio tra una stereoscopia quasi invisibile, agli antipodi di quella potentissima vista in Avatar (James Cameron, 2009), e una CGI così fotorealistica da permettere la presenza di una protagonista completamente realizzata in performance capture senza che stoni con i personaggi in carne e ossa, la pellicola riesce a rendere vivo e incredibilmente interessante un mondo futuro nel quale convivono (ancora la dialettica umano-meccanico) esseri completamente organici, cyborg e persone con innesti cibernetici più o meno invadenti. Sebbene la separazione, sia fisica che sociale, tra la Città di Ferro e Zalem, l'ultima città volante rimasta dopo la guerra e nella quale vive solo l'élite, richiami molto da vicino altre pellicole fantascientifiche come, in particolare, Elysium (Neill Blomkamp, 2013), la conformazione multietnica, plurilinguistica ed eterogenea anche dal punto di vista socio-economico rende molto originale la metropoli nella quale vivono Alita e gli altri personaggi, in parte riconducibile alla Los Angeles di Blade Runner (Ridley Scott, 1982), si distingue anche per l'architettura che unisce la sci-fi logora della saga di Star Wars agli edifici delle città mesoamericane

L'intera composizione etnica e socio-culturale dell'ambiente nel quale si svolge la pellicola richiama, in realtà, le megalopoli statunitensi e messicane popolate da quei latinoamericani che sono sempre stati al centro del cinema di Rodriguez. L'autore di Machete (2010) non si limita infatti a vivere all'ombra di Cameron, bensì modifica lo script per adattarlo ai temi che gli stanno a cuore, tra cui proprio la lotta di classe delle minoranze etniche, e anche al proprio stile post-rivoluzione digitale, come dimostrano le spettacolari quanto brutali sequenze d'azione, in cui, alla faccia delle restrizioni del PG-13, non mancano teste mozzate, corpi tagliati a metà e altri momenti sanguinolenti tipici del cineasta messicano. Certo non si finisce mai nei territori dello splatter visti in Planet Terror (2007) ma bisogna tenere a mente che Rodriguez è anche un regista affascinato dalle dinamiche genitori-figli (si pensi alla saga di Spy Kids) che emergono dal rapporto tra Alita e Dyson; una sorta di rilettura in versione cyberpunk di quello tra creatore-creatura e poi, appunto, padre-figlio che lega Geppetto e Pinocchio. Proprio l'elemento della fiaba convive con le riflessioni antropologiche prima citate e il romanzo di formazione della giovane protagonista, rinvigorendo ancora una volta quella dialettica tra tecnologia e umanità alla base del cinema di Cameron e di questo film. Potremmo dunque inserire Alita- Angelo della battaglia all'interno di quella fase della filmografia del canadese che, a partire da Titanic (1997), porta agli estremi la tecnologia cinematografica e la riflessione su di essa per ricreare nello spettatore quel senso di meraviglia che soltanto la magia, la prestidigitazione sa creare dello spettatore. La stessa magia che regna nel mondo della fiaba, persino quando l'eroe diventa la principessa in pericolo e il cavaliere il personaggio da salvare dal male.

martedì 13 agosto 2019

RIDE: RIMEDIAZIONE MADE IN ITALY

All'interno del rinvigorito cinema di genere di matrice italiana che caratterizza la nostra (non)industria cinematografica il duo composto da Fabio Guaglione e Fabio Resinaro occupa senza alcun dubbio un ruolo centrale. Sebbene il loro Mine (2016) sia una co-produzione internazionale, girata in inglese, la paternità italiana non può essere negata e il buon riscontro ricevuto ha permesso ai due di occuparsi di una variegata serie di progetti, tra cui Ride, lungometraggio diretto dall'esordiente Jacopo Rondinelli ma scritto e prodotto dai due Fabio nel 2018. Proprio come per il film con Armie Hammer la critica nostrana ha premiato l'esordio di Rondinelli con ottime recensioni, totalmente giustificate a mio avviso, come scoprirete tra qualche riga.

Protagonisti assoluti della pellicola sono gli amici fraterni Kyle (Ludovic Hughes) e Max (Lorenzo Richelmy), uniti dalla passione per gli sport estremi (filmano e pubblicano su YouTube le proprie imprese) ma estremamente diversi di carattere: il primo è sposato e ha una figlia mentre l'altro vive costantemente sul filo del rasoio a causa di debiti di gioco. Proprio gli ultimatum violenti di un creditore e il bisogno di denaro per la famiglia di Kyle spingono i due ad accettare di partecipare a una misteriosa corsa organizzata da Black Babylon, organizzazione sconosciuta persino al web. Il fatto che la coppia venga letteralmente rapita con la forza e portata in una location segreta è la prima avvisaglia di un gioco che diventerà letale.

Rivelare oltre del tessuto narrativo di Ride sarebbe un vero delitto, data la crescente complessità dell'intreccio e i numerosi colpi di scena, resi ancora più inaspettati dalla iniziale struttura a metà tra il film di genere asciutto e l'high concept nello stile de Lo squalo (Jaws, Steven Spielberg, 1975). Il fatto che la trama sia stata ampliata da un fumetto testimonia non solo questa stratificazione narratologica ma, soprattutto, la natura prettamente ipertestuale e transmediale dell'opera. L'idea di utilizzare per le riprese action cam, droni e videocamere di sorveglianza è il primo e più forte indizio della centralità della rimediazione all'interno del progetto di Fabio&Fabio e di Rondinelli, specialmente perché non vi è alcuna presunzione di proporre immagini amatoriali rimontate per l'occasione come accade nel filone del mockumentary, con il quale condivide appunto il solo rifiuto di cineprese tradizionali e la vena horror. Tramite le GoPro montate sui caschi degli attori o sulle bici si crea un cortocircuito linguistico e diegetico tra l'adrenalina tipica del cinema action, lo stile delle riprese dei video amatoriali caricati sul web e il confine tra profilmico e non, dato che gli stessi protagonisti sono acrobati che postano su YouTube le loro imprese in cerca di fama. Questo assottigliamento della barriera tra diegesi e non ottenuta tramite un connubio estremamente riuscito tra narrazione e messinscena porta da un lato lo spettatore a riflettere su tematiche chiaramente attuali come la spasmodica ricerca della celebrità sul web, persino a rischio della vita propria o altrui, ma dall'altro anche a un rapporto empatico maggiore tra lo spettatore e le vicende a cui assiste, portandolo a vivere l'esperienza di adrenalina e terrore quasi in prima persona. Persino la struttura a livelli, sia del sadico gioco a cui partecipano Kyle e Max che del film stesso, richiama un altro medium, ossia il videogame, prendendo spunto in tal senso da puzzle film come Inception (Christopher Nolan, 2010) o Source Code (Duncan Jones, 2011), ampliando però l'identificazione con il linguaggio videoludico tramite lo spettacolo messo in piedi da Black Babylon, costellato da checkpoint sotto forma di monoliti neri che richiamano non solo il simbolo di 2001: Odissea nello spazio (2001: A Space Odyssey, Stanley Kubrick, 1968) ma anche il primo modello di Playstation 2, la console più venduta di tutti i tempi.

Ride riesce dunque a unire al suo interno linguaggi di media molto diversi (cinema, video amatoriale, videogame ecc.) in maniera personale ed estremamente funzionale a una narrazione dislocata in più opere e, cosa ancor più importante, avvincente, capace di mostrare ancora una volta la capacità dei registi italiani di fare cinema di genere di grande qualità, oltre che, in questo caso specifico, anche innovativo sul piano estetico.

giovedì 8 agosto 2019

HEREDITARY: IL MALE COME RETAGGIO DI FAMIGLIA

Da un decennio circa i critici d'oltreoceano si affannano in una specie di caccia all'horror migliore dell'anno pescando tra le produzioni indipendenti che trovano una via di sbocco verso il pubblico generalista tramite festival come il Sundance . It Follows del 2014 (regia di Robert David Mitchell) e The Witch dell'anno successivo (diretto da Robert Eggers) sono solo due esempi di questa tendenza a voler rintracciare delle vie alternative e maggiormente "autoriali" ai successi continui prodotti da Jason Blum, campioni di incassi e spesso anche accolti da recensioni positivi ma mai (o quasi) realmente considerati lavori degni di reale apprezzamento artistico. Lungi da me denigrare i due film appena citati (il primo in particolare resta per me un esordio tra i più folgoranti del terzo millennio) ma mi pare, come giustamente rilevato anche in alcuni articoli italiani, l'atteggiamento degli addetti ai lavori statunitensi una ennesima manifestazione di avversione al genere, incapace secondo loro di sfornare cinema autoriale o di valore universale solo quando tenta di rinnegare i propri topoi. Per fortuna questo pregiudizio ormai atavico ha almeno permesso a molte produzioni a basso costo di pubblicizzarsi proprio tramite campagne di marketing basate su questa pretesa di allontanamento dall'horror più commerciale e "popolare", attirando le attenzioni di quella fetta di pubblico in cerca di qualcosa di diverso e culturalmente di qualità più elevata rispetto alla media. Il risultato di questo nuovo modo di pubblicizzare l'horror è l'ottimo successo al botteghino di Hereditary, primo lungometraggio di Ari Aster, eletto da gran parte della stampa anglosassone il migliori film dell'orrore del 2018.

L'opera in questione segue le vicende della sfortunata (per usare un eufemismo) famiglia Graham, composta da Annie (Toni Collette), Steve (Gabriel Byrne) e i figli Peter e Charlie. Dopo la dipartita e il funerale della matriarca Ellen, madre di Annie, i problemi relazionali all'interno del nucleo familiare esplodono irrimediabilmente, specie dopo che in un incidente causato dal fratello la più giovane di casa perde la vita. La complicata coesistenza tra i sopravvissuti viene ulteriormente intaccata dall'entrata in scena di Joan, che spiega alla donna in lutto come mettersi in contatto con i suoi cari defunti.

Per quanto il marketing da me precedentemente descritto tenti di dipingerlo come un unicum all'interno del panorama attuale Hereditary è un horror a tutti gli effetti e anzi, come tutte le grandi opere di genere, lavora sui punti fermi del filone di appartenenza per poi ribaltarli o renderli maggiormente personali. Non solo, come evidenziato in molte recensioni, gli echi di classici quali Rosemary's Baby (Roman Polanski, 1968) o Shining (Stanley Kubrick, 1980) pervadono l'intero minutaggio della pellicola ma non mancano neanche influenza dal tanto vituperato cinema dell'orrore contemporaneo più "commerciale", come dimostra l'uso sapiente della messa a fuoco e della profondità di campo per creare momenti di enorme tensione ereditato direttamente da James Wan e dai suoi Insidious (2010) e The Conjuring (2013). Aster dimostra dunque di conoscere molto bene il genere, sia nelle sue declinazioni contemporanee che del periodo Hollywood Reinassance, ma risulta altrettanto evidente come per il giovane regista americano il suo primo lungometraggio sia anzitutto un ritratto tanto preciso quanto spietato di una famiglia disfunzionale, recuperando quel tema che già si poneva al centro dei suoi corti e mediometraggi. Prima che nel corso della seconda metà del film la escalation soprannaturale esplode definitivamente lo spettatore assiste in primis al disfacimento di quella che all'apparenza sembra una tipica famiglia borghese americana ma che, in realtà, rivela, dettaglio dopo dettaglio, conflitto irrisolto dopo conflitto irrisolto, tutta la sua fragilità. In particolare su tutte le tragedie che colpiscono Annie e i suoi figli si staglia l'ombra della malattia mentale, una sorta di retaggio che colpisce da generazioni i suoi consanguinei e che pare, fin dalle prime sequenze, affliggere anche la donna (le visioni, il sonnambulismo violento) e forse anche la piccola Charlie, le cui stranezze potrebbero però nascondere "solamente" lo spettro autistico, almeno fino alla inesorabile svolta satanica.

Come già affermato si potrebbe dire che la vena orrorifica della pellicola viene fuori, minuto dopo minuto in maniera sempre più marcata, dopo circa un'ora ma lo spettatore si trova fin dalla prima, magistrale sequenza a vivere la visione in uno stato di costante angoscia e attesa di un male che percepisce come onnipresente. Uno stato d'animo reso possibile non tanto da scelte narrative o da momenti particolarmente sanguinolenti, bensì dalla messinscena di Aster, tanto elegante quanto efficace. Lontano anni luce dalla attuale tendenza al montaggio veloce e al ritmo serrato, lo stile del cineasta statunitense è costellato da long take, campi lunghi, composizione delle inquadrature sempre ben bilanciata e silenzi asfissianti, resi ancor più inquietanti dai movimenti di macchina. Spesso il regista opta per inquadrature fisse ben più lunghe della media del genere ma quando la cinepresa si muove lo fa sempre con carrelli eleganti, quasi impercettibili per la fluidità, che spesso creano l'illusione di fungere da soggettive di qualche entità maligna che domina la vita dei Graham. A tutto ciò si aggiunge, in ultima istanza, un'attenzione verso la recitazione del cast tutt'altro che banale, portando il pubblico a una reale partecipazione emotiva con le sorti dei personaggi, in particolare per quanto concerne le tragiche figure di Annie e Peter (non a caso a scuola il ragazzo assiste a una lezione sul mito di Ifigenia).

Hereditary è certamente uno degli horror più inquietanti del decennio (e non solo forse) e una impietosa testimonianza sull'implosione della famiglia-tipo americana ma mai solamente una di queste componenti o la fredda somma di esse, come vorrebbe farci credere certa critica o il marketing susseguente. Il cinema dell'orrore ha sempre riflettuto l'humus socio-culturale dei suoi tempi e dunque l'opera prima di Ari Aster ne è l'ennesima prova.

domenica 4 agosto 2019

HELLBOY: IGNORANCE IS BLISS

Ogni volta che si parla di remake o reboot orde di "fan" si scagliano contro il nuovo in difesa del vecchio, seguendo una fantascientifica forma mentis per la quale un nuovo adattamento di una storia debba cancellare quello preesistente. Chissà cosa ne avrebbero pensato gli ateniesi che ogni anno assistevano all'ennesima versione del mito di Ifigenia o del patricidio di Oreste ai danni di Agamennone. Fatto sta che Hollywood, come ha d'altronde fatto fin dagli albori della sua centenaria storia, continua imperterrita nel riproporre personaggi o vicende già viste e amate dal pubblico e, dato che il fenomeno commerciale di maggior rilievo degli anni Dieci del terzo millennio è senza dubbio il cinecomic, il 2019 riporta sugli schermi Hellboy con l'omonimo film diretto da Neil Marshall. Ispirato a un mix di alcuni archi narrativi del fumetto partorito da Mike Mignola nel 1994, il lungometraggio si rivela immediatamente un insuccesso sia di critica che di pubblico, scontando principalmente il confronto con Hellboy (2004) ed Hellboy II: The Golden Army (2008), realizzati da quel Guillermo Del Toro che nel frattempo è divenuto (finalmente) un autore pienamente riconosciuto da qualunque tipo di fruitore filmico.

Procedendo attraverso una rivisitata formula narrativa da origin story, la pellicola mette in scena la lotta di Hellboy (David Harbour) per salvare l'Inghilterra e il mondo intero dalla minaccia causata dalla resurrezione della strega Nimue (Milla Jovovich). Per farlo il mezzo demone adottato dal leader del B.P.R.D. (una sorta di esercito che lotta in segreto contro i mostri) Trevor Buttenholm (Ian McShane) si trova a dover collaborare con Alice (Sasha Lane), una ragazza che aveva salvato da neonata dalla minaccia di un changeling e adesso dotata di grandi poteri da medium, e Ben Daimio, altro membro del B.P.R.D. estremamente in collera nei confronti delle creature sovrannaturali.

Trovo assolutamente superflui i confronti agonistici tra i diversi adattamenti di un racconto (figuriamoci quando poi parliamo di media diversi come, per esempio, romanzo e film) e dunque mi preme dire immediatamente che per apprezzare questo Hellboy è fondamentale dimenticarsi per due ore di aver visto i due lungometraggi di Del Toro perché ci troviamo dinanzi a opere completamente diverse. Senza lanciarmi in dialettiche con il fumetto d'origine, che ahimè conosco poco rispetto all'universo DC, circa la maggiore o minore aderenza allo stile di Mignola mi pare evidente come la pellicola in analisi trasudi Neil Marshall da tutti i pori (o quasi), cineasta che in comune con il messicano precedentemente citato condivide probabilmente solo la passione per il cinema di genere. Certo alcune tematiche che costituiscono le fondamenta del personaggio restano in entrambe le controparti filmiche, in primis la conflittualità con il padre di sapore adolescenziale e la sua essenza di outsider incompreso sia dagli umani che dai mostri, ma il regista inglese relega allo sfondo ogni chiave di lettura prettamente psicologica o allegorica per portare al centro dell'attenzione l'azione brutale, il gore e la variegata mole di mostri già vista su vignette. Persino la scelta di esplicare attraverso rapidi flashback gli antefatti della nascita e del rapporto tra il possente demone rosso e il genitore adottivo trova la propria ragion d'essere nell'impostazione narratologica e stilistica da vero e proprio b-movie: un vortice di azione, cambi di location, battute tutt'altro che politicamente corrette e litri di sangue che riporta alla mente il background da regista horror di Marshall e la sua passione i generi da grindhouse. Date queste premesse risulta ovvia la preminenza dello stile sulla stratificazione del racconto e dunque, come in una giostra iperviolenta, la regia dell'autore di The Descent (2005) riesce a rendere digeribili personaggi abbozzati ed ellissi piuttosto ampie grazie a sequenza di lotta tanto furiose quanto spettacolari per i movimenti di macchina, certamente aiutati dalle tecnologie digitali ma raramente visti nell'attuale panorama blockbuster, come ad esempio i notevoli long take durante i quali il protagonista uccide ben tre giganti. Proprio la CGI in realtà mostra il fianco a qualche critica a causa di un effetto visivo tutt'altro che all'altezza di quanto visto nel MCU ma, in una produzione di medio livello per gli standard hollywoodiani come questa e per la sua ostentata caratura sopra le righe, non credo che arrivi mai a inficiare sul grado di coinvolgimento dello spettatore e neanche sulla resa visiva delle sequenze stesse, anche se da un cineasta cresciuto a pane e horror low budget mi sarei aspettato un maggiore ricorso a effetti protesici o a escamotage capaci di mescolare analogico e digitale. A tal proposito la comparsa della vecchia strega Baba Yaga, resa possibile dalla performance capture di una contorsionista, risulta, proprio per l'inventivo mix di CGI e trucchi tradizionali una delle scene migliori della pellicola, portando all'apice lo spirito goliardico e genuinamente splatter della stessa.

Purtroppo difficilmente vedremo un seguito di questo Hellboy, sebbene le scene post-credit fungessero da trailer per una nuova avventura di Harbour nei panni dell'antieroe, ma anche come singolo lavoro il film resta un godevole divertissement; due ore di divertimento puro e semplice, come un pezzo heavy metal pensato esclusivamente per il mosh durante un concerto. In mezzo a tanto cinema da festival e film ad alto budget costretti a scimmiottare il metodo Feige, ben vengano i Neil Marshall che girano ancora lavori fieramente di serie b ma ricchi di personalità e di una mano immediatamente riconoscibile.

venerdì 2 agosto 2019

DOGMA: LA SATIRA FANTASY FIRMATA KEVIN SMITH

All'alba degli anni Novanta esplode all'interno di una Hollywood ormai tornata ai fasti del periodo classico il fenomeno di quello che viene definito cinema indipendente: una schiera di giovani registi, spesso privi di una formazione accademica come quella dei fautori della New Hollywood, riescono a imporsi tramite pellicole a basso costo che, tramite il passaparola e festival come il Sundance, conquistano i favori di critica e pubblico. Tra i vari Quentin Tarantino e Paul Thomas Anderson trova un suo momento di gloria anche la singolare figura di Kevin Smith, autore del cult movie Clerks, risalente al 1994. Il successo del suo esordio gli porta una grande visibilità che, dopo altri due lavori, gli permette di girare il suo film più ambizioso (anche a livello produttivo), Dogma (1999). Purtroppo le numerose e aspre polemiche scoppiate in seguito alle accuse di blasfemia da parte di varie associazioni cattoliche decreta il parziale insuccesso commerciale dell'opera. Non un vero flop in termini numerici ma sicuramente al di sotto della aspettative, tanto da poter essere considerato il primo passo verso il declino di Smith, oggi lontano dal cinema mainstream e dedito soprattutto alla regia di serie tv o alla scrittura di fumetti.

La pellicola ruota attorno al tentativo da parte di Bartlebi (Ben Affleck) e Loki (Matt Damon), due angeli caduti, di ottenere il perdono dei peccati e dunque la possibilità di tornare in paradiso attraverso l'iniziativa di indulgenza plenaria promossa da un parroco del New Jersey per attirare nuovi fedeli. Dato che la riuscita del loro piano rischia di porre fine all'intero Creato, le alte sfere angeliche affidano a un'umana, Bethany (Linda Fiorentino), l'onere di fermare la coppia, con l'aiuto di due profeti (Jay e Silent Bob, interpretati come nei precedenti lavori di Kevin Smith da Jason Mewes e il regista stesso) tutt'altro che convenzionali, il tredicesimo apostolo di Cristo Rufus (Chris Rock), la musa Serendipity (Salma Hayek) e la voce di Dio Metatron (Alan Rickman).

Bastano i primi minuti e in particolar modo l'esilarante statua del Cristo Compagnone (divenuta negli anni uno dei meme più celebri del web) per rendersi conto del carattere satirico e dissacrante di Dogma verso il cattolicesimo, così come le accuse di blasfemia siano piuttosto la dimostrazione di quanto intelligenti siano molte delle invettive di Kevin Smith. Come sottolineato in maniera cristallina da in dialogo tra Bethany e Rufus l'oggetto delle critiche, anche feroci, scagliate dal cineasta statunitense nei confronti della cristianità romana non è la fede in sé il cristianesimo in quanto tale, bensì l'istituzionalizzazione della stessa, il suo dogmatismo e le conseguenze del potere che la cieca adesione a un credo hanno comportato per l'uomo in secoli di storia. In particolare proprio il carattere umoristico e parodico della pellicola combaciano esattamente con l'attacco verso la mortificazione della vita terrena e il senso di colpa che la dottrina cattolica hanno voluto assimilare alla parola di Dio, facendo della fede in Cristo un interminabile calvario per la redenzione dei peccati propri e degli antenati, fino ai progenitori Adamo ed Eva. Un autore come Kevin Smith ovviamente non si dilunga in trattati di teologia o di storia delle religioni (ambiti di cui probabilmente non ha neanche le conoscenze necessarie) ma con le frecce migliori del suo arco, ossia ironia, cinefilia, passione sincera per i fumetti fantastici e l'ausilio di attori che conosce come fratelli, riesce ad affrontare tematiche molto delicate senza rinunciare a un racconto esilarante e appassionante in cui persino gli angeli mostrano vizi e virtù umane come gelosia, desiderio di riscatto, passione per gli alcolici o affezione per gli esseri umani.

Potendo contare su un budget ben più alto rispetto alle precedenti pellicole, l'autore di In cerca di Amy (Chasing Amy, 1997) riesce a permettersi alcuni momenti di buona spettacolarità, come quando Bartlebi li libra nel cielo con le sue ali da angelo, ma il fulcro della sua opera, così come del suo cinema in toto, resta nei dialoghi, sempre sferzanti e ricchi di citazioni cinematografiche o addirittura autoreferenziali. Postmoderno non meno del collega Tarantino, Smith non rinuncia mai ad ammiccamenti verso i capisaldi del proprio background culturale, dalla saga di Star Wars fino a I dieci comandamenti (The Ten Commandments, Cecille B. DeMille, 1956), passando per Indiana Jones e l'ultima crociata (Indiana Jones and the Last Crusade, Steven Spielberg, 1989).

Nel parlare di un film così divertente, piacevole e al tempo stesso intelligente nella sua accesa satira l'amaro dovuto alla consapevolezza che sia stato proprio questo Dogma a spalare per primo la fossa in cui è piombata la carriera cinematografica di un personaggio estroso come Kevin Smith. Sicuramente tutti gli amanti dei serial appartenenti all'Arrowverse e i lettori DC Comics saranno sicuramente soddisfatti del suo lavoro ma per me resta il rammarico di non poter vedere quest'autore alle prese con qualche blockbuster, magari proprio a tema supereroi.