Reduce da un lungometraggio di debutto accolto con entusiasmo dalla critica ma rimasto all'interno della nicchia del cinema indipendente (Moon, 2009) Duncan Jones cerca e trova la conferma nel 2011 con Source Code, ulteriore passo all'interno della fantascienza questa volta però con un budget ben più cospicuo e il cast impreziosito da divi come Jake Gyllenhaal e Vera Farmiga. La seconda fatica del figlio di David Bowie si rivela un inaspettato successo commerciale oltre che uno dei migliori film dell'anno secondo molti giornali e riviste specializzate, tanto da permettergli di azzardare l'impresa di girare il blockbuster Warcraft, tratto dall'omonima serie di videogiochi, nel 2016, una scelta che capirete non essere dettata da semplici opportunità economiche proprio attraverso l'analisi della sua seconda pellicola.
Protagonista delle vicende narrate è il pilota di elicotteri dell'esercito statunitense Colter Stevens (Jake Gyllenhaal), il quale si trova, senza sapere come o perché, si ritrova improvvisamente non più in Afghanistan bensì su di un treno diretto a Chicago in compagnia di una donna, Christina, che sembra conoscerlo come Sean, un insegnante. Dopo otto minuti il treno esplode e l'uomo si risveglia questa volta in una specie di capsula dove gli viene spiegato finalmente il motivo della sua presenza sul treno: cercare di scoprire l'identità dell'attentatore che ha fatto esplodere il mezzo di trasporto attraverso una macchina, chiamata source code, che permette di rivivere gli ultimi otto minuti di vita di una persona. Il soldato è costretto a ripetere più volte questa manciata di minuti per poter adempiere il proprio dovere ma nel frattempo cerca risposte su ciò che lo ha portato nel source code e finisce per innamorarsi perdutamente della collega di Sean.
Esattamente come il precedente film con Sam Rockwell anche Source Code utilizza i canoni di uno dei generi per eccellenza del cinema americano, la fantascienza, per affrontare l'interiorità e il rapporto con la vita dell'essere umano ma nel farlo si affida a scelte narrative e stilistiche molto differenti. Le cesure più evidenti sono la presenza di più personaggi umani rispetto all'opera prima del regista britannico e un ritmo ben più vicino a quello del thriller o dell'action, due elementi che potrebbero far pensare al tipico avvicinamento alle logiche mainstream dopo un esordio indipendente ma che sono in realtà giustificate da motivi stilistici e poetici ben più consistenti. Mentre Moon rifletteva sull'essenza stessa della condizione umana e sulla difficoltà nel rapportarsi con l'altro, rappresentate con efficacia dalla solitudine del protagonista, la pellicola successiva lascia maggiore spazio all'impatto emotivo sull'io, come dimostrano i temi dell'amore per un padre orfano del figlio e quello totalmente irrazionale per una donna non solo sconosciuta ma addirittura morta. Proprio il valore del versante irrazionale dell'uomo finisce per prendere il sopravvento, al punto da mostrare di cosa sia veramente capace il dispositivo tecnologico da cui prende il nome il film e di annullare persino la morte, o meglio la morte del corpo, che diventa un involucro privo di valore rispetto alla mente e alle emozioni, come testimonia il fatto che gran parte del film si svolga in una specie di universo parallelo formato da pochi minuti vissuti soltanto da persone fisicamente già morte e non è un caso neanche che il vero corpo di Colter appaia soltanto a pochi minuti dalla fine del film.
A rendere davvero interessante l'opera girata da Duncan Jones è la scelta di prendere in prestito da uno dei medium più effervescenti nell'arte contemporanea, il videogame, molti dei suoi stilemi per poter dare maggior potenza e significanza ai temi appena descritti: i continui viaggi nel source code effettuati dal protagonista non possono non rimandare alla struttura a livelli tipica dei videogiochi classici (ovviamente non parlo dei cosiddetti open world o sandbox come la serie Grand Theft Auto) così come il fatto che continui a ripetere la stessa situazione nel tentativo di raggiungere un determinato obiettivo. L'acquisizione di caratteri da un medium diverso, la cosiddetta rimediazione, è un fenomeno che coinvolge ormai tutte le forme d'arte e il cinema ne è un esempio lampante, eppure non è affatto comune che questi scambi avvengano in maniera completamente consapevole e soprattutto con tanta coerenza da parte di un autore, dato che il videogame è il luogo per eccellenza in cui il corpo perde la sua predominanza in favore dei processi mentali ed emotivi, cosa che lo rende il media perfetto con cui potesse ibridarsi il lungometraggio in analisi. Ai grandi meriti di Jones vanno inoltre aggiunte le prove attoriali di elevato spessore, soprattutto quella di Gyllenhaal, e l'arguzia della sceneggiatura di Ben Ripley, mentre a mio modesto parere la colonna musica resta l'unico piccolo neo a causa di una aurea mediocritas che stona con le eccellenze appena descritte.
In conclusione Source Code rappresenta senza alcun dubbio una pietra miliare di quel cinema contemporaneo forgiato dai processi di rimediazione e dagli strascichi dell'attentato alle Twin Towers ma, cosa secondo me ben più importante, un'esperienza stimolante sia intellettualmente che emotivamente, una fantascienza così umana da far restare nel cuore dello spettatore i suoi personaggi.
Piccolo satellite orbitante attorno al pianeta Cinema ma con la forte attrazione anche per le altre arti e in particolare per quelle che più segnano la nostra contemporaneità: fumetto, videogame ecc. Fondamentale per me è che chi scriva qui abbia assoluta cognizione di causa (io ad esempio possiedo una laurea triennale al DAMS e una magistrale in scienze dello spettacolo). Auguro buona lettura e buona riflessione a chiunque voglia fermarsi su questo sperduto satellite della settima arte.
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento