martedì 23 aprile 2024

REBEL MOON - PARTE 2: LA SFREGIATRICE: LA SAGA ABBRACCIA IL PURO B-MOVIE/FUMETTO PULP

A distanza di circa quattro mesi dalla distribuzione mondiale del primo capitolo, Zack Snyder torna a dividere pubblico e critica con Rebel Moon - Parte 2: La sfregiatrice (Rebel Moon - Part Two: The Scargiver, 2024), che conclude solamente una fase della space opera ideata dall'autore di 300 (2007), dato il finale ma anche l'arrivo promesso di versioni estese di entrambi i film, che certamente terranno alto l'interesse verso un franchise che al momento però non sembra scaldare il cuore neanche della fanbase più affezionata al regista. In attesa di scoprire i numeri relativi alle visualizzazioni su Netflix, difatti, la pellicola sta ricevendo una pletora di recensioni negative e quindi non è scontato che invece a livello commerciale e in generale il pubblico sia ancora interessata all'IP.


Il lungometraggio riprende le fila del racconto esattamente da dove finiva A Child of Fire, con il ritorno di Kora (Sofia Boutella) e degli altri guerrieri tra gli abitanti di Veldt per festeggiare la vittoria su Noble (Ed Skrein), senza sapere però che quest'ultimo è sopravvissuto alla battaglia ed è pronto a vendicarsi dell'affronto subito. Venuti a conoscenza dell'imminente attacco i protagonisti, guidati stavolta da un punto di vista tattico ed emotivo da un ritrovato generale Titus (Djimon Hounsou), preparano una resistenza a oltranza, che possa salvare definitivamente il villaggio dalle angherie di Mondo Madre.


Nel corso dell'analisi della Parte 1 avevo sottolineato come la narrazione mostrasse il fianco a difetti non di poco conto, come una sorta di fretta nel voler raggiungere tutti i punti focali del viaggio dell'eroe di Joseph Campbell e del modello offerto da I sette samurai (Akira Kurosawa, 1954), facendo sì che la ricercata epica finisse per essere ridimensionata, al netto di una cura per la forma di tutt'altro spessore. La sfregiatrice, d'altro canto, pur soffrendo a mio avviso di una rapidità eccessiva nel passaggio da una fase all'altra del racconto che credo sarà assente nella versione estesa, come accadeva per Batman v Superman: Dawn of Justice (Zack Snyder, 2016), può permettersi di accantonare tutta la fase espositiva della lore presente nel prequel, asciugando dunque le vicende fino a renderle ben più compatte ed essenziali però poter concedere alla forma di prendere il sopravvento. E questo fa solamente bene al film, poiché nel panorama hollywoodiano di genere pochi registi dimostrano una mano singolare, evidente e fiera della propria personalità come quella di Snyder, qui anche direttore della fotografia. Avvicinandosi maggiormente a quanto fatto con il già citato 300, il cineasta di Green Bay mette in scena stavolta un'opera puramente action, dove la ricercatezza nella composizione delle inquadrature, l'estrema leggibilità degli scontri sia con armi da fuoco, sia con quelle bianche, resa possibile anche dall'amato/odiato ralenti marchio di fabbrica del regista, e il ricorso a obiettivi analogici sulla mdp che donano fisicità anche agli effetti speciali digitali soverchiano ogni incertezza narratologica. Come spesso affermato nel corso di interviste e making-of, il director statunitense abbraccia nel corso di questo lungometraggio le proprie influenze provenienti dal fantasy muscolare di John Milius, delle illustrazioni di Frank Frazetta e di cult fumettistici quali Heavy Metal e Conan il barbaro, esaltando la carica emozionale di singoli gesti e posture per un racconto che procede tramite funzioni prettamente mitologiche e metonimiche da fumetto/b-movie pulp.


Impossibile negare le strizzate d'occhio a Kurosawa e Lucas ma il vero modello per questa seconda parte di Rebel Moon mi sembra essere il mondo del peplum, della space opera d'appendice e della mitologia in cui ogni singolo personaggio e ogni azione viene asciugata di ogni sottigliezza naturalista fino a diventare puro simbolo che dialoga con la pregressa conoscenza del pubblico di un certo immaginario visuale e narrativo, come quella sterminata serie di avventure occorse a Ercole o Maciste nel periodo d'oro del cinema vernacolare nostrano che all'indagine sociologica del coevo post-neorealismo mettevano in bella mostra la fisicità dei vari Steve Reeves e la potenza pittorica delle inquadrature, esattamente come nei tableau vivant snyderiani.


La sfregiatrice è dunque un ritorno ai livelli più alti della filmografia del regista di Watchmen? Non per me, non quando si sente eccome la mancanza di uno sceneggiatore di livello assoluto come Chris Terrio e la scelerata idea di distribuire ancora una volta prima la versione monca del film, ma queste due ore su Veldt divertono e finalmente esaltano l'importanza della forma e della personalità in un cinema contemporaneo sempre più scialbo e fordiano quando si tratta di generi popolari.

giovedì 18 aprile 2024

VENECIAFRENIA: REAZIONE A CATENA NELLA LAGUNA DI SANGUE

Sebbene non sia una superstar in Italia, né tra il grande pubblico, né tra i cinefili, Alex de la Iglesia ha un curriculum che parla da sé, specialmente per quanto concerne il cinema di genere e ha sempre flirtato con il nostro paese, come dimostra la co-produzione italiana El dìa de la bestia (1995), vincitore di ben sei premi Goya, con cui è arrivato alla ribalta internazionale. Nel 2020 il cineasta spagnolo sigla un accordo con Amazon e Sony per la realizzazione di sei pellicole horror dirette da vari colleghi conterranei. Il primo di essi, distribuito a più di un anno di distanza a causa della pandemia da COVID-19, è Veneciafrenia (2021), arrivato solamente in questi giorni in Italia attraverso RaiPlay nonostante la centralità nel progetto del Belpaese. Il film viene accolto con recensioni perlopiù positive, specialmente in patria, ma con alcune riserve da parte del pubblico, probabilmente anche a causa di aspettative non in linea con le reali intenzioni dell'opera.


Il lungometraggio segue la sfortunata vacanza a Venezia di un gruppo di amici iberici, eccitati all'idea di festeggiare l'addio al nubilato di Isa (Ingrid Garcia-Jonsson). Già all'approdo i protagonisti incontra una certa diffidenza da parte dei locali, se si esclude il gondoliere Giacomo (Enrico Lo Verso), ma la situazione assume tratti drammatici quando, in seguito a una nottata di baldoria in una festa in maschera, José (Alberto Bang), fratello di Isa, sparisce nel nulla.


Fin dai titoli di testa, così come la scelta di ambientare il film proprio in Italia, Veneciafrenia dichiara esplicitamente di ispirarsi a uno dei filoni più noti all'estero del nostro cinema, ossia il giallo all'italiana, sdoganato da maestri quali Mario Bava, Dario Argento e Sergio Martino. L'ambientazione urbana, sebbene sui generis data la natura peculiare di Venezia, la ricerca da parte dei protagonisti di capire chi sia a perseguitarli e la pressoché totale inutilità delle forze dell'ordine, sostituite nell'investigazione da un detective amatoriale come Isa, rendono palese la parentela con opere come Sei donne per l'assassino (Mario Bava, 1964) o Profondo rosso (Dario Argento, 1975), ma nonostante ciò il film viene spesso pubblicizzato come uno slasher, data la maggior fama per il pubblico odierno di questo sottogenere e la indubbia filiazione dal giallo, creando però in questo modo una disattesa rispetto alle aspettative dell'audience. Difatti de la Iglesia non segue il canovaccio delle mattanze di Jason Voorhees o Michael Myers e nonostante il gore non manchi, ciò che davvero interessa al regista spagnolo è la contrapposizione, tutta socio-politica, tra veneziani e turisti. Se all'apparenza i primi rientrano nel ruolo dei villain e i secondi in quello degli eroi, in realtà sono questi ultimi a essere connotati unicamente in negativo, sia da un punto di vista caratteriale che morale, mostrando tutte quelle derive consumistiche, ignoranti e irrispettose del turismo di massa contemporaneo, che rappresenta il vero bersaglio della critica che permea ogni singolo frame del lungometraggio. Persino Isa, che sembrerebbe assurgere da un certo punto del racconto la funzione di final girl, attraversa solo parzialmente l'evoluzione tipica delle varie Sydney Prescott o Laurie Strode e il vero "eroe" risulta essere alla fine Giacomo, che invece spicca in quanto ponte tra le istanze degli "indigeni" (i veneziani in questo caso) e la razionalità necessaria per poter coniugare l'importanza economica del turismo con quella di preservare la storia e l'ambiente precario della Serenissima.

Ecco dunque che la pellicola si avvicina, sia per struttura narrativa che per intenti politici dichiarati, proprio a quella che è considerata il trait d'union, la variatio che ha generato, in una milieu artistico-culturale molto diversa, il passaggio dal giallo allo slasher, ovvero Reazione a catena (Mario Bava, 1971). Chiamato in origine, non a caso, Ecologia del delitto e distribuito in America come Bay of Blood, l'opera baviana dava vita a un bagno di sangue mai visto fino a quel momento per mettere alla berlina l'efferatezza del consumismo nei confronti dei più elementari sentimenti umani e, soprattutto, della salvaguardia del patrimonio ambientale, esattamente come de la Iglesia ai giorni nostri, tanto da negare al pubblico il tipico showdown finale tra eroina e villain, in favore di un'uscita di scena da parte del capo della "setta" dietro gli omicidi che ha i connotati del martirio in nome di un ideale che non può certo essere considerato deviato o incomprensibile come i moventi solitamente utilizzati negli slasher statunitensi.


Veneciafrenia si rivela, in conclusione, l'ennesima operazione di riflessione, dai toni grotteschi, sul cinema di genere e sulle mostruosità del mondo attuale da parte dell'autore di Ballata dell'odio e dell'amore (Balada triste de trompeta, Alex de la Iglesia, 2010), minata solamente da una messinscena volutamente spartana in molte occasioni, a dispetto del formalismo estremo del giallo, e quella che a mio avviso è una campagna di marketing ingannevole rispetto alle reali caratteristiche del prodotto.