mercoledì 19 febbraio 2020

A BETTER TOMORROW: GENESI DELL'HEROIC BLOODSHED

Nel pieno della (a mio avviso meritatissima) Parasite-mania, grazie alla quale spero vivamente che il cinema coreano diventi finalmente un fenomeno noto non solo al cinefilo 2.0, oggi vorrei ricordare un film che ha indelebilmente segnato lo sviluppo dell'attuale cinema dell'estremo oriente e non solo: A Better Tomorrow. Diretta nel 1986, la pellicola rappresenta uno spartiacque all'interno della carriera di John Woo, fino ad allora solamente uno dei tanti registi di commedie della Hong Kong anni Ottanta, ma soprattutto una pietra miliare nel cinema di genere. Un successo di pubblico e critica che, non a caso, porta in dote due sequel e altrettanti remake.

Il lungometraggio mette in scena la tragica parabola all'interno del microcosmo criminale di Hong Kong vissuta dagli amici fraterni Ho (Ti Lung) e Mark (Chow Yun-fat). Durante quello che sarebbe dovuto essere il suo ultimo lavoro per la malavita, infatti, il primo viene tradito da Shing (Waise Lee), figlio del boss, e arrestato, mentre il compagno di tante avventure viene ferito a una gamba durante un tentativo solitario di resa dei conti con gli sgherri dello stesso Shing. Dopo tre anni di detenzione e con il forte desiderio di vivere finalmente in maniera onesta, Ho viene scarcerato ma il passato torna a bussare alla sua porta, con l'aggravante dell'odio covato nei suoi confronti dal fratello minore Kit (Leslie Cheung), poliziotto idealista che incolpa il protagonista per la morte del padre.

Uno dei caratteri che ha decretato la fortuna del cinema coreano contemporaneo, specialmente in Occidente, e in particolare del già citato Parasite (Bong Joon-ho, 2019) è certamente la commistione di generi classici all'interno della medesima opera. Un espediente non nuovo, in fondo già sperimentato tra gli anni Sessante e Settanta dalla New Hollywood, ma che trova il suo perfetto codificatore proprio in A Better Tomorrow. Pescando a piene mani dalla propria passione per il cinema europeo e dall'esperienza maturata all'interno dell'industria cinese, Woo dirige una pellicola in cui il melò e l'eroismo di Zhang Che si fondono con il polar francese e il gangster movie scorsesiano. Una rilettura postmoderna di paradigmi topici della narrazione per immagini provenienti sia da Oriente che Occidente che permettono al regista asiatico di girare finalmente un lavoro realmente personale e libero dalle pressioni di quei produttori che precedentemente gli chiedevano di sottostare a qualunque moda del momento. Per merito della comprensiva supervisione del produttore Tsui Hark (a sua volta regista) l'autore del successivo Hard Boiled (1992) mette da parte la commedia slapstick per raccontare, invece, in primis una tragedia familiare di shakespeariana ascendenza, nella quale due fratelli si trovano sulle sponde opposte di un fiume chiamato legalità. Proprio come nella tragedia più classica, in particolare quella attica, Ho vorrebbe rimediare agli errori commessi e abbandonare la malavita per venire incontro al desiderio di servire la giustizia del suo amato fratellino ma finisce per trovare sempre un ostacolo a impedire la sua redenzione. Il fato diventa anche per Woo, così come per Eschilo o per il Bardo inglese, una forza soprannaturale alla quale ogni uomo non può far altro che soccombere, al netto delle sue aspirazioni o dei suoi sforzi. Ancor più esemplare di tale dialettica tra volontà e destino è in realtà il migliore amico di Ho. Chow Yun- fat con i il suo volto fiero e i modi sferzanti interpreta magistralmente una figura ammantata di un titanismo che riporta alla mente gli eroi tragici di Vittorio Alfieri o il Prometeo di Goethe, con le loro strenue lotte contro forze ben più grandi di loro, irrimediabilmente indirizzate alla sconfitta ma comunque combattute in nome di un impeto di libertà viscerale. Lo stesso Mark, in un dialogo del film a proposito di Dio, afferma di considerare divino chiunque decida liberamente della propria vita, espletando in una manciata di battute il titanismo imprescindibile per l'idea di eroe di John Woo.

Proprio l'eroismo, centro poetico e narrativo di tutto il cinema dell'autore di Once a Thief (1991), nell'accezione estremamente personale di quest'ultimo trova la sua origine all'interno di A Better Tomorrow, così come il suo tratto stilistico più celebre: il ralenti. Potendo finalmente operare in piena libertà artistica, Woo crea un universo in cui convivono il realismo delle strade e dei neon notturni di Hong Kong e l'idealismo rappresentato dalla contrapposizione manichea tra buoni e cattivi, campioni e vigliacchi. Pur abolendo la corrispondenza perfetta polizia/bene e mafia/male, il cineasta cinese crea dei personaggi che si distinguono per caratteri etici immutabili ed esplicitamente esibiti, come nella fiaba o (guarda caso) nella tragedia classica. Ho e Mark, nonostante si guadagnino da vivere con il commercio di denaro falso, mostrano fin dalle prime sequenze di rispettare un codice morale estremamente tradizionale, contrassegnato dall'onore, l'amore per la famiglia e l'abnegazione totale verso l'amicizia, declinata in questo caso (lo sarà in tutta la filmografia di Woo in realtà) in chiave virile. Dovendo ritrarre un mondo in cui il realismo cede spesso il passo all'astrazione, il director di Hong Kong ricorre più volte all'interno dell'opera alla tecnica del ralenti come mezzo per amplificare la tensione verso quel sentimento di pietà e paura che Aristotele definisce pathos. Nell'immaginario comune è ormai arcinota la propensione alla sospensione temporale da parte di Woo all'interno delle sequenza action, come la ormai celeberrima sparatoria nel ristorante in cui Chow Yun-fat sfodera per la prima volta in carriera l'iconica coppia di pistole, ma in realtà slow-motion e fermoimmagine vengono adoperati soprattutto come sottolineatura lirica dei picchi emozionali nelle vicende umane dei protagonisti, come durante il sacrificio finale di Mark o al momento della morte del padre di Ho.

Probabilmente per qualche spettatore potrebbe risultare straniante lo smaccato patetismo con cui Woo mette in scena alcuni momenti topici delle disavventure dei suoi personaggi, eppure A Better Tomorrow ancora oggi riesce ad aprire un intero mondo per chiunque sia a digiuno di cinema di Hong Kong, così come rappresenta un punto fermo in tutta la cinematografia di genere nei paesi dell'estremo Oriente.

mercoledì 5 febbraio 2020

A QUIET PLACE: IL PESO DEL SILENZIO (IMPOSTO)

Uno degli aspetti del cinema che più continua a colpire lo spettatore è certamente la sua capacità di ribaltare gli orizzonti d'attesa. Credo che almeno il 90% degli appassionati leggendo insieme i nomi di Platinum Dunes, casa di produzione fondata da Michael Bay nota soprattutto per remake horror in gran parte dimenticabili, e John Krasinski, attore e regista coinvolto perlopiù in commedie indie, associati a una pellicola dell'orrore abbia pensato a un matrimonio tutt'altro che felice e invece i fatti hanno dimostrato che A Quiet Place (2018) è proprio una lieta sorpresa. Diretto e interpretato proprio da Krasinski, autore peraltro anche della sceneggiatura, il film è uno strepitoso successo commerciale, con più di 300 milioni di dollari incassati a fronte di una ventina di budget, capace di convincere anche la critica di tutto il mondo, tanto da guadagnarsi numerosi premi e persino una nomination agli Academy Awards (cosa piuttosto rara per una pellicola di genere).

Ambientato in un 2020 post-apocalittico, il lungometraggio segue la lotta per sopravvivere di una famiglia americana composta dai coniugi Lee (John Krasinski) ed Evelyn Abbott (Emily Blunt) e dai figli Regan e Marcus. A causa dell'improvvisa comparsa di creature aliene cieche, ma dotate di incredibile udito e di una pelle resistente come una corazza i protagonisti sono costretti a vivere in perenne silenzio, limitando più possibile qualunque tipo di suono. Alla tensione scaturita da tali condizioni si uniscono i problemi che si acuiscono tra Lee e Regan, specialmente in seguito alla morte di Cade, il più piccolo della famiglia, ucciso da uno dei mostri dopo aver azionato i rumori di un giocattolo datogli proprio dalla sorella maggiore.

I Depeche Mode cantavano il piacere del silenzio, così come gli Starsailor la sua semplicità e in un mondo in cui l'inquinamento acustico, il chiacchiericcio, spesso sterile, è ormai un basso continuo la rinuncia ai rumori potrebbe sembrare una liberazione; un atto di ribellione estrema contro la deriva mostruosa dell'azione dell'uomo sulla natura. Seguendo questa logica si potrebbe arrivare a immaginare gli spaventosi alieni di A Quiet Place, dei quali non viene rivelata l'origine e del cui sbarco sulla Terra pochissimo viene accennato, come una punizione divina nei confronti della hybris umana e dello scempio subito dal nostro pianeta. Certamente questi sottotesti tipici del filone più ecologico dell'horror, quello proliferato in seguito allo straordinario Uccelli di Alfred Hitchcock (The Birds, 1963), non sono sfuggiti a Krasinski durante l'adattamento del soggetto di Bryan Woods e Scott Beck, vista anche la pletora di citazioni di genere presenti all'interno dell'opera, ma il silenzio che mostra il regista statunitense non è solamente quello imposto dai famelici extraterrestri, ma è soprattutto quello sviluppatosi all'interno di ciò che resta della tipica famiglia occidentale. I codici di genere diventano dunque dei mezzi attraverso cui l'autore di The Hollars (2016) racconta qualcosa di ben più familiare al nostro presente e che era già al centro dei suoi precedenti lavori. Gli Abbott, in seguito agli avvenimenti tragici del prologo, si rivelano una famiglia inequivocabilmente stoica e capace nell'adattarsi alla realtà nella quale è costretta a vivere, eppure al suo interno è dilaniata da una sorta di peccato originale: la dipartita di Cade. Regan, già resa diversa dalla sordità, si trova a convivere con il senso di colpa causato dall'aver concesso, di nascosto, al fratellino il giocattolo che tanto voleva ma che ne ha poi segnato la morte, così come suo padre e sua madre sentono di non aver protetto come avrebbero dovuto il più fragile dei figli. Una situazione in cui il silenzio imposto dalle creature rende ancor più acuto il dolore e la distanza che separa i membri della famiglia, in particolare Lee e la sua secondogenita.

Come nel grande cinema di genere Krasinski plasma tutti i suoi topoi per adattarli a delle tematiche che gli sono particolarmente congeniali e non a caso nel ruolo dei due genitori si trovano proprio il regista e la bravissima Emily Blunt, sua consorte anche nella vita al di là della macchina da presa. Un ponte tra diegesi e mondo reale che permette alla coppia una resa della quotidianità alterata degli Abbott particolarmente convincente, come dimostra il lirismo della scena in cui marito e moglie improvvisano un ballo tanto dolce quanto malinconico sulle note (rigorosamente in cuffia) di Neil Young. Tale stratificato ritratto familiare risulta però così riuscito anche grazie all'efficacia con cui il cineasta americano, alla sua prima incursione nel genere, costruisce la tensione e in generale i meccanismi tipici del racconto orrorifico. Tra momenti da home invasion e richiami alle disperate fughe dallo xenomoformo viste in Alien (Ridley Scott, 1979), la pellicola cattura in primis proprio in quanto tesissimo esempio di horror contemporaneo, alla cui felice riuscita contribuiscono le splendide composizioni di Marco Beltrami e una cura per la composizione delle inquadrature che ricorda, ancora una volta, proprio Ridley Scott. 
Con un sequel che dovrebbe arrivare nelle sale quest'anno, A Quiet Place ha permesso al grande pubblico di scoprire in John Krasinski un talento che pochi avrebbero immaginato di tale livello dietro la cinepresa. Un'ulteriore prova della salute del panorama horror americano, tutt'altro che arenatosi in quel limbo di remake e reboot di cui si faceva foriera proprio la Platinum Dunes.