venerdì 6 settembre 2024

TRAP: SHYAMALAN CI RICORDA L'IMPORTANZA DELLA FORMA

Negli ultimi anni si è diffuso tra gli appassionati di cinema un certo malcontento nei confronti dell'offerta proveniente dagli Stati Uniti, accusata di adagiarsi su una mediocritas tutt'altro che aurea e una mancanza di idee che si manifesta in una lunga serie di remake, reboot, sequel, requel ecc. Quanto è singolare che in questo panorama tra i registi che più dividono vi sia M. Night Shyamalan, che nonostante una carriera ormai quasi trentennale ha sfornato solamente due sequel e porta avanti una visione filmica estremamente personale e riconoscibile. Il 2024 vede il suo ritorno alla regia con Trap, che potendo contare su un budget di medio livello può dirsi un successo commerciale ma spacca nettamente i pareri, sia degli spettatori comuni, sia della critica.


Il film vede Cooper (Josh Hartnett), pompiere e padre come tanti altri, accompagnare la figlia Riley (Ariel Donoghue) all'attesissimo concerto di Lady Raven (Saleka Shyamalan). Quello che scopre dopo una manciata di canzoni è che l'evento nasconde una trappola ordita dall'FBI per catturare il macellaio, un serial killer colpevole di più di dieci omicidi e che si cela proprio dietro il volto del protagonista.


Trap fin dal titolo mette in chiaro la connivenza tra due generi raramente accostati: il thriller di matrice hitchcockiana e il musical, in cui il commento sonoro assume la stessa importanza narrativa di quello che nel lessico operistico si definisce recitativo. Per questo motivo Shyamalan, che fin dai tempi de Il sesto senso (The Sixth Sense, 1999) aveva abbracciato la riflessione sulle possibilità dello sguardo attraverso l'uso della macchina da presa, pone una doppia sfida al pubblico, ovvero in prima istanza quella di identificarsi in piena consapevolezza con un assassino, successivamente con le figure femminili che tentano di fermarlo, tra cui una popstar. In passato già era accaduto che dei registi sfruttassero la grammatica filmica, come l'insistenza sui primi piani ad esempio, per connettere emotivamente lo spettatore con un personaggio razionalmente e moralmente ripugnante (si pensi ad Hannibal Lecter sia sul grande che sul piccolo schermo) ma l'autore di origini indiane mette alla prova l'efficacia di tali strumenti e la capacità di chi osserva di scindere tra ragione e sentimento, cervello e stomaco, esattamente come Cooper, che in una sequenza a casa sua afferma apertamente di vivere un volontario sdoppiamento tra la vita domestica e pubblica e quella del macellaio, grazie a cui riesce a mantenere un irreale equilibrio tra istinti omicidi e rispettabilità, oltre a un profondo amore verso i figli espresso fino all'ultimo. Per chi si trova dall'altra parte della quarta parete aderire al punto di vista dell'uomo significa anche sperimentare questa dialettica interiore tipica degli assassini sociopatici, una deriva estrema di un fenomeno di dissipazione dell'empatia da cui è affetta l'intera nostra contemporaneità, come diventa evidente a più riprese nella pellicola: dai commenti totalmente fuori luogo dei fan alla live sui social in cui Lady Raven chiede aiuto perché qualcuno liberi il ragazzo imprigionato da Cooper fino all'ossessione dell'addetto al merchandising per il serial killer e le sue imprese, visto alla stregua di un eroe.

La stesso distanziamento empatico vissuto tra le diverse generazioni che assistono al concerto. Un evento che, oltre a citare altri maestri della suspense ripresa in diretta come il già citato Hitchcock ma anche Brian De Palma, viene girato con il linguaggio proprio della musica dal vivo e così evidenzia la totale mancanza di sintonia e, conseguentemente, la divergenza di sguardo tra le adolescenti che vivono con sincera partecipazione il live e i genitori che le accompagnano, chiaramente distaccati emotivamente e intellettualmente da ciò che li circonda. L'insistenza della cinepresa su una moltitudine di schermi però ricontestualizza l'amato split-screen dell'autore di Omicidio in diretta (Snake Eyes, Brian De Palma, 1998) per denunciare la distanza che si crea anche tra le fan e il loro idolo, di cui non riescono realmente a percepire la dimensione umana e pertanto istintivamente posizionano costantemente un filtro tra di essi, lo stesso peraltro a cui spesso ricorrono per dare un senso maggiormente comprensibile a un reale la cui percezione viene sempre più ovattata da chi vorrebbe proteggerli nei riguardi del male che il mondo nasconde. Esattamente ciò che fa Cooper per Riley, con la sola differenza che in questo caso è il mostro dentro di sé la minaccia.


Tutto questo e molto altro in Trap non si evince attraverso interminabili conversazioni o monologhi stantii, bensì grazie a ogni singolo movimento di macchina, stacco di montaggio, sovrapposizione visivo-sonoro che Shyamalan mette in scena, ricordandoci che il cinema, come tutte le arti, è soprattutto una questione di forma espressiva e di abilità nel manipolare l'occhio del fruitore. Se non riusciamo ad apprezzare un affabulatore in grado di riportarci al senso più profondo e primigenio della rappresentazione di sé forse dovremmo interrogarci almeno quanto Cooper.

lunedì 2 settembre 2024

THE FIRST SLAM DUNK: BILDUNGSROMAN E REMAKE DA MANUALE

C'era una volta (boomer nostalgico mode on) un mondo in cui Netflix non esisteva e il panorama anime si distribuiva sui palinsesti televisivi, segnando un appuntamento orario imperdibile e irripetibile perché il bingewatching era un concetto estraneo anche alla fantascienza e chi non si sintonizzava all'orario giusto davanti a quell'ingombrante tubo catodico rischiava di perdersi la trasformazione in super saiyan di Goku o la battaglia finale tra Seiya/Pegasus e il corrotto gran sacerdote delle dodici case. In questo contesto molti come me si sono innamorati di Slam Dunk (Nobutaka Nishizawa, 1993-1996), anime a tema sportivo tratto dall'omonimo manga ideato da Takehiko Inoue tra 1990 e 1996 in cui la testa calda Hanamichi Sakuragi si unisce a un altrettanto colorito team di basket liceale arrivando a sfiorare il titolo nazionale. A distanza di quasi venti anni dalla conclusione del fumetto il suo stesso autore, dopo una gestazione quindicennale, ritorna a quell'universo narrativo che ne ha lanciato la carriera scrivendo e dirigendo The First Slam Dunk (2022), film campione di incassi in Giappone universalmente acclamato dalla critica di tutto il mondo.


La pellicola adatta per il grande schermo uno dei momenti più importanti dell'originale cartaceo, la partita del campionato nazionale tra lo Shohoku, squadra dei protagonisti, e il Sannoh, istituto superiore con una tradizione cestistica invidiata in tutto il paese. Il match viene intervallato da una serie di flashback e momenti intimi legati a tutti i giocatori del team sfavorito, con particolare attenzione però per Ryota Miyagi (Shugo Nakamura), playmaker del quale viene rivelato per la prima volta il passato tormentato dalla perdita del padre e dell'amato fratello maggiore.


Viviamo anni estremamente legati al passato , specie per alcune fasce di età, motivo per cui cinema e serialità cavalcano quest'onda sfornando una moltitudine di remake, reboot, requel, sequel spirituali e chi più ne ha, più ne metta. L'idea di questo The First Slam Dunk potrebbe far pensare all'ennesimo tentativo di guadagnare sulla nostalgia dei Millennials ma bastano i primi minuti a smentire qualunque retropensiero. Dal tratto fumettistico iconico dell'autore di Vagabond (1998-2015) la macchina da presa passa a una commistione tra animazione digitale e tradizionale capace di donare movimento e conseguentemente vita ai disegni del mangaka, superando la capacità di fedeltà nell'adattamento anche dell'anime, e al contempo rendere la partita uno spettacolo visivo quasi indistinguibile da quelli dell'NBA visti in tv, con tanto di tecniche di montaggio e inquadrature acquisite proprio da quel linguaggio. A tale riuscito mix di grammatiche provenienti da diversi media Inoue aggiunge un'ulteriore strategia atta ad arricchire il pathos e il coinvolgimento dello spettatore tramite un costante ricorso a cambi di ritmo e altre manipolazioni temporali: accelerazioni improvvise quando il cuore (non a caso citato a più riprese dai personaggi) dei protagonisti batte a velocità inusitate per la fatica e la paura di non essere all'altezza dei fortissimi avversari, bruschi rallentamenti per soffermarsi sugli stati d'animo dei personaggi e sugli eventi personali che li hanno portati a dare letteralmente tutto per quella partita.

A proposito di non sentirsi all'altezza, sentimento tipico dell'adolescenza che molti di noi hanno provato a più riprese in quegli anni, lo spettacolare match sportivo messo in scena quasi in tempo reale rappresenta a tutti gli effetti un simbolo di quei riti iniziatici che segnano il passaggio dall'infanzia all'età adulta. Sebbene ognuno dei cinque titolari dello Shohoku godano di una certa introspezione, come ad esempio Mitsui (Jus Kasama) e il suo ambivalente rapporto con la pallacanestro, il centro emozionale e strumento attraverso cui percorrere questa delicata fase dell'esistenza è Ryota. Il regista del team, che in quanto tale determina tutti i movimenti dei compagni ma per fare questo li osserva più da vicino di qualunque altro spettatore, diventa l'osservatore privilegiato di quanto accade sul parquet per noi dall'altra parte della quarta parete ma, soprattutto, il filtro soggettivo dell'intera vicenda, poiché ciò a cui assistiamo è il suo momento. Troppo basso per uno sport in cui i fuoriclasse solitamente superano i due metri, poco talentuoso, seppur dotato di velocità non comuni e grandissima tecnica di palleggio, rispetto al fratello che non c'è più, troppo immaturo per fare da supporto a madre e sorellina. Il confronto con chi non c'è più è così impari da spingere il ragazzo a scrivere una lettere, che poi getta via, in cui esordisce chiedendo scusa al genitore perché a sopravvivere è stato il figlio sbagliato. In una sola, desolante frase è racchiuso l'intero mondo di insicurezze, dolore, rabbia e incapacità di esprimere sé stessi che caratterizza l'adolescenza, ancor di più forse in quella terra di mezzo che sono stati gli anni Novanta di cui è imbevuta la creatura di Inoue, quelli del disagio esistenziale cantato da Nirvana prima e Linkin Park poi e portati su schermo da David Fincher con Fight Club (1999). In questo caso, però, la tendenza autodistruttiva del giovane, che del resto condivide anche con tutti gli altri giocatoti dello Shohoku, persino l'allegro Sakuragi pronto a fare a botte con chiunque pur di affermare la propria esistenza a un mondo che altrimenti lo ignorerebbe, non si risolve in conseguenze funeste: la comunanza tra i cinque, quel gioco di squadra che decreta la differenza tra successo e insuccesso nello sport diventa ancora di salvezza anche a livello personale, nella partita della vita in cui, qualche volta, anche degli outsider che hanno subito pugni e calci continui dal destino riescono a togliere la gloria a chi ha sempre goduto del sorriso del fato.


The First Slam Dunk è letteralmente il cerchio che si chiude per un racconto iniziato decenni fa, una generazione, l'annosa dialettica tra animazione tradizionale e digitale, le coordinate su come si possa ritornare su una propria opera passata con qualcosa di nuovo da comunicare e il passato in toto. Un Bildungsroman da manuale in ogni sua componente.

giovedì 1 agosto 2024

CONAN THE BARBARIAN: ESTETICA E PASSIONE MA EPICA NON PERVENUTA

Tra i nomi meno apprezzati (per evitare termini più forti e che neanche dovrebbero essere accostati all'arte) dai cinefili che hanno iniziato ad amare il cinema nei primi anni Duemila c'è di sicuro Marcus Nispel, reo di aver diretto principalmente reboot di classici, a loro volta in realtà fortemente osteggiati quando furono originariamente distribuiti. Mentre oggi almeno Non aprite quella porta (The Texas Chainsaw Massacre, 2003) gode di una certa rivalutazione, specie tra chi ha avuto modo di avvicinarsi a quella saga proprio tramite questo titolo, indubbiamente l'opera meno amata del regista tedesco resta Conan the Barbarian, reboot del dittico tratto dai racconti di Robert E. Howard girato in stereoscopia nel 2011. Accolto con recensioni in gran parte negative e incassi ben al di sotto delle aspettative per un blockbuster, scopriamo, con la giusta distanza critica permessa dai quasi quindici anni trascorsi, cosa riserva allo spettatore odierno.


La pellicola, ambientata nell'immaginaria era hyboriana, segue il percorso di vendetta del cimmerio Conan (Jason Momoa), guerriero che ha perso tutto il suo clan e suo padre (Ron Perlman) a causa delle mire dello spietato Khalar Zym (Stephen Lang), che utilizza qualsiasi mezzo per ottenere tutti i frammenti di una maschera dai poteri magici enormi, Per riuscire ad attirare l'odiato nemico, il protagonista salva e porta con sé la sacerdotessa Tamara (Rachel Nichols), indispensabile per utilizzare l'artefatto mistico.



Ciò che attira in prima istanza l'attenzione durante la visione di Conan the Barbarian è la scelta da parte degli sceneggiatori di modificare buona parte degli eventi che segnano l'infanzia dell'eroe hyboriano rispetto all'iconico lungometraggio diretto nel 1982 da John Milius, così da avere maggiori libertà creative e tentare allo stesso tempo di smarcarsi dal continuo e, chiaramente deleterio, confronto con lo stesso. Questo non vuol dire però che Nispel non utilizzi come riferimento l'originale letterario in cui nasce il personaggio, anzi: alcuni scorci, specie nelle panoramiche o nei campi lunghissimi, così come l'aspetto di Momoa riecheggiano con grande reverenza le illustrazioni dei racconti realizzate da Frank Frazetta, così come la caratterizzazione interiore di Conan rievocano l'aspetto più libertario e picaresco dei lavori di Howard, verso cui non mancano anche easter egg e ammiccamenti per i fan. Altrettanto apprezzabile è in generale l'impianto formale della pellicola. Se nelle precedenti fatiche di matrice horror il cineasta aveva già mostrato una notevole cura nella composizione delle inquadrature, minata in parte però da un ricorso quasi ossessivo alla macchina a mano, stavolta preme l'acceleratore sul lato più estetizzante del proprio sguardo, persino durante le concitate scene d'azione, in cui il ralenti conferisce un'ulteriore impatto e anche una leggibilità dei movimenti spesso carente nell'action contemporaneo.
Di buon livello risultano le interpretazioni del cast, a partire dal già citato Momoa, passando dai due villain principali: Stephen Lang dona una certa gravitas al suo personaggio, mentre sua figlia Marique assume tratti lascivi e persino incestuosi grazie all'apporto di drammaturgia attoriale offerto da Rose McGowan, che in tal modo spinge anche ai limiti il perbenismo americano e l'autocensura tipica delle produzioni di massa. Proprio come l'abbondanza di sangue e gore durante i combattimenti, i cui arti mozzati, teste staccate di netto e flotti di sangue, evidentemente derivanti dagli horror dai connotati splatter diretti da Nispel, sono figli certamente dei modelli di Milius e Howard e molto lontani dal mondo dei blockbuster, specialmente quelli di matrice disneyana da cui siamo sommersi oggi.
Allora come mai il film è stato un tale insuccesso ed è ancora ricordato con vergogna, persino dalla sua star? Sicuramente per un eccesso di damnatio memoriae legata al dissenso dei fan del materiale originale, ma anche per oggettivi demeriti. In primis la sceneggiatura soffre di una grande mancanza di personalità e, soprattutto di epica; difetto quest'ultimo accentuato da un ritmo eccessivamente rapido e un commento musicale davvero anonimo. In questo senso risulta impietoso il confronto con la pellicola con protagonista Arnold Schwarzenegger, che brillava proprio nella distensione del racconto, le divagazioni estetico-poetiche in bilico tra Kurosawa e il western di John Ford e la colonna musica ricca di pathos firmata Poledouris.


Conan the Barbarian è, in conclusione, un buonissimo action fantasy, un'opera esteticamente ben più pregevole della media dei blockbuster degli ultimi anni ma priva di quello che contraddistingue il nome che porta, l'epica.

mercoledì 24 luglio 2024

ABIGAIL: DAL TRAMONTO ALL'ALBA 2.0 MADE IN RADIO SILENCE

Dopo gli esordi super indie, all'insegna del mockumentary e dei film antologici, oggi il duo composto da Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett, noto anche come Radio Silence, è stabilmente sulla cresta dell'onda dell'horror mainstream grazie all'enorme successo di Scream (2022) e Scream VI (2023), tanto da potersi permettere senza battere ciglio di abbandonare la saga di Ghostface da loro rilanciata per tuffarsi in una produzione del tutto slegata da franchise: Abigail. Distribuito nel corso della primavera del 2024, il lungometraggio ottiene discreti incassi al botteghino, sebbene nettamente più bassi rispetto alle fatiche precedenti, ma con riscontri largamente positivi da parte della critica, a conferma di una carriera ormai libera anche dalla possibile etichetta di "quelli dei requel".


La pellicola segue le impreviste conseguenze del rapimento della bambina che dona il titolo alla stessa (Alisha Weir), organizzato da una banda di professionisti, assemblata dal misterioso Lambert (Giancarlo Esposito), di cui fanno parte la tossica riabilitata Joey (Melissa Barrera), l'ex poliziotto Frank (Dan Stevens), l'hacker Sammy (Kathryn Newton), il forzuto Peter (Kevin Durand) e l'autista Dean (Angus Cloud).


I Radio Silence fin dai tempi di V/H/S (diretto insieme a David Bruckner, Justin Martinez, Glenn McQuaid, Joe Swanberg, Chad Villella, Ti West e Adam Wingard nel 2012) hanno portato avanti un'idea di cinema fortemente radicata nei codici di genere e nella sovversione degli stessi in chiave ironica e talvolta persino aspramente satirica. Un atteggiamento puramente postmoderno perfettamente aderente al panorama hollywoodiano contemporaneo, dove ogni singolo film vive come una sorta di ipertesto che, o perché parte di un universo narrativo espanso o perché un sequel o reboot, richiede conoscenze pregresse allo spettatore per poterne godere in pieno ammiccamenti, connessioni o ribaltamenti teoretici. Quando si parla di cinema postmoderno non si può non pensare alla filmografia di Quentin Tarantino, divenuto simbolo stesso di una settima arte intrisa di cinefilia e in cui qualsiasi elemento sia narrativo che formale risponde al bisogno di richiamare altre opere. In particolare con Abigail Bettinelli-Olpin e Gillett compiono un'operazione che, in maniera fin troppo esplicita per essere involontaria, aggiorna al terzo millennio quanto fatto più di venti anni fa da un'altra coppia di amici, Tarantino e Robert Rodriguez, che ibridarono l'action a fondo malavitoso con l'horror sovrannaturale dando vita a Dal tramonto all'alba (From Dusk Till Dawn, 1996). Simile è l'approccio estremamente ludico e autoreferenziale sia al filone crime (o pulp come andava di moda definirlo al tempo), sia a quello orrorifico, così come l'utilizzo costante di dialoghi brillanti e l'ambiguità morale di tutti i personaggi ma chiaramente gli autori di Finché morte non ci separi (Ready or Not, 2019) sono consapevoli di parlare a un pubblico che conosce a menadito la produzione del cineasta vincitore della Palma d'oro per Pulp Fiction (Quentin Tarantino, 1994) e dunque fin dai trailer annunciano sfacciatamente il twist che nel modello di riferimento era la chiave di volta dell'intero racconto, perché ciò a cui tengono maggiormente è fornire a quello stesso pubblico un giro sulle montagne russe a base di gore, humour nero e ribaltamento dei topoi sui vampiri, specie quelli a cui sono più affezionati quei Millennials nati proprio durante il decennio dominato dal regista di Le Iene (Reservoir Dogs, 1992), dal quale peraltro deriva l'idea di una squadra di rapinatori privi di rapporti personali tra di loro e che usano pseudonimi. 


Al di là di questo apparato di citazionismo anni Novanta Abigail è difatti un inno al cinema for cinema sake, privo delle implicazioni sociali di Ready or Not o di quelle metacinematografiche di Scream, ma irresistibilmente divertente, in grado di sfruttare al meglio sia il setting da horror gotico che la verve interpretativa di un cast a pieno agio con l'orrore postmoderno. Proprio come nel cult del 1996 anche qui non ci saranno grandi sottotesti a livello tematico o innovazioni epocali per quanto concerne la forma ma se neanche un minuto dei circa 110 di cui si compone la pellicola annoiano è ovviamente merito della perizia con cui gli autori si muovono all'interno del genere che frequentano ormai da più di dieci anni e che probabilmente intendono omaggiare proprio con questo disimpegno totale e ricercato, perché come la leggerezza sarà anche una perversione, come diceva Sorrentino tramite Michael Caine in Youth (2013), ma anche una tentazione necessaria in alcuni momenti della nostra vita.

lunedì 8 luglio 2024

OMEN - LE ORIGINI DEL PRESAGIO: UN PREQUEL FINALMENTE AL PASSO CON I TEMPI

Spesso da almeno una ventina di anni gli appassionati di cinema lamentano una diffusa mancanza di idee nel panorama hollywoodiano, simboleggiata dalla propensione sempre più accentuata verso nuovi capitoli di saghe già affermate, siano essi sequel, prequel, reboot, requel e chi più ne ha, più ne metta. Come ogni stereotipo chiaramente un fondi di verità in queste affermazioni è innegabile, specie nel post-pandemia con la generale crisi della sala cinematografica, ma è altrettanto innegabile che vi siano molti esempi di opere di valore tra queste nuove iterazioni di vecchie proprietà intellettuali. A tal proposito il 2024 vede l'uscita di Omen - Le origini del presagio (The First Omen), debutto al lungometraggio di Arkasha Stevenson. Nonostante un certo scetticismo anche tra i fan dell'originale, in parte legati al dimenticabile remake risalente al 2006 (The Omen, John Moore), il film ottiene un buonissimo riscontro critico e discreti numeri al botteghino, tanto da presagire (scusate il gioco di parole) un possibile requel ambientato dopo gli avvenimenti del cult diretto da Richard Donner.



Protagonista della pellicola, ambientata nella Roma dei primi anni Settanta, è la novizia Margaret (Nell Tiger Free), che dopo aver sofferto per anni di strane allucinazioni sembra rivedere la se stessa del passato nella giovane Carlita (Nicole Sorace), la quale proprio a causa di queste visioni viene ostracizzata dalle suore che gestiscono l'orfanatrofio che ospita le due ragazze. Quelli che sembrano comportamenti vessatori dettati da pregiudizi assumono però contorni ben più inquietanti quando Margaret entra in contatto con Padre Brennan (Ralph Ineson), che le apre gli occhi su una incredibile cospirazione interna alla Chiesa.



Inserirsi all'interno di una saga ben con solidata, specialmente a distanza di decenni dal suo periodo aureo, è sempre un'impresa improba, nella quale ogni regista deve scegliere tra due indirizzi principali: uno maggiormente nostalgico e rispettoso del canone al quale si approccia, strada solitamente più battuta, e un altro, al contrario, che integra i topoi principali del franchise con una visione personale di quel materiale, come era accaduto, per esempio, nei tanti sequel di Nightmare - Dal profondo della notte (A Nightmare on Elm Street, Wes Craven, 1984). Stevenson, dopo un incipit citazionista, sia nei confronti del capostipite, sia verso L'esorcista (The Exorcist, William Friedkin, 1973), mette subito in evidenza quanto il film sia figlio di una sensibilità al genere tutta contemporanea, ponendo al centro del racconto il percorso di formazione di Margaret, che arriva a Roma sicura ormai della propria scelta di matrice religiosa, per poi attraversare una sorta di discesa negli Inferi, quanto mai letterali rispetto al viaggio dell'eroe campbelliano, attraverso cui entra in contatto con tutte quelle esperienze che portano l'adolescente a diventare realmente adulto. Il Male ma anche il desiderio sessuale, l'istinto materno, la fratellanza con i pari, il conflitto con le generazioni precedenti trasformano completamente l'io della novizia e ovviamente il suo rapporto con Dio e la Chiesa, in piena corrispondenza a quanto avviene agli stessi giovani che protestano nella Roma sessantottina che, non a caso, fa da sfondo alle vicende narrate. Anche in queste affinità elettive tra milieu e racconto specifico dei personaggi principali la regista americana dimostra di essere maggiormente legata all'horror più contemporaneo, alla lezione di autori come Eggers e Peele che hanno aggiornato storie quasi ancestrali alle istanze di un mondo profondamente cambiato rispetto ai tempi di Donner e Friedkin, dove la rabbia giovanile è ancora più attenta alle disparità sociali e politiche verso le minoranze e le donne sono sempre più consce della idiosincrasia tra i proclami di un'epoca di pari opportunità e una manifesta realtà concreta, quotidiana in cui gli uomini continuano a decidere del corpo e della mente femminile, come simboleggiato dalla maternità diabolica imposta dall'élite ecclesiastica (maschile) a donne e giovani ragazze indifese nei loro confronti, almeno fino a quando non trovano persino in questa gravidanza forzata uno strumento di reazione al patriarcato de facto.



Persino da un punto di vista formale Stevenson non si limita a girare un film competente, in cui l'orrore nasce semplicemente dalla preparazione verso jumpscare piazzati nei momenti di maggiore tensione, bensì imbastisce un'atmosfera di costante angoscia in primis emotiva ed esistenziale, a cui aggiunge una potenza immaginifica in parte figlia dei già citati Donner e Friedkin, in parte connessa a un'iconografia cristiana che fornisce all'artista più attento un campionario di figure terrificanti più che sufficientemente variegata. Interessante anche la libertà con cui la cineasta mostra, alla faccia della censura, sfacciatamente momenti di estrema violenza esibita, persino con connotati sessuali che solitamente sono quelli più allarmanti per gli studios, attenti a non spiazzare troppo il benpensante pubblico americano. Mai come in questo caso il finale aperto a nuovi sequel risulta gradito, poiché Omen - Le origini del presagio riesce nella tutt'altro che semplice impresa non solo di soddisfare l'appassionato di cinema orrorifico, bensì di mettergli voglia di ulteriori spaventi.

sabato 29 giugno 2024

THANKSGIVING: BACK TO THE 80S

Sarebbe interessante analizzare a livello saggistico la nostalgia cinematografica e tutte le ondate di registi, sceneggiatori, critici e fandom che nel corso delle decadi hanno portato riportato in auge un modo di intendere la settima arte precedente, talvolta con revival che aggiornano il passato, altre con veri e propri omaggi così filologici da rischiare di perdere qualunque presa sui fruitori meno attempati. Eli Roth fin dagli albori del terzo millennio vive costantemente in bilico tra queste prassi, alternando sintesi tra ciò che fu e ciò che è (Cabin Fever, 2002) e oggetti nati dalla pura reverenza verso le proprie fonti di ispirazione (The Green Inferno, 2013). Anche solamente da questo punto di vista risulta particolarmente interessante Thanksgiving, nato come uno dei fake trailer distribuiti insieme al dittico Grindhouse (Quentin Tarantino, Robert Rodriguez, 2007) per poi diventare un lungometraggio solamente nel 2023. Quindici anni circa di distanza che si sentono eccome, nella più positiva delle accezioni, dato che la pellicola ottiene un buon risultato al box office e recensioni estremamente positive, tanto da permettere la messa in cantiere persino di un sequel.


Il film, dopo un prologo in cui la cittadina Plymouth viene sconvolta da un incredibile incidente al centro commerciale locale durante l'annuale Black Friday, nel quale perdono la vita molte persone, segue le conseguenze dell'avvenimento per il gruppo di adolescenti guidato da Jessica (Nell Verlaque), che diventa vittima delle attenzioni sempre più violente di un killer mascherato da John Carver, che accusa i ragazzi di essere la causa di quella strage e di averne lucrato con un video virale che riprendeva lo stesso.


Fin dal titolo Thanksgiving tradisce l'intento di omaggiare quel filone di slasher proliferati tra il 1978 e il 1982 che, nel tentativo di salire sul carro degli incassi di Halloween - La notte delle streghe (Halloween, John Carpenter, 1978), aveva portato sullo schermo killer mascherati pronti a massacrare teenager durante una delle più iconiche festività americane. E non manca nessuno dei topoi di suddetto filone: omicidi truculenti basati perlopiù su armi da taglio, la final girl che corrisponde alla più coscienziosa dei protagonisti, la morte dei ragazzi più promiscui ecc. Proprio per questo evidente rapporto con il passato del genere e l'origine dal progetto Grindhouse sarebbe stato previdibile l'utilizzo da parte di Roth di quell'estetica da finto b-movie con cui era girato il trailer e invece l'autore di Hostel (2005) opta per un'estetica pienamente contemporanea, persino quando cita esplicitamente capisaldi dell'horror anni Settanta come Romero. L'incipit, difatti, oltre a fornire quel trauma passato che forma il tipico movente al killer dello slasher, riprende la metafora romeriana dei consumatori della società capitalistica visti come zombie assetati di sangue che assaltano un centro commerciale e quale occasione risulta più emblematica di questo horro vacui se non l'americanissimo Black Friday, dove la vigilia del Ringraziamento assume connotati puramente materialistici e, per l'appunto, consumistici. Il tutto viene ripreso però con un ritmo del montaggio e una pulizia dell'immagine, quasi sempre con inquadrature con profondità di campo massima, agli opposti dell'estetica quasi documentaristica di Zombi (Dawn of the Dead, George Romero, 1978) e l'introduzione di tematiche che, per ovvi motivi cronologici, erano totalmente assenti, quali l'incidenza dei social media nella vita reale delle persone e la sfrenata fame di immagini violente. Thanksgiving vive nasce dunque nel solco della parte più citazionista della filmografia di Roth per poi spostarsi, una volta divenuto lungometraggio a tutti gli effetti, nella sezione maggiormente di raccordo con la contemporaneità, tanto da non poter non notare anche i punti di contatto con slasher recenti, tra cui in particolare la serie tv Scream (Jill Blotevogel, Dan Dworkin, Jay Beattie, 2015-2019) e Auguri per la tua morte (Happy Death Day, Christopher Landon, 2017), con i quali condivide la preminenza sia estetica che tematica della rivoluzione digitale, ma anche la componente ironica ben più marcata rispetto a quanto accadeva nei primi emuli del capolavoro carpenteriano sopracitato, che caso mai risultavano spesso involontariamente comici finendo nel calderone del camp, secondo la definizione di Susan Sontag.  Di questi però il regista americano non tradisce il ricorso a effetti speciali totalmente analogici e il gusto per l'uccisione dal gore estremo e sempre più creativa, secondo una strategia narrativa e formale discendente da quel giallo all'italiana che più volte è stato considerato il padre putativo dello slasher, dove il convulso intreccio spesso fungeva soprattutto da recitativo propedeutico a legare le arie operistiche costituite appunto dagli elaboratissimi, anche a livello di inquadrature, rapporto tra immagini e musiche ecc., omicidi. L'ironia così marcata e in alcuni casi persino grossolana di matrice contemporanea però, a mio avviso, insieme a una forma molto competente ma poco personale, risulta il vero limite della pellicola, poiché trovo ormai piuttosto stucchevole l'idea presente in qualunque genere che non si possa prendere di petto il racconto senza doverlo zuccherare con una distanza critica da postmodernismo 2.0: le risate sono sempre ben accolte e in tempi così travagliati fanno sicuramente bene all'umore di tutti ma con questo spirito avremmo mai avuto un Nightmare - Dal profondo della notte (A Nightmare on Elm Street, Wes Craven, 1984) o anche un meno "vetusto" It Follows (David Robert Mitchell, 2014)?



sabato 8 giugno 2024

TANK GIRL: DISTOPIA COME RIVOLUZIONE

Rachel Talalay non è certamente un nome così conosciuto al grande pubblico, ma per gli appassionati di horror e slasher è certamente sinonimo immediato di Nightmare 6 - La fine (Freddy's Dead: The Final Nightmare, 1991), capitolo conclusivo della saga con protagonista Krueger, se si esclude il successivo standalone diretto da Wes Craven, ricordato da molti per una particolare predilezione per i toni camp e umoristici e le sequenze stereoscopiche. Quello che anche pochi cinefili non ricordano spesso, però, è il buon successo commerciale ottenuto dal film, grazie al quale la cineasta di Chicago riesce a ottenere abbastanza credibilità da trovare dei finanziamenti per un progetto tutt'altro che semplice: la trasposizione del fumetto underground Tank Girl, in un momento storico in cui sul grande schermo arrivavano dal mondo delle vignette solamente personaggi estremamente famosi come Superman, Batman o Dick Tracy. L'omonimo lungometraggio, prodotto da MGM nel 1995, si rivela però un clamoroso insuccesso al botteghino, con risultati altrettanto freddi da parte della stampa, salvo diventare nel corso degli anni un cult tra gli appassionati di comics e tra la più recente critica femminista.


La pellicola si svolge in un futuro post-apocalittico in cui gran parte della Terra è priva di risorse idriche e dunque chi controlla l'acqua può considerarsi padrone del destino del pianeta. A ciò mira lo spietato Kesslee (Malcom McDowell), che utilizza qualsiasi mezzo per accaparrarsi la zona più ricca di oro blu, ossia quella abitata dai Rippers, mutanti con tratti animaleschi. Le sue mire espansionistiche si scontreranno con la resistenza di Rebecca (Lori Petty), giovane ribelle che si allea con i Rippers stessi e Jet Girl (Naomi Watts) per fermare lo spietato magnate e salvare la sua amica Sam (Stacy Linn Ramsower).


Persino a distanza di quasi trent'anni è facile comprendere i motivi che hanno causato l'insuccesso commerciale di Tank Girl. Nel bel mezzo del periodo d'oro dei blockbuster e delle trasposizioni dal fumetto con il chiaro scopo di attirare in primis il pubblico più giovane, persino quando si parla di capolavori intergenerazionali quali Batman (Tim Burton, 1989) o il seminale Superman (Richard Donner, 1978), Talalay non solo pesca una serie ben lontana dai numeri di vendite dei supereroi DC o Marvel, bensì evita accuratamente di adattare l'opera originale a canoni maggiormente accomodanti, come fatto ad esempio da Steve Barron con Tartarughe Ninja alla riscossa (Teenage Mutant Ninja Turtles, 1990), mantenendo altresì intatta la volontà di sovvertire l'ordine costituito delle tavole create da Jamie Hewlett e Alan Martin, peraltro coinvolti massicciamente nella produzione. Ecco dunque che ritorna quel mix tra violenza, persino rivolta verso i più piccoli, e black humour già vista in Nightmare 6, il sesso da tabù diventa arma da rivolgere contro gli oppressori e l'amore può nascere nelle occasioni meno scontate, addirittura tra "specie" diverse.

Proprio il connubio tra sesso, genere e dinamiche di forza si trova al centro della riflessione che permea il film. Rebecca fin dalle prime sequenze di cui è protagonista ritorce contro gli uomini la loro insaziabile voracità predatoria di tipo sessuale, sovvertendo quell'ordine costituito prettamente patriarcale che sembra sopravvivere anche all'olocausto nucleare occorso all'universo della diegesi sceneggiata da Tedi Sarafian. La giovane punk, i cui outfit sono divenuti iconici tra la comunità di cosplayer e di fan dei fumetti in genere, non restano una semplice strizzata d'occhio al pubblico di ragazzi alternativi della cosiddetta Gen X, ma rappresentano visivamente l'intenzione sovversiva dietro la poetica di Talalay, che con un piglio anche volutamente campy nei dialoghi e nelle soluzioni estetiche (si veda per esempio il trucco dei Rippers o il ricorso a intermezzi animati) disegna un mondo in cui solamente gli emarginati e i diversi mantengono una certa dose di umanità e altruismo, mentre i WASP assurgono a simbolo del lato più meschino e crudele della società, persino quando si trova al collasso economico e culturale.



Certamente la pellicola soffre di un andamento narrativo altalenante, soprattutto nella seconda parte, e di censure che ne soffocano in parte la spinta rivoluzionaria rispetto ai topoi del cinecomic più hollywoodiano, eppure Tank Girl mantiene oggi come negli anni Novanta il fascino unico di chi sbeffeggia le regole con ironia tagliente e sa come ritrarre il desiderio di rivalsa degli outsider senza scadere nel manierismo di molta produzione attuale. Quanti registi e registe di genere dovrebbero tornare alla filmografia di Talalay per comprendere come rendere giustizia alle donne nel cinema action e sci-fi.


sabato 11 maggio 2024

THE BEAR: LA DERIVA INTERIORE CONTEMPORANEA ATTRAVERSO I FORNELLI

Tra i tanti classici del passato e una pletora di produzioni attuali dolorosamente fordiste Disney+ riserva fortunatamente alcune sorprese, tra le quali spicca The Bear, serie ideata da Christopher Storer nel 2022 per FX. Una produzione nata ben lontana dal versante più mainstream della serialità contemporanea ma in grado di trovare un riscontro favorevole sia tra il pubblico, sia tra la critica, sancito dai trionfi agli Emmy Awards e ai Golden Globes.


Protagonista dell'opera, in questo momento attesa da una terza stagione che dovrebbe essere distribuita in estate, è Carmy (Jeremy Allen White), chef stellato che riceve, inaspettatamente, in eredità, in seguito al suicidio del fratello Michael (Jon Bernthal), la paninoteca di famiglia, gestita fino a quel frangete con infinite difficoltà dall'amico d'infanzia Richie (Ebon Moss-Bachrach). Il nuovo proprietario del The Original Beef of Chicagoland cercherà, tra mille ostacoli, di trasformarlo in un vero ristorante di successo, grazie anche all'aiuto di Sydney (Ayo Edebiri), sous-chef appassionata e talentuosa.


Piccolo schermo e cucina formano un sodalizio ormai inossidabile ma nessuno prima di The Bear aveva saputo riflettere su di esso per dare vita a un prodotto di qualità e in grado di mettere in scena le coordinate emotive del nostro tempo. Storer, sceneggiatore e regista di gran parte degli episodi in entrambe le stagioni, prende in prestito un soggetto ormai ai limiti del logoro per gli spettatori, quello del cuoco da cucina gourmet che tenta di risollevare le sorti di un locale "vernacolare", ma in questo caso il milieu culinario diventa, proprio grazie alla quotidianità di cui gode sia nella vita reale del pubblico che in quella diegetica, lo strumento con cui raccontare un gruppo di personaggi simbolo del nostro presente.


Carmy, nonostante il successo ottenuto nell'ambito della cucina di caratura internazionale, vive ogni giorno soffocato da pressioni costanti e difficoltà nel rapportarsi con gli altri dopo essere cresciuto in una famiglia altamente disfunzionale, con la morte di Michael che serpeggia lungo ogni singolo episodio come un trauma mai davvero superato. Il protagonista non è però l'unico a dover affrontare fantasmi onnipresenti, anzi l'intero gruppo che lavora nel diroccato locale, vero e proprio simbolo del baratro da cui ognuno di loro cerca di uscire, si trova a fare i conti con un'esistenza perennemente sull'orlo del disfacimento, ognuno per motivi diversi ma accomunati in toto da quegli affanni del quotidiano con cui lo spettatore può identificarsi immediatamente. Magistrale da questo punto di vista è la scelta formale di mettere al centro della scena l'incessante colonna sonora (in quanto insieme di suoni e rumori come la definiva Sergio Miceli), con la pluralità di voci che si sovrappongono a un ritmo indiavolato l'una con l'altra, seguendo la lezione di maestri del cinema moderno europeo e americano quali Godard e Cassavetes che utilizzavano tale mezzo espressivo assolutamente anticlassico per donare maggiore realismo al racconto e, soprattutto, rimarcare la frenesia folle della società postcapitalista. Ancora da quella stagione della settima arte Storer eredita anche l'ampio ricorso al piano sequenza, che prevedendo l'eliminazione degli stacchi di montaggio diventa perfetto per mettere in risalto l'assenza di qualsivoglia momento di pausa, di respiro in un mondo che costringe l'individuo a una ininterrotta corsa per non finire ai margini del sistema socioeconomico. Chiaramente anche da un mero punto di vista estetico i quasi venti minuti di long take di Review, settima puntata della prima stagione, o quelli del finale della seconda stagione costituiscono pezzi di bravura da applausi a scena aperta ma la profonda connessione tra forma e poetica alla loro base rendono evidenti i motivi per cui il mondo si è innamorato di The Bear, che in questi anni in cui tutti noi rischiamo di annegare ci fa sentire meno soli.

martedì 23 aprile 2024

REBEL MOON - PARTE 2: LA SFREGIATRICE: LA SAGA ABBRACCIA IL PURO B-MOVIE/FUMETTO PULP

A distanza di circa quattro mesi dalla distribuzione mondiale del primo capitolo, Zack Snyder torna a dividere pubblico e critica con Rebel Moon - Parte 2: La sfregiatrice (Rebel Moon - Part Two: The Scargiver, 2024), che conclude solamente una fase della space opera ideata dall'autore di 300 (2007), dato il finale ma anche l'arrivo promesso di versioni estese di entrambi i film, che certamente terranno alto l'interesse verso un franchise che al momento però non sembra scaldare il cuore neanche della fanbase più affezionata al regista. In attesa di scoprire i numeri relativi alle visualizzazioni su Netflix, difatti, la pellicola sta ricevendo una pletora di recensioni negative e quindi non è scontato che invece a livello commerciale e in generale il pubblico sia ancora interessata all'IP.


Il lungometraggio riprende le fila del racconto esattamente da dove finiva A Child of Fire, con il ritorno di Kora (Sofia Boutella) e degli altri guerrieri tra gli abitanti di Veldt per festeggiare la vittoria su Noble (Ed Skrein), senza sapere però che quest'ultimo è sopravvissuto alla battaglia ed è pronto a vendicarsi dell'affronto subito. Venuti a conoscenza dell'imminente attacco i protagonisti, guidati stavolta da un punto di vista tattico ed emotivo da un ritrovato generale Titus (Djimon Hounsou), preparano una resistenza a oltranza, che possa salvare definitivamente il villaggio dalle angherie di Mondo Madre.


Nel corso dell'analisi della Parte 1 avevo sottolineato come la narrazione mostrasse il fianco a difetti non di poco conto, come una sorta di fretta nel voler raggiungere tutti i punti focali del viaggio dell'eroe di Joseph Campbell e del modello offerto da I sette samurai (Akira Kurosawa, 1954), facendo sì che la ricercata epica finisse per essere ridimensionata, al netto di una cura per la forma di tutt'altro spessore. La sfregiatrice, d'altro canto, pur soffrendo a mio avviso di una rapidità eccessiva nel passaggio da una fase all'altra del racconto che credo sarà assente nella versione estesa, come accadeva per Batman v Superman: Dawn of Justice (Zack Snyder, 2016), può permettersi di accantonare tutta la fase espositiva della lore presente nel prequel, asciugando dunque le vicende fino a renderle ben più compatte ed essenziali però poter concedere alla forma di prendere il sopravvento. E questo fa solamente bene al film, poiché nel panorama hollywoodiano di genere pochi registi dimostrano una mano singolare, evidente e fiera della propria personalità come quella di Snyder, qui anche direttore della fotografia. Avvicinandosi maggiormente a quanto fatto con il già citato 300, il cineasta di Green Bay mette in scena stavolta un'opera puramente action, dove la ricercatezza nella composizione delle inquadrature, l'estrema leggibilità degli scontri sia con armi da fuoco, sia con quelle bianche, resa possibile anche dall'amato/odiato ralenti marchio di fabbrica del regista, e il ricorso a obiettivi analogici sulla mdp che donano fisicità anche agli effetti speciali digitali soverchiano ogni incertezza narratologica. Come spesso affermato nel corso di interviste e making-of, il director statunitense abbraccia nel corso di questo lungometraggio le proprie influenze provenienti dal fantasy muscolare di John Milius, delle illustrazioni di Frank Frazetta e di cult fumettistici quali Heavy Metal e Conan il barbaro, esaltando la carica emozionale di singoli gesti e posture per un racconto che procede tramite funzioni prettamente mitologiche e metonimiche da fumetto/b-movie pulp.


Impossibile negare le strizzate d'occhio a Kurosawa e Lucas ma il vero modello per questa seconda parte di Rebel Moon mi sembra essere il mondo del peplum, della space opera d'appendice e della mitologia in cui ogni singolo personaggio e ogni azione viene asciugata di ogni sottigliezza naturalista fino a diventare puro simbolo che dialoga con la pregressa conoscenza del pubblico di un certo immaginario visuale e narrativo, come quella sterminata serie di avventure occorse a Ercole o Maciste nel periodo d'oro del cinema vernacolare nostrano che all'indagine sociologica del coevo post-neorealismo mettevano in bella mostra la fisicità dei vari Steve Reeves e la potenza pittorica delle inquadrature, esattamente come nei tableau vivant snyderiani.


La sfregiatrice è dunque un ritorno ai livelli più alti della filmografia del regista di Watchmen? Non per me, non quando si sente eccome la mancanza di uno sceneggiatore di livello assoluto come Chris Terrio e la scelerata idea di distribuire ancora una volta prima la versione monca del film, ma queste due ore su Veldt divertono e finalmente esaltano l'importanza della forma e della personalità in un cinema contemporaneo sempre più scialbo e fordiano quando si tratta di generi popolari.

giovedì 18 aprile 2024

VENECIAFRENIA: REAZIONE A CATENA NELLA LAGUNA DI SANGUE

Sebbene non sia una superstar in Italia, né tra il grande pubblico, né tra i cinefili, Alex de la Iglesia ha un curriculum che parla da sé, specialmente per quanto concerne il cinema di genere e ha sempre flirtato con il nostro paese, come dimostra la co-produzione italiana El dìa de la bestia (1995), vincitore di ben sei premi Goya, con cui è arrivato alla ribalta internazionale. Nel 2020 il cineasta spagnolo sigla un accordo con Amazon e Sony per la realizzazione di sei pellicole horror dirette da vari colleghi conterranei. Il primo di essi, distribuito a più di un anno di distanza a causa della pandemia da COVID-19, è Veneciafrenia (2021), arrivato solamente in questi giorni in Italia attraverso RaiPlay nonostante la centralità nel progetto del Belpaese. Il film viene accolto con recensioni perlopiù positive, specialmente in patria, ma con alcune riserve da parte del pubblico, probabilmente anche a causa di aspettative non in linea con le reali intenzioni dell'opera.


Il lungometraggio segue la sfortunata vacanza a Venezia di un gruppo di amici iberici, eccitati all'idea di festeggiare l'addio al nubilato di Isa (Ingrid Garcia-Jonsson). Già all'approdo i protagonisti incontra una certa diffidenza da parte dei locali, se si esclude il gondoliere Giacomo (Enrico Lo Verso), ma la situazione assume tratti drammatici quando, in seguito a una nottata di baldoria in una festa in maschera, José (Alberto Bang), fratello di Isa, sparisce nel nulla.


Fin dai titoli di testa, così come la scelta di ambientare il film proprio in Italia, Veneciafrenia dichiara esplicitamente di ispirarsi a uno dei filoni più noti all'estero del nostro cinema, ossia il giallo all'italiana, sdoganato da maestri quali Mario Bava, Dario Argento e Sergio Martino. L'ambientazione urbana, sebbene sui generis data la natura peculiare di Venezia, la ricerca da parte dei protagonisti di capire chi sia a perseguitarli e la pressoché totale inutilità delle forze dell'ordine, sostituite nell'investigazione da un detective amatoriale come Isa, rendono palese la parentela con opere come Sei donne per l'assassino (Mario Bava, 1964) o Profondo rosso (Dario Argento, 1975), ma nonostante ciò il film viene spesso pubblicizzato come uno slasher, data la maggior fama per il pubblico odierno di questo sottogenere e la indubbia filiazione dal giallo, creando però in questo modo una disattesa rispetto alle aspettative dell'audience. Difatti de la Iglesia non segue il canovaccio delle mattanze di Jason Voorhees o Michael Myers e nonostante il gore non manchi, ciò che davvero interessa al regista spagnolo è la contrapposizione, tutta socio-politica, tra veneziani e turisti. Se all'apparenza i primi rientrano nel ruolo dei villain e i secondi in quello degli eroi, in realtà sono questi ultimi a essere connotati unicamente in negativo, sia da un punto di vista caratteriale che morale, mostrando tutte quelle derive consumistiche, ignoranti e irrispettose del turismo di massa contemporaneo, che rappresenta il vero bersaglio della critica che permea ogni singolo frame del lungometraggio. Persino Isa, che sembrerebbe assurgere da un certo punto del racconto la funzione di final girl, attraversa solo parzialmente l'evoluzione tipica delle varie Sydney Prescott o Laurie Strode e il vero "eroe" risulta essere alla fine Giacomo, che invece spicca in quanto ponte tra le istanze degli "indigeni" (i veneziani in questo caso) e la razionalità necessaria per poter coniugare l'importanza economica del turismo con quella di preservare la storia e l'ambiente precario della Serenissima.

Ecco dunque che la pellicola si avvicina, sia per struttura narrativa che per intenti politici dichiarati, proprio a quella che è considerata il trait d'union, la variatio che ha generato, in una milieu artistico-culturale molto diversa, il passaggio dal giallo allo slasher, ovvero Reazione a catena (Mario Bava, 1971). Chiamato in origine, non a caso, Ecologia del delitto e distribuito in America come Bay of Blood, l'opera baviana dava vita a un bagno di sangue mai visto fino a quel momento per mettere alla berlina l'efferatezza del consumismo nei confronti dei più elementari sentimenti umani e, soprattutto, della salvaguardia del patrimonio ambientale, esattamente come de la Iglesia ai giorni nostri, tanto da negare al pubblico il tipico showdown finale tra eroina e villain, in favore di un'uscita di scena da parte del capo della "setta" dietro gli omicidi che ha i connotati del martirio in nome di un ideale che non può certo essere considerato deviato o incomprensibile come i moventi solitamente utilizzati negli slasher statunitensi.


Veneciafrenia si rivela, in conclusione, l'ennesima operazione di riflessione, dai toni grotteschi, sul cinema di genere e sulle mostruosità del mondo attuale da parte dell'autore di Ballata dell'odio e dell'amore (Balada triste de trompeta, Alex de la Iglesia, 2010), minata solamente da una messinscena volutamente spartana in molte occasioni, a dispetto del formalismo estremo del giallo, e quella che a mio avviso è una campagna di marketing ingannevole rispetto alle reali caratteristiche del prodotto.

sabato 2 marzo 2024

POVERE CREATURE! : IL BUON SELVAGGIO SECONDO LANTHIMOS

Dopo aver vissuto anni tra gli alfieri di un cinema europeo visivamente estremo e fieramente antihollywoodiano, Lanthimos ha raggiunto specie con La favorita (The Favourite, 2018) il circuito del mainstream, tanto da ricevere numerose candidature agli Academy Awards. Quest'anno si trova nuovamente tra i protagonisti assoluti della kermesse con Povere Creature! (Poor Things, 2023), forte di un successo unanime tra i critici e anche di numeri egregi dal punto di vista economico, considerando peraltro la crisi in cui versa il box office di recente.




Ambientato in una versione alternativa e vagamente steampunk della Belle Époque, il film segue le disavventure di Bella (Emma Stone), donna sopravvissuta a un tentato suicidio grazie all'intervento dello scienziato Godwin Baxter (Willem Dafoe), che per tenerla in vita le trapianta il cervello del bambino che portava in grembo. Per questo è costretta a imparare tutto della vita esattamente come un neonato, con una busca accelerazione nel processo impressa dall'incontro con il libertino Duncan Wedderburn (Mark Ruffalo), con il quale fugge in giro per l'Europa, scoprendo finalmente il mondo esterno alla casa del medico e soprattutto se stessa.



Povere creature! inizia tra singolari macchinari medici, scienziati che sfidano le possibilità del sapere umano, freaks in stile Todd Browning e un mix di bianco e nero e angolazioni anticlassiche che non possono non rimandare all'espressionismo tedesco e alle sue filiazioni americane in seno a horror e noir, ossia il terreno maggiormente battuto dalla golden age del cinema per parlare di diversità, reietti della società e dei recessi più oscuri del conformismo borghese. Questo incipit, che sembra voler limitare l'ambizione di Lanthimos a una "semplice" riproposizione del sempiterno mito del mostro di Frankenstein, è seguito però da una radicale trasformazione estetica nel momento in cui Bella lascia il nido e spicca il volo verso il resto del continente, con il sopraggiungere di cromatismi vitalisticamente esasperati che ricordano le pellicole colorate a mano di Méliès o i lavori di Jan Švankmajer, in particolare Alice (Nêco z Alenky, 1988), che adatta con piglio surrealista uno dei riferimenti più evidenti per l'opera in analisi. In questo caso però non è una ragazzina qualunque a finire in uno strampalato mondo alternativo, bensì una donna completamente scevra da ogni influenza della società civile a ritrovarsi completamente spaesata nel dover entrare in contatto con la nostra realtà, che infatti le appare estremamente grottesca e irta di ingiustizie e controsensi. Perché avversare l'autoerotismo quando provoca così tanto piacere? Com'è possibile vedere tanta povertà mentre pochi fortunati possono godere di privilegi del tutto immeritati? E, soprattutto, come mai una donna non può scegliere di vivere come più le aggrada, dovendo sempre finire tra le mire possessive di qualche uomo?


Bella affronta un percorso di formazione di chiara matrice rousseauiana in cui, attraverso un'ironia davvero tagliente e mai accomodante, mette alla berlina tutte le contraddizioni della socialità classista e patriarcale di fine Ottocento (e non solo), tramite gli occhi innocenti di un buon selvaggio la cui maturazione avviene tutta nella propria interiorità, avendo il privilegio di nascere già adulto. Tutto ciò viene accompagnato da una consequenziale trasformazione anche della forma filmica, che segue un percorso cinefilo da un epoca della Settima arte all'altra, come a voler sottolineare il ruolo privilegiato della stessa nel raccontare le mutazioni del reale grazie alla capacità mitopoietica delle immagini in movimento, specialmente quando scelgono fieramente di trascendere i limiti di quel realismo divenuto paradigma di qualità proprio nel pieno della seconda metà del XIX secolo. 

Con Povere creature! Lanthimos lancia uno sberleffo a chi spesso lo accusava di perseguire il mito di Kubrick girando un film orgogliosamente immaginifico e vitalistico, proprio come la sua protagonista.

sabato 17 febbraio 2024

MAESTRO: L'INSONDABILE MISTERO DELL'UOMO DIETRO L'ARTISTA

Dopo aver lottato per anni contro la reputazione di attore più bello che talentuoso (perché purtroppo certi pregiudizi sono duri a morire anche nel terzo millennio), Bradley Cooper ha dimostrato nel 2018 con A Star is Born di poter destreggiarsi con ottimi risultati anche dietro la macchina da presa, tanto che nel 2023 eredita il testimone di nomi del calibro di Martin Scorsese e Steven Spielberg per la regia di Maestro. La pellicola, finanziata da Netflix con i due summenzionati cineasti nel ruolo di produttori, è attualmente candidata a ben sette Academy Awards, a conferma di un gradimento universale di critica e pubblico.


Il film racconta, in flashback, la relazione più che trentennale tra Leonard Bernstein (Bradley Cooper), compositore e direttore d'orchestra di enorme successo, e Felicia Montealegre (Carey Mulligan), attrice di Broadway che trova la sua fortuna nella nascente televisione. Tra i due nasce un'immediata complicità che li porta al matrimonio e dare vita a una famiglia numerosa, nonostante l'omosessualità del musicista, che la compagna conosce molto bene e asseconda, almeno fino a quando le innumerevoli relazioni extraconiugali cominciano a pesarle fin troppo.


Maestro fin dalla citazione dello stesso Bernstein dichiara programmaticamente di non voler fornire, come succede con i più classici biopic, delle risposte a chiunque nutra un certo interesse verso un personaggio storicamente rilevante, bensì intende mettere in scena domande e contraddizioni che scaturiscono dalla sua vita. L'unica vera certezza che permea il lungometraggio, difatti, è un senso di dualità costante, a partire chiaramente dalla sessualità del protagonista, la cui propensione per gli uomini viene espressa già dalla sequenza d'apertura, per poi venire problematizzata dalla successiva frequentazione con Felicia, che viene narrata con tutti gli strumenti del musical a tema amoroso. L'intesa che nasce tra i due non preclude mai l'attrazione del compositore per i tanti amanti con cui si intratteneva in precedenza, tra cui il clarinettista dal volto tristemente innamorato di Matt Bomer, ma al contempo Cooper non risolve mai questa singolare situazione in una banale dicotomia manichea tra affetto platonico verso la moglie e passione carnale nei confronti degli uomini. Le continui ellissi sul lato più erotico dell'amore, tanto da non mostrare mai Leonard alle prese con atti sessuali, conferma invece la volontà di non scadere in semplificazioni atte a dare risposte al pubblico, così da rendere giustizia a tutta la complessità insita nell'animo umano, specie in quello di figure pubbliche.
All'insegna della dualità è anche lo spazio narrativo riservato ai personaggi, i quanto Felicia è centrale per il racconto esattamente quanto il consorte, al punto da determinare i confini dello stesso sia nell'incipit che nella chiusura, così come il rapporto tra Bernstein e la fama, che ricerca ossessivamente per una sorta di fobia della solitudine ma che ne frena anche la vena creativa, con quel desiderio di comporre che finisce per scontrarsi prima con i pregiudizi del mondo accademico e poi con le richieste incessanti di esibizioni da parte del mercato.


Il vero punto di forza dietro questa precisa scelta registica di Cooper risiede però nella forma, che, come nel grande cinema, esprime in primo luogo quanto appena sottolineato senza dover ricorrere costantemente alle parole. La prima parte del film, infatti, viene girata in un bianco e nero sognante, dove spesso la realtà e i mondi immaginari partoriti dalla musica del protagonista si fondono attraverso soluzioni illuministiche e compositive felliniane. Questo idillio iniziale viene progressivamente a incrinarsi con l'avvicendarsi degli anni di matrimonio, come evidenzia l'aspect ratio quadrangolare che ingabbia i personaggi esattamente come le finzioni che tengono insieme la loro relazione, mentre anche il bianco e nero cede il passo ai colori, che segnano la cesura definitiva al sogno perfetto in cui si erano incontrati Leonard e Felicia. In un'opera all'insegna dei non detti, di silenzi riempiti spesso solamente dalle note di un pianoforte o di un'orchestra che prevalgono su qualsiasi spiegazione a parole, il cineasta del Pennysilvania dimostra di aver appreso la lezione dei suoi maestri accreditati come produttori, lasciando che siano le immagini e tutte le infinite possibilità espressive offerte dalla grammatica filmica a comunicare con gli spettatori, allo stesso modo in cui Bernstein comunica tutto il suo, seppur discontinuo e complesso, amore alla consorte in una potentissima esibizione dal vivo, che suggella anche il profondo lavoro di Cooper nel calarsi nei panni del direttore d'orchestra di origini ebraiche.


A Star is Born aveva acceso la luce su una promettente carriera da regista dell'ormai ex stella di Una notte da leoni (The Hangover, Todd Phillips, 2009) ma Maestro è la conferma di trovarsi dinanzi a un nuovo autore tra le grandi produzioni hollywoodiane.

lunedì 22 gennaio 2024

SILENT NIGHT: JOHN WOO SI RIMETTE IN GIOCO NEGLI USA

Dopo i risultati tutt'altro che apprezzabili ottenuti da Paycheck (2003) e l'esito opposto di produzioni asiatiche come La battaglia dei tre regni (Red Cliff, 2008), sembrava impossibile che John Woo tornasse a lavorare negli Stati Uniti, eppure il 2023 si è concluso con questo insperato miracolo. Le festività natalizie da poco concluse hanno visto la distribuzione di Silent Night, un action a basso costo diretto proprio dalla leggenda di Hong Kong a distanza di venti anni dalla sopracitata pellicola con Ben Affleck. Non potendo contare su una campagna di marketing massiccia come quella di un blockbuster o su un divo in grado di catturare l'interesse del pubblico generalista, il film ha ottenuto incassi modesti, seppur sicuramente tali da portare dei profitti alla casa di produzione, mentre la critica concorda in gran parte nel definirlo un episodio minore all'interno della filmografia di Woo.


Protagonista del lungometraggio è Brian (Joel Kinnaman), elettricista la cui vita viene distrutta quando nel corso di uno scontro a fuoco tra gang criminali un proiettile vagante colpisce a morte il figlio. Nel tentativo di inseguire gli assassini l'uomo viene colpito alla gola, perdendo per sempre la capacità di parlare. Nonostante le cure amorevoli di sua moglie Saya (Catalina Sandino Moreno), Brian non riesce a superare il lutto e dopo un periodo passato chiuso in se stesso trova un unico scopo per il quale continuare a vivere: la vendetta.


A circa 77 anni, con una carriera lunghissima alle spalle e alcuni stilemi ben definiti nell'immaginario collettivo, già solamente l'idea di vedere Woo cimentarsi nuovamente con gli States e addirittura in un contesto indipendente è sintomo di una vitalità artistica da giovane promessa, ma addirittura rinnovare il proprio registro espressivo da parte del cineasta asiatico costituisce una sorpresa persino per il suo estimatore più ottimista. Silent Night, infatti, dimostra fin da subito, complice sicuramente anche il budget piuttosto contenuto, un modus operandi dedito alla sottrazione ben distante dal gusto barocco, sia nell'azione che nella resa delle emozioni, a cui avevano abituato opere come A Better Tomorrow (1986) e sequel (A Better Tomorrow II, 1987). Non solo, grazie anche all'espediente della condizione fisica del protagonista, i dialoghi vengono quasi completamente eliminati ma anche tutti i topoi del cinema del regista vengono ridotti all'osso: i machiavellici e infidi villain diventano ombre di un mondo sempre più disumanizzato rispetto ai valori cavallereschi degli eroi dal volto di Chow Yun-Fat o Tony Leung, la bromance tra Brian e il detective interpretato da Kid Cudi viene solamente accennata e vive di soli sguardi complici. Persino l'heroic bloodshed, punto focale di tutta la poetica di Woo, dove i proiettili danzano in una frenesia spesso cristallizzata dal ricorso al ralenti per permettere all'eroe di riaffermare la preminenza dell'amore e dell'onore sul cinismo egoistico dei villain, trova la sua compiutezza in poche ed essenziali sequenze, dove la magniloquenza visiva cede il passo a uno stile più contemporaneo, con abbondanti long take e mdp a mano, incollata sul corpo di Kinnaman, quasi come se fosse questi a prendere il posto dell'effluvio di pallottole.


L'attore svedese interpreta con grande efficacia la completa discesa negli inferi di un uomo qualunque, cambiando gender a quella figura dell'angelo sterminatore muto che nella tradizione del rape and revenge è solitamente resa al femminile, come in L'angelo della vendetta di Abel Ferrara (Ms. 45, 1981), dando vita a una sorta di sintesi con un altro genitore afflitto dall'indicibile dolore della perdita di un figlio quale Sean Archer di Face/Off (John Woo, 1997). Stavolta però, a differenza di quanto accadeva al personaggio che indossava i volti sia di John Travolta che di Nicolas Cage, non vi è nessuna possibilità di redenzione o ritorno a una vita normale dopo aver aperto il proprio cuore alla vendetta. Brian allontana persino la sua amata Saya, forse nel tentativo di tenerla lontana dalla violenza come accadeva in The Killer (John Woo, 1989), altro film in cui la mancanza di uno dei cinque sensi giocava un ruolo determinante, ma probabilmente anche per la consapevolezza da parte del protagonista di non poter riuscire nella propria impresa mantenendo le ultime residue tracce della sua esistenza da comune padre di famiglia. In tal senso il crepuscolare epilogo, che cita esplicitamente Carlito's Way (Brian de Palma, 1993), appare l'unico possibile e di notevole impatto emozionale, stavolta in tutto e per tutto da Woo, per il quale quasi mai gli eroi ricevono il meritato premio in questa vita.


Hanno ragione dunque, soprattutto oltreoceano, a definire Silent Night un capitolo minore della grande storia cinematografica dell'autore di Bullet in the Head (1990)? Forse lo è, nel confronto con i capolavori del passato e per alcuni difetti, come la sequenza d'apertura poco credibile e fin troppo debitrice di un certo cinema action attuale, ma una pellicola di questo genere capace al contempo di divertire, commuovere e far riflettere sulle infinite armi a disposizione del dispositivo cinema poteva girarla solamente un maestro come Woo e in un panorama così povero di idee e ricercatezza è un diamante (grezzo) di cui avevamo davvero bisogno.