venerdì 1 novembre 2024

TERRIFIER 3: LE VISCERE DELL'ESPERIENZA CINEMATOGRAFICA

Curiosamente, specie se si considera la penuria di offerta a cui assistiamo solitamente dall'avvento della pandemia da COVID-22, le sale nostrane in questi giorni sono invase da horror, tra i quali spicca per gli appassionati l'accoppiata "elevated" composta da Longlegs (Oz Perkins, 2024) e The Substance (Coralie Fargeat, 2024), ma nonostante il plauso della critica e gli ottimi riscontri ricevuti all'estero da questi ultimi l'evento che ha catapultato una moltitudine di persone a invadere i multisala, in una sola giornata, è la proiezione di Terrifier 3 (2024). L'ultima fatica di Damien Leone, forte dello status di autentica icona e meme vivente di Art il clown ma anche di un'oculata campagna pubblicitaria, sta infrangendo ogni record di incassi per un film vietato ai minori, raccogliendo buone recensioni in tutto il mondo, non a discapito di opere dalla opposta idea di cinema come quelle sopramenzionate, ma caso mai a complemento di esse, come accadeva qualche decennio fa nel periodo d'oro del cinema italiano, sorretto da quello che Mikel Koven definisce cinema vernacolare, così da fornire risorse anche ai Fellini, Antonioni o Ferreri.


Ambientata a cinque anni di distanza dal finale della precedente, la pellicola segue, in un percorso parallelo destinato a incrociarsi inevitabilmente, il tentativo di parte di Sienna (Lauren LaVera) e Jonathan Shaw (ElliottFullam) di tornare a vivere normalmente, superando il trauma vissuto, e il ritorno a uccidere di Art (David Howard Thornton), accompagnato stavolta da una posseduta Vicky Heyes (Samantha Scaffidi).


La sinossi così breve appena illustrata non deriva da un mio tentativo di celare al lettore eventuali e importanti spoiler, bensì dall'ennesima dimostrazione che per Damien Leone il racconto è un mero pretesto teso a connettere il succedersi di omicidi estremi. Terrifier 3, infatti, opera una sorta di sintesi tra la totale noncuranza per la narrazione del primo capitolo e il "vorrei ma non posso" mimare lo stile onirico di Wes Craven, raggiungendo un equilibrio in grado di evitare sia di appesantire la visione, sia di scoprire tutti i limiti di storyteller dell'autore, ormai ben più autoconsapevole rispetto al passato. Ancora una volta protagonisti assoluti risultano gli effetti speciali protesici che donano una visceralità, molto spesso letterale al 100%, a ognuna delle stragi operate dal sadico serial killer, che, esaltati da un ottimo accompagnamento sonoro e di montaggio, donano una matericità quasi aptica agli eventi, fondamentale per raggiungere lo scopo prefissato dal regista. Scopo che non può non essere il divertimento più sfrenato, cafone e politicamente scorretto possibile, poiché al gusto per il gore si unisce una sempre crescente componente ironica offerta dalla performance di Art, la cui mimica del tutto priva di voce, fornisce una carica umoristica proveniente dal repertorio dell'avanspettacolo, dei mimi e della commedia tutta fisica del cinema muto, permette all'insito elemento autoironico dello splatter di esplodere. Ecco dunque che persino la più truculenta delle sequenze trasforma quella che dovrebbe essere una smorfia di puro disgusto da parte dello spettatore in una fragorosa risata e persino quando le vittime rappresentano l'idea stessa di innocenza, ecco che un balletto o una smorfia o un più compiuto commento intra ed extra diegetico del personaggio strappa un sorriso, anche a denti stretti, che spazza via ogni remora morale.


Ed è proprio questo il vero punto chiave della pellicola: ritornando alle origini fieristiche e da spettacolo vernacolare della settima arte, Leone confeziona un'esperienza incredibilmente catartica per il pubblico, che può esternare i propri istinti meno cerebrali e più viscerali grazie alla coperta di Linus offerta dalla consapevolezza della natura fittizia dell'esperienza a cui assiste. Un ritorno al divertimento da Grand Guignol che catturava i consensi di ogni strato di popolazione, al netto del teatro dei grandi attori o della nascente regia che certa storiografia evidentemente schierata cerca di farci dimenticare. La sensazione una volta arrivati ai titoli di coda del film è paragonabile a quella di un concerto metalcore o death metal dopo aver liberato ogni energie repressa nel mosh durante i brani più carichi e trascinanti. Certamente suscita più di qualche dubbio la resa che il film avrà sul piccolo schermo, con una fruizione solitaria, poiché, restando in tema con la metafora musicale, molti pezzi che esaltano nel corso di un live perdono gran parte della loro carica nelle cuffiette di un pendolare che torna da lavoro ma perché preoccuparsene quando finalmente un lungometraggio indie, fieramente di genere non solo riesce a riempire le sale, oltretutto in gran parte di ragazzi per i quali l'esperienza collettiva del film costituisce un retaggio di un passato remoto? Grazie Art per questa catarsi di cui ogni tanto tutti noi abbiamo davvero bisogno.

Nessun commento:

Posta un commento