Se il proprio cognome è Perkins risulta difficile fuggire un destino all'insegna dell'horror, sebbene Osgood, a differenza del celeberrimo padre Anthony, preferisca stare dietro la macchina da presa e non davanti. E una traccia di questa sorta di predestinazione quasi luterana del vissuto privato del regista si trova al centro della sua ultima fatica, Longlegs. Distribuito in Italia in occasione dell'ultimo Halloween, il film si è reso protagonista di una inaspettata cavalcata al box office americano, resa possibile da una campagna pubblicitaria estremamente creativa sul web, insieme a recensioni entusiastiche che gli hanno permesso di decuplicare il proprio budget.
Ambientata nell'Oregon di metà anni Novanta, la pellicola segue le indagini da parte dell'agente federale Lee Harker (Maika Monroe) per riuscire a scoprire l'identità del misterioso Longlegs (Nicolas Cage), serial killer che lascia dei messaggi criptati su ogni scena del crimine, dove in realtà non è mai esecutore diretto degli omicidi, bensì concorre in qualche modo al raptus di un membro di una famiglia verso gli altri. Attraverso delle capacità di intuito quasi paranormali la giovane detective riesce a mettere insieme crescenti informazioni sul modus operandi dell'assassino, sebbene questo la porti a essere sempre più intimamente coinvolta nel caso.
Sbrigativamente, seppur in taluni casi con accezione non denigratoria, paragonato a classici del thriller che flirta con l'horror quali Il silenzio degli innocenti (The Silence of the Lambs, Jonathan Demme, 1991) e Seven (David Fincher, 1995), Longlegs non lesina ammiccamenti e link a opere ben conosciute dal pubblico appassionato, solamente per poi depistarli in un gioco tra superficie e sottosuolo (il piano di sotto a cui fa riferimento a più riprese il personaggio di Cage), visibile e sotteso, memoria e rimosso. La detection, ad esempio, che sembra il fulcro della sceneggiatura scritta dallo stesso Perkins, infatti, cede lentamente il passo alla soverchiante atmosfera malsana e mefistofelica evocata fin dalla sequenza d'apertura. Un flashback in cui il formato 1.33 : 1 più che accodarsi a una tendenza di certo cinema art-house ed elevated horror emula la pellicola vintage Super 8, principalmente utilizzata per le riprese amatoriali e, di conseguenza, l'idea di spiare dal buco della serratura di un orrore che solo all'apparenza è larger than life. L'incontro tra la bambina e l'inquietante villain, candido (solo nel colore) come il paesaggio innevato e apparentemente bucolico che funge da sfondo, possiede tutto quell'armamentario iconologico dell'abuso su minori in ambito casalingo, prospettando dunque fin dal principio una dimensione estremamente intima di Male. Un Male che, come spesso accade, si tende a voler identificare con l'alterità, con tutto ciò che è diverso, esterno, lontano dalla familiarità e dai luoghi simbolo della stessa, in primis la casa dell'infanzia.
Insinuandosi attraverso i movimenti quasi impercettibili della macchina da presa, che alterna long take del tutto statici come nel cinema di Ozu o a virtuosismi, talvolta persino della lente focale, in stile Argento, la percezione di una presenza sinistra che non abbandona neanche per un istante lo spettatore, persino durante quella che dovrebbe essere una normale conversazione madre-figlia al telefono, diventa la vera protagonista e antagonista al contempo del lungometraggio, in anticipo rispetto persino al turning point del racconto per quanto concerne i rapporti tra i personaggi. Il crescente tripudio di apparizioni più o meno celate di un'ombra dai tratti evidentemente luciferini non è che punto di esclamazione finale di una concezione del lato più oscuro e irrazionale dell'essere umano che Perkins aveva già esplorato in February (2015), che allo stesso modo viveva costantemente in bilico con il soprannaturale per mostrare quanto sia insito nel nostro sistema sociale l'impulso distruttivo e l'innocenza solamente una chimera. E chi meglio di Nicolas Cage poteva personificare l'istintività e pervasività del Male con la sua recitazione lontana anni luce dalle elucubrazioni razionalistiche e illusorie del metodo che domina il cinema americano contemporaneo? Soltanto il tempo ci dirà cosa ancora può regalarci una più attenta analisi dei tanti segni e significanti della riuscitissima pervasività subliminale di Longlegs.
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