venerdì 25 novembre 2016

ANT-MAN: L'IMPORTANZA DI ESSERE PICCOLI

In seguito a una gestazione iniziata addirittura prima che nascesse l'ormai miliardario Marvel Cinematic Universe (MCU) nel 2015 è giunto finalmente nelle sale Ant-Man, diretto dal mestierante Peyton Reed (Yes Man, 2008). Le cause del lunghissimo lasso temporale impiegato per dare alla luce la pellicola sono numerosi e in fondo non credo che siano poi così interessanti come molti credono; certamente aver perso per strada un regista di talento, oltre che ideatore dell'intera operazione, come Edgar Wright (Shaun of the Dead, 2004; Hot Fuzz, 2007) che sembrava nato per dirigere questa pellicola è stato un colpo non facile da incassare per la riuscita di Ant-Man, così come l'obbligo di adattarlo alle direttive artistiche e narrative dell'universo gestito da Kevin Feige non può non aver fatto perdere alla sceneggiatura parte della sua originalità ma ciò che lo spettatore si trova a poter vedere oggi è un film nonostante tutte queste impervie assolutamente interessante e dalla spiccata personalità.

La pellicola in analisi si rivela essere una origin story il cui protagonista, interpretato con una verve irresistibile da Paul Rudd, è tutt'altro che un eroe convenzionale; Scott Lang è infatti un ladro appena uscito dal carcere e che, nonostante il tanto decantato master in ingegneria, incapace di trovare un lavoro con cui pagare gli alimenti alla ex moglie e alla amata figlia. L'occasione per potersi finalmente riscattare e diventare il padre ideale per la sua bambina gli viene data dalla tuta in grado di miniaturizzarsi inventata dall'ex scienziato dello S.H.I.E.L.D. Hank Pym (Michael Douglas), il quale affida all'ex galeotto la sua preziosa creazione per poter impedire a Darren Cross (Corey Stoll), una volta suo allievo, di vendere agli spietati uomini dell'HYDRA (un piccolo ripasso delle puntate precedenti dell'MCU è richiesto anche in questo caso) la tecnologia alla base della tuta stessa. 
A una lettura superficiale potrebbe sembrare folle la decisione della mente (definire Feige un semplice produttore è molto riduttivo) dietro tutti lungometraggi Marvel di affidare alle avventure di uno dei meno noti tra i supereroi a disposizione la chiusura della "fase due", soprattutto in seguito alle critiche ricevute per lo più proprio dai fan nei confronti del film più costoso e importante della suddetta fase, il secondo me ingiustamente bistrattato Avengers: Age of Ultron (Joss Whedon, 2015). Persino nei piani iniziali della produzione stessa Ant-Man doveva essere parte della "terza fase", ma con l'abilità dimostrata finora dal deus ex machina dell'MCU questi ha compiuto una drastica virata proprio per fronteggiare le critiche piovute sulla "fase due" (escludendo il capolavoro Captain America: The Winter Soldier diretto da Anthony e Joe Russo nel 2014) chiudendola con un prodotto agli antipodi del gigante d'argilla che si è rivelato essere il secondo capitolo dedicato agli Avengers, come a voler ammettere che era stata calcata troppo la mano e che una ventata di aria nuova era fin troppo necessaria per non perdere la fedeltà del pubblico.

A questo punto la domanda che sorge spontanea è se Ant-Man rappresenti davvero e con una certa qualità la redenzione per i cinecomics Marvel. Proprio nella parola redenzione si cela al risposta a tale quesito poiché uno dei temi principali dell'opera di Reed è proprio il riscatto, quell'occasione che capita raramente nella vita a chi da sempre è stato un perdente, un eterno secondo e proprio per questo quasi mai viene buttata nel cestino dei rifiuti. Sommerso da tanti altri film più grandi, più spettacolari e con protagonisti ben più famosi il lungometraggio che oggi vi propongo non avrebbe mai potuto spiccare il volo se non in questa congiunzione astrale così particolare, proprio come il protagonista Scott Lang non avrebbe mai avuto modo di risvegliare il buono dentro di sé e ritrovare la propria famiglia senza un evento tanto impossibile come ricevere una tuta in grado di rimpicciolirlo per salvare il mondo e così neanche Hank avrebbe mai potuto fare pace con sua figlia e superare il senso di colpa per la morte di sua moglie senza Scott. Alla base di questo gioco a metà tra realtà e diegesi basato sulla redenzione si trova ciò che ho citato nel titolo del post in corso, ovvero l'importanza dell'essere piccoli: per troppo tempo il gigantismo, la volontà di creare qualcosa di sempre più grande, più costoso, più serio, insomma la ricerca del macro a tutti costi nel mondo del cinema basato sui fumetti ha continuato a dettare legge fino ad esasperarne i toni, divenuti esagerati nella propria ostentazione. Il film con Paul Rudd rappresenta invece la rivincita del mini, la rivalsa dei budget più contenuti, dei toni smorzati, dell'autoironia che ormai era andata persa. Sequenze come la lotta tra l'uomo formica protagonista e Falcon (Anthony Mackie) e soprattutto la battaglia finale tra l'eroe e Cross in dimensioni minuscole in mezzo ai giocattoli della figlia di Scott rappresentano delle esilaranti ma al tempo stesso inequivocabili accuse parodie degli epici scontri tra supereroi più blasonati che avevano ormai raggiunto toni che sono più congeniali a Dragon Ball Z (Akira Toriyama, 1989-1996) che non ai cinecomic.

Nel mettere in ridicolo le altre pellicole tratte da fumetti americani e nell'affrontare il tema della redenzione delle seconde scelte la pellicola diretta dall'autore di Yes Man si concede alcune sequenze visivamente straordinarie (si pensi al combattimenti finale appena citato) e inquadrature molto originali, come ad esempio le soggettive del protagonista in miniatura o quelle delle sue compagne formiche, al netto però di una sceneggiatura ricca di alti e bassi, rappresentati soprattutto da un ottimo humour e alcuni personaggi ben scritti oscurati da sequenze emotive piatte e uno svolgimento dell'intreccio piuttosto modesto. La colonna musica non spicca mai purtroppo, nonostante si basi proprio su una canzone riprodotta per caso una delle sequenze visivamente meglio riuscite (mi riferisco a quella che coinvolge i The Cure), mentre il cast spesso sopperisce alle mancanze di inventiva registica, come dimostra l'estro con cui interpreta un ladruncolo tutt'altro che sveglio Michael Pena.
In conclusione Ant-Man probabilmente non si è rivelato il film geniale che sarebbe potuto essere nelle mani di Edgar Wright ma allo stato attuale rappresenta un ottimo prodotto di intrattenimento che ben si rapporta con i propri tempi, mica male al giorno d'oggi. Fatemi sapere cosa ne pensate.


giovedì 17 novembre 2016

OPERAZIONE U.N.C.L.E. : LA RIVOLUZIONE VINTAGE DELLA SPY STORY

Al 2015 risale l'ultima (per ora) fatica del celebre cineasta britannico Guy Ritchie (Snatch, 2000; Sherlock Holmes, 2009), una sorta di origin story o prequel dell'omonimo serial televisivo (Sam Rolfe, Norman Felton, 1964-68): The Man from U.N.C.L.E, ribattezzato in Italia Operazione U.N.C.L.E. Scritto, diretto e prodotto dal regista simbolo del pulp inglese anni 90 la pellicola arriva nelle sale a pochi mesi dal successo strepitoso di un'altra spy story ricca di humour e diretta, tra l'altro, da un autore dalla cifra stilistica sopra le righe proprio come lui; mi riferisco a Kingsmen: The Secret Service (Matthew Vaughn), il cui riscontro estremamente positivo ha creato una dose di indifferenza nei confronti di Operazione U.N.C.L.E. decretandone così una solamente discreta accoglienza critica ma soprattutto una perdita notevole di appeal per il pubblico, fattore che molto probabilmente impedirà la realizzazione di un sequel auspicato invece dall'epilogo della pellicola stessa.

La trama del film in analisi si rivela un topos del cinema spionistico, ovvero l'ennesimo tentativo da parte di agenti segreti disposti a superare qualsiasi limite legale e persino umano di sventare un piano che mette a rischio l'intero pianeta. A distinguere l'opera di Guy Ritchie già da un punto di vista puramente narrativo è la scelta di ambientare il tutto nei primi anni 60, nel pieno della guerra fredda e per di più le spie protagoniste sono le più improbabili che potessero collaborare per la salvezza dell'umanità: un ex (neanche tanto) ladro di opere d'arte con la mania per gli oggetti raffinati e le donne e ora agente della CIA (soltanto per evitare il carcere) interpretato da un carismatico Henry Cavill; un agente del KGB fisicamente sovrumano ma fin troppo preda delle proprie emozioni (Armie Hammer) e una meccanica di Berlino Est che segretamente lavora per il governo britannico portata sullo schermo da una Alicia Vikander che riesce quasi a rubare del tutto la scena persino ai suoi due compagni d'avventura. Se a questo si aggiunge un villain mai visto come la diabolica imprenditrice italiana Victoria Vinciguerra (Elizabeth Debicki), l'ambientazione spostata per gran parte dei 116 minuti in alcuni dei luoghi più splendidi del nostro paese e personaggi minori ma che
restano impressi come il torturatore nazista e il capo del servizio segreto britannico impersonato con perfetto charme da Hugh Grant capirete di trovarvi di fronte a una variazione sui canoni del genere non indifferente.

Messe in tavola le carte che riguardano le vicende narrate appare evidente la volontà di Guy Ritchie di imprimere il suo riconoscibilissimo marchio all'ennesimo sottogenere del cinema d'azione con cui si cimenta; Operazione U.N.C.L.E. infatti riprende molti dei più noti topoi del filone a cui appartiene ma rileggendoli attraverso molteplici chiavi di lettura, tutte tipiche dello stile del suo autore. Il filtro dell'autoironia è chiaramente quello che traspare per primo grazie alla sequenza d'apertura: l'agente Napoleon Solo (Henry Cavill) ha certamente i tratti del superuomo in stile James Bond ma già nell'inseguimento a Berlino est dimostra di essere tutt'altro che infallibile e si ritrova quasi sempre in situazioni pericolosa a causa dei propri "vizietti" e dell'estrema fiducia nelle sue capacità. Allo stesso modo il burbero russo di Armie Hammer non solo parodia molte delle caratteristiche attribuite ai sovietici da tanto cinema mainstream (si pensi all'Ivan Drago presente nel Rocky IV diretto da Sylvester Stallone nel 1985) ma quando si trova a dover fare squadra con il collega statunitense innesca degli sketch comici tanto esilaranti quanto taglienti verso la rivalità USA/URSS.

Insomma la pellicola è in realtà un buddy movie che fa il verso alla serietà del cinema d'azione passato come molti prodotti postmoderni degli ultimi anni? Assolutamente no, c'è molto di più in gioco. Come ho accennato precedentemente un'altra lente attraverso cui il regista di Snatch rilegge il genere spionistico è il preziosismo dell'ambientazione, in questo caso una Europa anni 60 divisa tra due poli opposti:da una parte lo squallore e l'angoscia che regna nella Berlino scissa mentre dall'altra si trova il benessere e il glamour dell'Italia del boom economico, della "dolce vita". Proprio "glamour" sembra essere la parola chiave alla base della ricostruzione dell'epoca da parte del cineasta inglese, il quale non si limita a renderla facilmente riconoscibile (l'inserimento nella colonna musica di brani come Il mio regno di Tenco ad esempio è non solo una finezza storica ma risveglia la nostalgia per quel decennio in qualsiasi spettatore) ma la rilegge appunto attraverso un'ottica "vintage" che avvicina l'estetica del lungometraggio a quella di uno spot di profumi o di alcolici raffinati che mescolata al montaggio estremamente personale tipico di Ritchie crea un cocktail ricco dei più disparati sapori: cinema, serial, pubblicità e persino fumetto. Interessantissime risultano per l'appunto le scelte operate in fase di montaggio, che invece di percorrere la ormai battutissima strada dello stile da videoclip opera per ellissi e continui balzi temporali; tutti i momenti di transizione vengono tagliati di netto e persino sequenze che dovrebbero costituire il cuore del genere, come l'invasione della base segreta dei Vinciguerra, vengono ridotte all'osso o addirittura raccontate in poche rapide inquadrature soltanto dopo averne già mostrato le conseguenze.

In conclusione Operazione U.N.C.L.E. risulta una rilettura pienamente autoriale di un genere che ha saputo trovare numerose conversioni con il cinema contemporaneo ma che mai come in questa opera, a mio avviso, aveva omaggiato un glorioso passato con una visione artistica pienamente attuale.

giovedì 10 novembre 2016

CHE VUOI CHE SIA: L'ITALIA DELLA CRISI ECONOMICA E MORALE

A un anno dal grande successo di Noi e la Giulia (2015) Edoardo Leo torna a dirigere e interpretare un nuovo lungometraggio e anche stavolta non delude con Che vuoi che sia, arrivato nelle sale ieri. Fedele alla propria direzione artistica da director l'interprete di Smetto quando voglio (Sydney Sibilla, 2014) propone ancora una volta una commedia venata di riflessioni molto amare su vizi e brutture dell'Italia odierna ma in questo caso dando ancor più spazio alla venatura critica rispetto al lato maggiormente guascone, nonostante questo aspetto rimanga e diverta molto.

Protagonisti della pellicola in analisi sono Claudio (lo stesso Edoardo Leo) e Anna (Anna Foglietta), una coppia alle prese con gli effetti della crisi economica nonostante la voglia di lavorare e far valere i propri studi. Lui è un ingegnere informatico che si arrangia con qualche lavoretto saltuario ma che ha in mente la progettazione di una app virtualmente di grande appeal commerciale mentre lei lavora come docente a tempo determinato. Claudio espone il proprio progetto a un finanziatore (un ragazzino viziato proprietario di una non chiara società informatica che non può non essere una parodia del creatore di un certo social network...) il quale a sorpresa gli "consiglia" di esporre ila sua app in un sito di crowdfunding in modo da arrivare a raccogliere almeno da ventimila euro, la cifra minima per far decidere al giovane di investire direttamente. A conferma del periodo nero vissuto dalla coppia di precari la app non ha successo sul sito di raccolta fondi e così una notte, in seguito a una sbronza, girano e postano sulla stessa pagina web un video in cui prendono in giro gli italiani rei di usare internet solo per la pornografia e, per scherzo, affermano che qualora raggiungessero la cifra inizialmente pattuita i due girerebbero e posterebbero un video porno. Una bravata quando finisce in pasto alla rete non resta mai tale e quindi finisce per rivoluzionare la vita di entrambi.

Fin da questa breve sinossi appare chiaro il target a cui mira il feroce attacco di Edoardo Leo: l'ossessione per i social network come nuova frontiera del conformismo tutto italico che trasforma i singoli individui pensanti in una massa indistinta che segue la stessa moda, di qualsiasi tipo essa sia e per quanto meschina possa essere. Ciò che le vicende tragicomiche (e fin troppo reali se si pensa alla vicenda di Tiziana Cantone) vissute da Claudio e Anna dimostrano è quanto la crisi economica, da cui il nostro paese non riesce proprio a riemergere, sia diventata ben più grave dal punto di vista morale piuttosto che economico; in fondo vengono mostrati numerosi personaggi che sperperano il denaro per le ragioni più assurde (emblematico quanto esilarante il dialogo tra l'ingegnere interpretato dal regista e un suo cliente a cui ripara continuamente il pc a causa della sua fissazione per i siti hard più spinti e persino a pagamento), quasi a dimostrare un ipotetica proporzione inversa tra serietà/preparazione professionale e benessere economico. La crisi a quanto pare non colpisce indiscriminatamente, bensì attacca e affonda coloro che credono ancora nei sentimenti e nella dignità personale, mentre non scalfisce chi svende il proprio corpo e la propria mente per entrare a far parte della massa informe schiava dei social network. 
A mio avviso il video pornografico diventa per il cineasta romano un espediente, un pretesto rumoroso per mostrare questa ossessione che è in realtà ben più grave di quella per per gli stessi materiali hard e provarlo è la bellissima sequenza, una delle migliori dal punto di vista estetico, in cui lo zio di Anna (uno straordinario Rocco Papaleo) fa una passeggiata mentre i protagonisti stanno girando il famoso video in streaming e nota, con vero e proprio terrore, che tutte le persone che incontra, di qualsiasi età, sesso o estrazione sociale sono immobili a guardare su qualsivoglia schermo il suddetto evento virale. Solitamente la pornografia online è fruita soprattutto dal sesso maschile e certamente non in luoghi pubblici (il senso del pudore scaturito dalle influenze cattoliche nella nostra cultura spesso neanche fa ammettere alle persone di praticare la masturbazione) eppure basta che un del materiale sessualmente esplicito diventi una moda del web perché persino la più castigata delle signore o delle ragazzine si metta a guardarlo senza vergogna in una piazza. Pazzesco ma fin troppo vero.

Come se non bastasse l'attualità delle riflessioni appena esposte Che vuoi che sia si avvale di una regia minimalista ma capace anche di alcuni momenti estremamente raffinati, come ad esempio il piano sequenza a inizio film che mostra la routine mattutina dei protagonisti o alla sequenza in discoteca, oltre che di attori in grande forma, soprattutto Rocco Papaleo che, parafrasando un leitmotiv di Claudio, negli Stati Uniti avrebbe ricevuto apprezzamenti infinitamente maggiori, magari anche una candidatura all'Oscar (perdonatemi la piccola provocazione).
Tirando le somme dell'analisi dell'ultimo lungometraggio partorito dal director di Buongiorno papà ciò che veramente lo rende interessante ed estremamente consigliato è la capacità di unire tutte le caratteristiche appena descritte all'interno di una struttura da commedia popolare che permette di riflettere a spettatori di qualsiasi caratura intellettuale e per di più di farlo con un divertimento mai banale. 

mercoledì 9 novembre 2016

RANGO: UN CAMALEONTE ALLA RICERCA DELLA PROPRIA STORIA

Per la prima volta in questo spazio virtuale ho deciso di occuparmi di un film di animazione (sfera della quale in realtà mi interesso assiduamente) ma nel farlo ho optato per un caso estremamente singolare: Rango, pellicola del 2011 diretta, a conferma dell'eccezionalità dell'operazione, dall'esordiente nel mondo animato Gore Verbinski (The Ring, 2002; Pirates of the Carribean: The curse of the Black Pearl, 2003). La pellicola, nonostante un modesto successo al botteghino se paragonato agli enormi costi di produzione, ha raccolto il plauso della critica aggiudicandosi persino l'Academy Award per il miglior film d'animazione, un risultato enorme considerando che di solito tale categoria vede trionfare sempre o quasi pellicole Disney o Pixar.

Protagonista del lungometraggio è un camaleonte senza nome dalle grandi ambizioni attoriali (non a caso viene doppiato dal trasformista per eccellenza a Hollywood Johnny Depp) nonostante viva praticamente segregato in un minuscolo terrario insieme a pochi oggetti con i quali immagina di mettere in scena grandi avventure. Durante un viaggio in auto il terrario cade dalla stessa rompendosi e così l'animaletto si ritrova da solo in una sperduta autostrada che attraversa il deserto del Mojave, dove incontra un armadillo (con la voce di Alfred Molina) che, come un vero e proprio guru, lo invita a seguire la difficile via che lo porterà a compiere il proprio fato. Tale strada porta il rettile nella piccola cittadina, ovviamente popolata da soli animali antropomorfi, di Dirt, che presenta tutte le caratteristiche della città di un western, cosa che costringe il protagonista a calarsi nel ruolo di pistolero coraggioso (dandosi finalmente un nome: Rango) e infallibile riuscendo addirittura a diventare sceriffo e dando inizio al momento cruciale per la sua crescita interiore.

Non è assolutamente facile inquadrare un prodotto come Rango all'interno degli schemi del genere che normalmente si applicano a produzioni americane di tale portata economica; persino nel più ovvio degli insiemi nei quali può essere inserito, quello dell'animazione digitale, risulta atipico in quanto realizzato da una compagnia, la Industrial Light & Magic, la quale di solito si occupa di effetti speciali nel cinema in carne e ossa e che anche per questo ha reso le animazioni molto più naturalistiche rispetto allo stile Disney. A conferma di tale posizione ai limiti da questo punto di vista ci sono addirittura le parole di Verbinski, il quale ha affermato di aver pensato solo in un secondo momento di utilizzare l'animazione mentre dall'inizio del progetto aveva sempre avuto in mente l'idea di girare un western.  Ecco la vera identità della pellicola o almeno quella che decide di crearsi perché, proprio come il suo protagonista, spesso cambia pelle (si pensi all'incipit pirandelliano) spiazzando lo spettatore ma alla fine trova la sua strada in questo sterminato repertorio che ha accompagnato tutto lo sviluppo della settima arte statunitense.

Eppure anche all'interno di tale genere Rango risulta una singolarità in quanto, come ho appena affermato, il suo omonimo protagonista rappresenta un attore-sceneggiatore che, in una sorta di ibrido tra Sei personaggi in cerca di autore di Pirandello e una riflessione metacinematografica vicina ai lavori di Charlie Kaufman, proprio quando sembrava essersi rassegnato alla vacuità della propria esistenza senza una storia da interpretare che sentisse propria intraprende un viaggio alla ricerca di essa. Nella sequenza iniziale il camaleonte dalla camicia hawaiana (chiaro riferimento al ruolo interpretato da Depp in Fear and Loathing in Las Vegas diretto da Terry Gilliam nel 1998) cerca di mettere in scena una trama cavalleresca ma si rende conto di non essere soddisfatto di essa e non solo perché gli altri personaggi sono interpretati da oggetti inanimati, quindi una volta ritrovatosi solo nel deserto cerca di sopravvivere nel solo modo che conosce, ovvero imitando gli altri e soltanto una volta calatosi nel ruolo del pistolero eroe della propria cittadina capisce di aver trovato finalmente la sua storia. Non a caso il momento di svolta nella ricerca del simpatico animaletto è rappresentato dall'onirica sequenza dell'apparizione dello "spirito del west" (Timothy Olyphant), una figura estremamente somigliante al Clint Eastwood protagonista della Trilogia del dollaro (1964,1965,1966) diretta da Sergio Leone che il regista di The Ring cita continuamente (si pensi al tema nel primo duello che cita esplicitamente il tema di Qualche dollaro in più realizzato da Ennio Morricone ma anche a finezze registiche come alcune inquadrature tipiche dello stile del cineasta italiano) innalzandola a maggiore fonte di ispirazione per il suo lavoro, nonostante non manchino anche citazioni di tutta la storia del genere western (dal periodo classico di John Ford e Howard Hawks fino ai cupi lungometraggi diretti dallo stesso Eastwood) o di altri capolavori hollywoodiani come Chinatown (Roman Polanski, 1974) e Apocalypse Now (Francis Ford Coppola, 1979).

In conclusione Rango rappresenta un interessante unicum all'interno del cinema d'animazione (e non solo) americano che riflette attraverso l'amore del proprio autore verso uno dei generi fondamentali sulla figura dell'attore ma anche, in una interpretazione che merita spazi ben maggiori, sullo smarrimento dell'essere umano ai giorni nostri tanto caro al cinema contemporaneo.

giovedì 3 novembre 2016

OUIJA - L'ORIGINE DEL MALE: COME GIRARE UN OTTIMO SEQUEL/PREQUEL DI UN PESSIMO FILM


Arrivato nel periodo dell'odierno Halloween nelle sale con ben poche aspettative Ouija - L'origine del male (Ouija: Origin of Evil) si è rivelato una sorpresa graditissima, soprattutto per la critica internazionale. Diretto da una delle maggiori promesse del cinema horror americano, quel Mike Flanagan autore di perle quali Oculus (2013) e Hush (2016), la pellicola si pone come prequel dell'anonimo Ouija (opera prima di Stiles White) uscito nel 2014 trovandosi quindi nella scomoda posizione di dover portare avanti un eventuale franchise voluto dai potenti produttori Jason Blum e Michael Bay ma sul quale, viste le scarse qualità del primo lungometraggio, nessuno avrebbe scommesso neanche un centesimo.
La trama di questo prequel si svolge nel 1967 e narra le vicende della famiglia in pieno lutto a causa della morte dell'unica figura maschile formata da Alice Zander, una presunta medium, e le due figlie Lina e Doris. Le tre cercano di sopravvivere ai problemi emotivi ed economici con delle finte sedute spiritiche a pagamento che però non bastano a ripagare gli ingenti debiti che le assillano. La situazione cambia radicalmente quando, quasi per disperazione, Alice compra una tavoletta ouija scoprendo che grazie a essa la più piccola delle figlie riesce realmente a comunicare con gli spiriti e forse persino con il padre defunto. Ovviamente le entità che entrano in contatto con Doris si rivelano tutt'altro che benevole.

Chiunque abbia visto il primo episodio della saga potrebbe apprezzare l'opera di Flanagan anche solo per come abbia chiarito e dato un minimo di senso all'unico spunto interessante che vi si poteva rintracciare. Il cineasta in questione è però tutt'altro che un mero mestierante e anzi rivela persino in una causa quasi persa in partenza tutto il suo bagaglio tecnico e di esperienza nel genere nel quale si è sempre mosso con disinvoltura. La prima azzeccatissima scelta registica in cui si imbatte lo spettatore è la contestualizzazione accuratissima che si fa notare già dai titoli di testa: la pellicola è permeata delle atmosfere, la tecnologia (anche cinematografica), i colori e soprattutto le tensioni morali degli anni 60, come rivelano i pregiudizi di cui è vittima Alice in quanto donna che deve provvedere da sola a mantenere la famiglia o il naufragare dell'evidente attrazione sessuale tra lei e il prete Thomas. Nonostante gli appassionati di pellicole dell'orrore abbiano già assistito a scelte del genere nei due The Conjuring (James Wan; 2013, 2016) o in Insidious: Chapter 2 (James Wan; 2013) anche solo questo elemento crea una differenza qualitativa abissale tra i due esponenti del franchise basato sul famoso gioco da tavola della Hasbro. Alla ricostruzione molto credibile dell'ambientazione il giovane autore statunitense abbina un'ottima descrizione delle dinamiche emotive causate dalla morte dell'elemento cardine del nucleo familiare e in generale un'attenzione non usuale nel genere per la psicologia dei personaggi; a tal proposito ho trovato molto dolce e sottile la storia d'amore adolescenziale tra Lina e Mack, così innocente nell'oggettivarsi ma al tempo stesso coinvolgente, in pratica l'opposto di ogni rapporto amoroso tra giovani in un horror. Questa attenzione verso i personaggi porta lo spettatore a provare una vera empatia verso essi, a differenza degli insopportabili protagonisti del lungometraggio di Stiles White, e quindi ne amplifica anche le sensazione di angoscia e paura che per tutta la durata del film si basano sulla tensione ottenuta attraverso la sapiente regia dell'autore (ogni inquadratura risulta sempre impeccabile e alcune, come il primo piano su Doris che guarda in macchina mentre uno dei bambini che la maltrattavano si suicida a causa sua, sono da manuale)  e l'interpretazione terrificante (in senso positivo) della piccola Lulu Wilson, perfetta nel rendere sullo schermo la progressiva sconfitta dell'innocenza da parte del male attraverso la mimica e le contorsioni corporee.

In conclusione potreste chiedervi se sia bastato veramente un solo uomo a modificare radicalmente le sorti di un franchise da un stremo all'altro: ebbene la risposta è assolutamente positiva quando si affida una pellicola horror a un talento come quello di Mike Flanagan capace di dare una propria impronta come regista, sceneggiatore e montatore. In fondo molte tematiche di Ouija - L'origine del male sono tipiche del suo cinema, così come la costruzione dell'orrore ottenuta attraverso un sapiente lavoro sull'inquadratura richiama alla mente soprattutto Oculus. Insomma l'autore nel 2016 fa ancora la differenza, soprattutto quando si tratta di produzioni a basso budget in cui non ci sono estrosi divi o mirabolanti effetti speciali a poter salvare un prodotto scadente.
fatemi sapere la vostra opinione a riguardo.