Piccolo satellite orbitante attorno al pianeta Cinema ma con la forte attrazione anche per le altre arti e in particolare per quelle che più segnano la nostra contemporaneità: fumetto, videogame ecc. Fondamentale per me è che chi scriva qui abbia assoluta cognizione di causa (io ad esempio possiedo una laurea triennale al DAMS e una magistrale in scienze dello spettacolo). Auguro buona lettura e buona riflessione a chiunque voglia fermarsi su questo sperduto satellite della settima arte.
lunedì 24 ottobre 2022
HALLOWEEN ENDS: IL DISTACCO DEFINITIVO DAL MODELLO ORIGINALE
martedì 18 ottobre 2022
ATHENA: WAR MOVIE TRA LE BANLIEU
Dopo essersi fatto conoscere in tutto il mondo per alcuni tra i videoclip musicali più audaci dell'ultimo decennio, Romain Gavras, figlio del noto cineasta greco Costas-Gavras, presenta all'ultima edizione del Festival di Venezia il suo terzo lungometraggio: Athena. Pur senza ricevere una distribuzione in sala per quanto concerne l'Italia, il film ha attirato fin dalla proiezione al Lido opinioni contrastanti, soprattutto sul versante della narrazione e del suo rapporto con il versante più politico dell'attuale panorama cinematografico francese, esemplificato da quel Ladj Ly che firma la sceneggiatura dell'opera in analisi. Scopriamo se, come quasi sempre accade, la verità non si trovi semplicemente a metà tra le due barricate.
La pellicola racconta, in tempo reale, l'esplosione di una rivolta tra le banlieu parigine in seguito alla morte del giovane Idir, attribuita immediatamente a un eccesso di violenza da parte della polizia. In particolare al centro del racconto si trovano le diverse reazioni all'accaduto da parte dei fratelli del ragazzo: Karim (Sami Slimane) guida le sommosse, che troveranno il proprio cuore nel fittizio quartiere che dona il titolo al film, Moktar (Ouassini Embarek) pensa unicamente a proteggere i propri loschi affari dalle interferenze degli agenti, mentre Abdel (Dali Benssalah), soldato tutto d'un pezzo, si trova diviso tra il desiderio di mantenere l'ordine e il dolore per il lutto.
Fuorviati probabilmente dagli oggettivi punti di contatto con I miserabili (Les Misérables, Ladj Ly, 2019), molti recensori hanno accusato Athena di pressappochismo in relazione al contesto socio-politico che mette in scena o di vuota spettacolarizzazione, tradendo a mio avviso la reale dimensione di quest'ultimo. A differenza del succitato vincitore del premio della giuria al Festival di Cannes del 2019, il lungometraggio in analisi mostra con una certa fierezza una compattezza, a partire dal minutaggio, e uno schematismo narratologico tipico del cinema di genere, con una predilezione per il war movie. Fin dallo straordinario e lunghissimo piano sequenza che apre le danze lo spettatore viene progressivamente immerso in un ambiente urbano che assume immediatamente le coordinate ambientali e di dinamiche tra i personaggi topiche del cinema bellico: l'insistenza con cui la cinepresa resta costantemente vicina a Karim nel corso di esplosioni di fumogeni, scontri con le forze dell'ordine e inseguimenti in auto porta subito alla mente quanto visto in opere come 1917 (Sam Mendes, 2019) e Dunkirk (Christopher Nolan, 2017), che tentano di abbattere la barriera tra schermo e pubblico con una potenza sensoriale capace di rendere quest'ultimo estremamente partecipe del clima da battaglia proiettato. Sfruttando anche la lezione proveniente dal mondo videoludico Gavras riduce al minimo gli stacchi di montaggio, elimina completamente il classico découpage fondato su campi e controcampi, così da rendere la cinepresa una sorta di avatar dello spettatore inserito nel pieno della narrazione, raggiungendo una sorta di limbo tra la partecipazione parzialmente passiva del fruitore filmico e quella totalmente attiva del videogiocatore. Il risultato è uno showcase di cinema incalzante e esasperatamente dinamico, in pieno sincretismo con il racconto di un assedio che sfocia in battaglia campale, sulla scia di altri capisaldi del genere che si tinge di indagine sociale come Distretto 13 - Le brigate della morte (Assault on Precint 13, John Carpenter, 1976) o il connazionale Banlieue 13 (Pierre Morel, 2004).
Ulteriore conferma della sostanziale volontà di schierarsi all'interno di un panorama fortemente inserito negli schemi di genere, soprattutto action e bellico, è la dichiarata, fin dal titolo, ispirazione alla tragedia attica di Eschilo e Sofocle. Al di là del rispetto delle regole codificate dalla Poetica aristotelica, il film racconta in primo luogo la lotta di un nucleo familiare contro un Fato avverso a cui, nonostante gli sforzi, nessuno può sottrarsi. Sebbene i fratelli protagonisti dell'intreccio reagiscano ognuno a proprio modo alla perdita del più piccolo di casa, ciascuno percorre la sua personale discesa verso gli Inferi di omerica memoria arrivando a comprendere di non avere alcuna speranza di redenzione. Esemplare di tale dimensione tragica risulta la figura di Abdel, le cui intenzioni pacifiche e di stoico rispetto dei valori che la propria divisa rappresentano si trova a scontrarsi con la rabbia di un popolo intero e del suo io più profondo, portandolo inevitabilmente a un baratro fin troppo vicino a quello di eroi classici quali Oreste o Edipo. Un'ascendenza dalla più antica forma di rappresentazione di sé occidentale che però diviene modello narrativo anche per molti autori di pellicole d'azione e d'assedio come Walter Hill, i cui celebri I guerrieri della notte (The Warrior, 1979) e I guerrieri della palude silenziosa (Southern Comfort, 1981) nascono esattamente come versioni urbane delle immortali drammaturgie sofoclee.
Dove sta dunque la verità su Athena? Come sempre negli occhi di ogni singolo spettatore, che però prima di visionare e giudicare l'operato di Gavras ritengo debba inserirlo nel giusto contesto artistico (war movie e action movie) per poter godere senza fraintendimenti dell'ipercinetismo dei suoi 97 minuti.
giovedì 7 luglio 2022
MISSION: IMPOSSIBLE 2: WOO TRA BLOCKBUSTER D'AUTORE E MITOPOIESI CLASSICA
Nel corso dell'articolo dedicato a Mission: Impossible - Fallout (Christoper McQuarrie, 2019) avevo sottolineato come il regista avesse impresso una svolta fortemente serializzata al franchise, legando in maniera inscindibile narrazione e stile dei capitoli da lui firmati in maniera non dissimile da quanto accade con il Marvel Cinematic Universe. Una vera rivoluzione se si torna alle origini della saga, in particolare ai primi tre capitoli, tutti diretti da artisti diversi come veri e propri standalone sequel a là 007 senza rinunciare minimamente alla propria individualità. Tra questi spicca il primo sequel, Mission: Impossible 2, diretto nel 2000 da John Woo, reduce dal suo primo successo negli States con il capolavoro Face/Off (1997). Un incredibile successo commerciale, tanto da divenire il miglior incasso dell'anno al box office mondiale, ma con una folta schiera di detrattori, specie tra i recensori dell'epoca.
Come accennato nel finale del predecessore (Mission: Impossible, Brian De Palma, 1996) Ethan Hunt (Tom Cruise) torna a lavorare per l'IMF, questa volta con il compito di recuperare una pericolosissima arma biologica nota come Chimera, rubata dal suo ex collega Sean Ambrose (Dougray Scott) nel corso di un dirottamento aereo. L'unico modo per poter avvicinare l'uomo è quello di sfruttare il suo punto debole, l'amore per la ladra professionista Nyah (Thandiwe Newton). Durante il reclutamento però quest'ultima e il protagonista finiscono per innamorarsi, aumentando a dismisura il coinvolgimento emotivo della missione.
Come accennato in precedenza Mission: Impossible 2 si limita a riproporre solamente alcuni dei cardini narrativi del primo capitolo, con un unico personaggio a tornare in azione oltre all'eroe (Luther, interpretato ancora una volta da Ving Rhames), proprio alla stregua di quanto occorso per decenni con le imprese di James Bond. La discontinuità è dunque la parola chiave per questo sequel, dove la riconoscibilissima mano di De Palma viene sostituita dall'altrettanto unica firma di John Woo, alla quale si adatta perfettamente la sceneggiatura del veterano Robert Towne. L'evidente tributo nei confronti di Notorious (Alfred Hitchcock, 1946) oltre a confermare l'amore del cineasta asiatico verso il maestro del brivido già esplorato in Once a Thief (John Woo, 1991) rivela quanto al centro del racconto vi sia soprattutto la love story tra i due protagonisti, nel pieno rispetto della propensione del regista a nascondere tra le maglie di tutti i suoi action più celebri una vena melò fondamentale per comprendere la sua visione della settima arte. Paradigmatico in tal senso non è soltanto la lunga sequenza di corteggiamento automobilistica tra i due amanti, in cui la instancabile cinepresa dell'autore di Hard Boiled (John Woo, 1992) trasforma un pirotecnico inseguimento ad altissima velocità in una danza paragonabile a un tango, ma soprattutto la puntualità nel far sì che ogni singolo momento di reale suspense sia legata alla compromissione tra dovere e interessi personali, ragione e sentimento, come nella magistrale scena all'ippodromo e il suo efficace ricorso sistematico al montaggio alternato. Sebbene al triangolo amoroso manchi la beffarda introspezione riservata al villain vista nel classico hitchcockiano, Woo riesce a limare la manichea contrapposizione tra il buono Ethan e il perfido Sean mettendo in risalto tutto ciò che invece li accomuna. Le straordinarie capacità dei due, l'appartenenza per molti anni alla medesima agenzia governativa e, soprattutto, i continui scambi d'identità resi possibili dalle maschere già utilizzate da De Palma riportano alla mente il tema del doppio e del conflitto interiore stevensoniano di Face/Off, sfumando così confini altrimenti piuttosto netti in sede di sceneggiatura.
Come mai resta comunque, al netto della dialettica Hunt/Ambrose, una contrapposizione così decisa tra bene e male? La ragione risiede nel comune amore di screenwriter e director per la mitopoiesi classica e dunque per il fortissimo senso morale che permea il lungometraggio. La scelta di mettere al centro dell'intrigo internazionale virus e relativo antidoto dai nomi riecheggianti la mitologia greca non resta al livello di semplice strizzatina d'occhio, bensì evidenzia da subito come la narratologia più pura e arcaica sia il modello perseguito. A seguito di tale dichiarazione d'intenti Tom Cruise, simbolo a sua volta dell'eroismo contemporaneo rappresentato dal divismo hollywoodiano, assume i panni del semidio Bellerofonte, mentre la sua nemesi quelli del mostro Chimera, destinati, come puntualmente accade nel finale, a uno scontro in singolar tenzone, in pieno stile omerico, per decidere chi avrà la meglio tra la luce e le tenebre, tra giustizia e vigliacco egoismo. Ethan, plasmato dall'occhio di Woo, incorpora una caratterizzazione non così distante dai precedenti protagonisti della filmografia del creatore dell'heroic bloodshed: per la prima volta lo si vede ricorrere senza troppi problemi alle armi da fuoco e, soprattutto nel corso dello shootout a Sydney, imbraccia la coppia di pistole rese iconiche da Chow Yun-fat, affronta in pieno volto lo schieramento nemico come un fiero guerriero da wuxia dando il via a una danza ritmata da una tempesta di pallottole al ralenti.
Accusato al momento della distribuzione di puro calligrafismo a discapito di qualsivoglia sostanza, Mission: Impossible 2 rappresenta a mio avviso un capitolo essenziale nell'opera di uno dei più grandi autori del genere, in cui peraltro per la prima volta dona anche a un personaggio femminile la stessa gravitas eroica solitamente riservata in passato agli uomini, confermando ulteriormente l'ispirazione ai modelli greci. Se a questo si aggiunge la pressoché totale o quasi scomparsa dal panorama attuale di film ad alto budget girati con una tale personalità non vi resta che riscoprire questa perla inaugurale del terzo millennio.
martedì 21 giugno 2022
VENDICAMI: JOHNNIE TO TRA ESCHILO E NEO-NOIR
Erede di quell'heroic bloodshed inaugurato nel corso degli anni Ottanta da John Woo con il seminale A Better Tomorrow, Johnnie To rappresenta ormai da almeno due decenni una certezza all'interno del cinema di genere, al punto da aver assurto ormai la considerazione di auteur persino dai più prestigiosi festival internazionali. Proprio in concorso al Festival di Cannes del 2009 il cineasta di Hong Kong presenta Vendicami (Fuk Sau in originale cantonese), sua prima produzione internazionale con cast e location in buona parte francesi. Il film ottiene ottimi riscontri dalla critica e persino un discreto successo al botteghino, considerano la distribuzione limitata all'on-demand negli Stati Uniti, permettendo a un più ampio pubblico di avvicinarsi all'opera di un maestro ancora non così popolare nel Vecchio continente.
Protagonista della pellicola è François Costello (Johnny Hallyday), uno chef la cui famiglia è stata decimata dall'attacco di alcuni sicari, che hanno lasciato in vita, seppur in gravissime condizioni, soltanto la figlia. Deciso a vendicarsi a ogni costo, l'uomo assolda alcuni killer professionisti a Hong Kong per scoprire l'identità degli assassini e del mandante della strage per poi restituirgli il favore. La già complessa missione viene però resa ancor più difficile dalle condizioni di salute del protagonista, la cui memoria peggiora gravemente giorno dopo giorno.
Persino da questa sintetica sinossi appare chiara la ben riconosciuta affinità tra Vendicami e Memento (Christopher Nolan, 2000): due uomini comuni che si trasformano in angeli vendicativi dopo aver perso ciò che amavano di più, nonostante delle peculiari forme di amnesia ne rallentino il raggiungimento dei propri scopi. I punti in comune però finiscono qui, riducendosi dunque alla più basica fase di creazione del soggetto, poiché per quanto concerne scrittura, estetica e poetica To e Nolan seguono binari completamente diversi, se non nella comune ispirazione a una delle più antiche forme di rappresentazione di sé a oggi conosciute: la tragedia attica. In entrambi i casi la perdita di memoria non può non richiamare alla mente la dialettica tra la strenua volontà dell'eroe e l'ineluttabilità di un fato avverso tipici delle opere di Eschilo, Sofocle ed Euripide, con in particolare il primo a configurarsi come vero e proprio paradigma per questo tipo di racconto. Costello, seppur motivato da sentimenti fin troppo comprensibili per qualunque essere umano, intraprende una strada eticamente e filosoficamente destinata fin da subito a una rovinosa caduta. La vendetta nasce epistemologicamente come impresa fallimentare per eccellenza, in quanto causata da una perdita che nessuna forza naturale può restituire e, cristianamente parlando, da una proiezione dell'io del vendicatore verso gli stessi peccati commessi dall'oggetto dell'atto di ritorsione. Come un novello Oreste di eschilea memoria, lo chef non può realmente pensare di non dover pagare un prezzo altissimo per restituire il torto subito ai killer prezzolati che hanno ucciso suo genero e i nipoti, eppure sceglie stoicamente di perseguire l'unico obiettivo rimastogli, nonostante sua figlia (il cui destino viene lasciato in sospeso) sia ancora in vita.
Neanche la crescente precarietà della propria memoria riesce a bloccare il meccanismo in atto ed è a questo punto che ritorna un punto di contatto con il capolavoro nolaniano: ha davvero senso l'azione dell'uomo nel momento in cui neanche ricorda ciò che deve fare e perché? Se la vendetta consiste in una reazione uguale a un abuso subito, come può essere perpetrata se non esiste più traccia di quello stesso atto? Da queste domande il regista inglese opera una analisi sulle possibilità del cinema di mettere in scena i meccanismi intellettivo-emozionali di un uomo dall'io totalmente frantumato, To d'altro canto resta fedele al proprio stile all'insegna della dialettica tra violenza e lirismo per rappresentare la completa futilità della vendetta. Giocando sul contrasto tra le splendide coreografie delle scene d'azione, con la danza di pistole e proiettili ereditata dal già citato John Woo, e momenti di pura pace con i bambini di un'amica dei killer assoldati dal protagonista, il regista sottolinea proprio la totale assenza di qualunque prospettiva di appagamento nell'atto vendicativo. La perdita di memoria diventa dunque non un handicap, un ostacolo alla riuscita di un piano ben elaborato, bensì una condizione di alterità che permette a Costello di vivere in una sorta di bolla paradisiaca, dove non esiste il dolore passato ma solamente un eterno presente fatto di tranquillità e affetto sincero. Non a caso da questa dimensione quasi eterea sembrano esclusi gli uomini, la cui bestialità hobbesiana li condanna a un'eterna infelicità.
Pur non riuscendo a raggiungere i vertici della filmografia di To, Vendicami resta un neo-noir insitamente tragico, in cui le dilatazioni temporali tipiche dello stile dell'autore di Hong Kong ricordano allo spettatore quanto inconcludente sia l'uso della violenza, persino per le più nobili delle motivazioni.
lunedì 14 marzo 2022
THE BATMAN: DAL CINECOMIC AL COMING OF AGE NOIR
lunedì 28 febbraio 2022
I VAMPIRI: NASCITA DEL GOTICO ITALIANO
Quando si parla di cinema italiano nella maggior parte dei casi la mente viaggia tra i capolavori del Neorealismo, le risate amare della Commedia all'italiana e gli exploit contemporanei di autori come Sorrentino o Garrone, dimenticando però l'altra faccia della medaglia del periodo aureo della settima arte nostrana. In più di un'occasione ho accennato a una rinascita negli ultimi cinque o sei anni dei generi nel Belpaese ma quando è esplosa la diffusione di horror, peplum e gialli che hanno regalato fama internazionale a personalità quali Mario Bava e Dario Argento? Una data convenzionalmente accettata dagli storici è il 1957, anno di uscita de I vampiri, diretto da Riccardo Freda come sfida alla secolare estraneità della cultura italiana nei confronti del gotico e concluso proprio dal summenzionato Bava, a causa di dissidi tra il regista e i produttori negli ultimi giorni di riprese. Un titolo divenuto sinonimo della nascita dell'horror sul suolo italico ma merita ancora oggi una visione, al di là del ruolo di capostipite del genere? Scopriamolo.
Ambientato in una Parigi contemporanea, il film segue l'inchiesta del giornalista Pierre Latin (Dario Michaelis) sui misteriosi omicidi di giovani donne, tutte private del sangue come se a ucciderle fosse stato un vampiro. Alla continua ricerca di possibili indizi sul caso, il reporter deve gestire anche la corte dell'aristocratica Giselle Du Grand (Gianna Maria Canale), innamorata di lui come sua zia lo era del padre del protagonista.
Nonostante un titolo tanto diretto, I vampiri si presenta fin dalle prime sequenze come un parente piuttosto lontano dal filone iniziato dal seminale Nosferatu il vampiro (Nosferatu, eine Symphonie des Grauens, Friedrich Wilhelm Murnau, 1922). Pur senza rinunciare a topoi come la scelta di avvenenti donne in qualità di vittime e un'ambientazione tipicamente gotica come il castello della Du Grand, Freda attinge alla sua notevole cinefilia e all'esperienza di regista affermato per dare vita a una miscela di elementi provenienti dai più disparati riferimenti, al punto da rendere quasi irriconoscibile la matrice vampirica originaria. Tra mad doctor e sieri sperimentali di origine fantascientifica, una componente whodunit poeiana e la sopracitata ambientazione moderna, il cineasta nato ad Alessandria d'Egitto sceglie di dare vita a una propria lettura del mito dei non-morti, puntando su un'aderenza al reale che li rende un perfetto mezzo di critica sociale, anticipando in tal senso le istanze del New Horror americano degli anni Settanta.
Come confermato anche all'interno di interviste e della sua biografia, Freda vede nel vampirismo la smania delle generazioni più anziane di riacquistare il vigore perduto prelevandolo dai giovani, in un egoistico atto di ribaltamento della freudiana operazione di uccisione dei padri. A ciò si aggiunge, utilizzando come esempio di tale visione il personaggio della duchessa, una più politica riflessione sul rapporto tra il mondo contemporaneo e la decadenza dell'aristocrazia, ormai del tutto depauperata dei propri privilegi dall'ascesa borghese. In un ultimo tentativo di mantenere il proprio status si avventa sulla vitalità del motore della società attuale, attraverso strumenti del tutto moderni come chimica e chirurgia, privando il vampiro di quel sostrato erotico racchiuso nel gesto del morso sul collo.
Alle interessanti digressioni rispetto alla tradizione del filone esploso con il romanzo di Bram Stoker a fine Ottocento, Freda abbina una cura per la forma figlia di un'impostazione classicheggiante di ispirazione hitchcockiana, in totale opposizione alla sovraesposizione della macchina da presa resa popolare dal Neorealismo. Proprio come il maestro del brivido, l'autore italiano si mantiene costantemente in bilico tra la trasparenza registica hollywoodiana e momenti di virtuosismo attrattivo, resi ancora più evidenti dalla maestria nell'uso del bianco e nero da parte del direttore della fotografia Bava, che alle ascendenze espressioniste abbina straordinari effetti speciali, come l'indimenticabile trasformazione senza stacchi di montaggio di Giselle.
Vale dunque la pena recuperare I vampiri anche per chi non possiede particolari velleità di storia del cinema? Assolutamente sì: pur non essendo il miglior lavoro di un director raffinato come Freda, la sua originale interpretazione della figura del vampiro, insieme all'eccezionale impianto estetico lo rendono un titolo da riscoprire.
lunedì 14 febbraio 2022
SCREAM: IL REQUEL OMAGGIO AL PROFESSORE DELL'HORROR
lunedì 24 gennaio 2022
MATRIX RESURRECTIONS: AMOR OMNIA (ET WARNER BROS) VINCIT
martedì 4 gennaio 2022
È STATA LA MANO DI DIO: CULMINE E ORIGINE DEL REALISMO MAGICO SORRENTINIANO
Dopo aver raccontato con Le conseguenze dell'amore (Paolo Sorrentino, 2004) l'opera che lo ha confermato tra i migliori talenti del cinema italiano del terzo millennio, non posso esimermi dal dedicare una manciata di righe all'ultima fatica del cineasta partenopeo. È stata la mano di Dio, prodotto da Netflix ma con una discreta distribuzione anche in sala sul finale del 2021, segna il ritorno cinematografico di Sorrentino alla propria città natale, così come un nuovo inizio nel suo rapporto con critica e pubblico, sottolineato da numerose e prestigiose candidature internazionali e da un notevole passaparola tra gli spettatori.
Ambientato nella Napoli degli anni Ottanta, in preda al fervore per l'arrivo di Maradona nella squadra di calcio della città, il film racconta la forzata maturazione di Fabietto Schisa (Filippo Scotti), la cui adolescenza spensierata all'interno di una colorita famiglia borghese, viene sconvolta dall'improvvisa morte, causata da una fuga di gas, degli amati genitori (Toni Servillo e Teresa Saponangelo). Incapace di trovare un senso a quanto accaduto, il ragazzo capisce di potersi aggrappare solamente al suo sogno: diventare regista.
Come affermato a più riprese nel corso della sua promozione, È stata la mano di Dio rappresenta quanto di più autobiografico Sorrentino abbia mai scritto o diretto. Sebbene molto del suo carattere, delle proprie ossessioni e del suo passato fosse presente già nelle opere precedenti, così come molto di ciò che viene portato sullo schermo in questa sua più recente fatica sia del tutto immaginario, la pellicola presenta evidenti punti di contatto con la reale vicenda dell'ancora giovanissimo Paolo, la cui vocazione cinematografica nasce proprio a poca distanza dall'incidente che lo trasforma in orfano. Destino fatale a cui sfugge, proprio come il suo alter ego filmico, grazie all'intervento divino dell'idolo Maradona, a quei biglietti per la partita del Napoli che lo allontanano dal padre e la madre nel lasso temporale più importante.
La familiarità in cui si districa la cinepresa nel corso del lungometraggio no significa però che l'autore de Il divo (2008) perda di vista l'unicità del proprio sguardo e del suo modo di raccontare il mondo. Parafrasando quanto affermato in una delle sequenze chiave dell'opera dal regista Antonio Capuano (Ciro Capano), il director non si disunisce in nome dell'aderenza alla realtà, bensì sfuma il proprio magniloquente senso della composizione e il piacere per la battuta sagace con il vivido ricordo dell'indimenticabile Napoli del primo Scudetto, della spensieratezza precedente la caduta della Prima Repubblica ma anche del contrabbando di sigarette e degli status symbol kitsch assurti a palliativi per una miseria che non ha mai abbandonato l'ex capitale del regno borbonico. La filmografia sorrentiniana vive fin dagli esordi di un crescente realismo magico, fieramente ispirato alla negazione del Neorealismo operata da Fellini (del quale viene, non a caso, menzionata proprio l'affermazione secondo cui la realtà sia scadente) e all'idea di poter individuare sempre elementi di meraviglioso anche all'interno della più meschina delle milieu. In fondo la pellicola vive in primo luogo come riproposizione di ricordi dell'adolescenza del regista e non esiste episodio del passato che la memoria non mitizzi attraverso alterazioni della fattualità, rendendo in tal senso quanto mai opportuno per la narrazione lo stile sempre in bilico tra mondanità e fantasia di Sorrentino.
La grande novità rispetto alla precedente produzione del cineasta napoletano risiede, dunque, nel raccontare non più un uomo nel pieno della maturità e dei rimpianti per un'innocenza perduta molti anni addietro, bensì nel mostrare finalmente il momento esatto di quella perdita e, nel fare ciò, una reazione che, a giudicare dal finale e dall'autobiografismo fin qui descritto, porterà il protagonista a non disunirsi, come invece era successo al giovane Gep prima di inabissarsi nella squallida fauna romana ne La grande bellezza (Paolo Sorrentino, 2013). Fabietto, seppur ancora molto insicuro e distrutto dal "tradimento" causato dall'essere stato abbandonato dalle persone che più amava, capisce che il suo grande e forse stupido sogno può aiutarlo a convivere con il dolore, rifiutando l'escapismo del fratello maggiore e l'oblio pronosticatogli dalla baronessa, facendolo diventare finalmente Fabio, un uomo fatto e finito, capace di avere qualcosa di personale da raccontare, con l'aiuto delle tantissime storie che Napoli offre ogni giorno.
Sarebbe impossibile negare alla città, infatti, il ruolo di co-protagonista. Il film inizia con un lungo piano sequenza che parte dalle sponde del mare che la bagnano per arrivare poi nel suo cuore pulsante, fatto, non a caso, da quel misto di sacro e profano, miseria e nobiltà che rendono unico il capoluogo campano. Le strade, gli interni delle case, i costanti riferimenti al mare, non dissimili da quelli dell'unica altra pellicola della filmografia sorrentiniana ambientata nella sua amata terra, L'uomo in più (2001), diventano non solamente una manifestazione dell'interiorità del giovane Schisa (alla stregua della Roma de La grande bellezza), ma liriche disserzioni di una città che ogni suo abitante porta con sè ovunque vada. Solo apprezzando la centralità che questa possiede per il regista assume un senso estremamente pregnante ed emozionante la scelta di Napule è quale unica canzone all'interno dell'intera pellicola.
Fabio/Paolo ha imparato a non disunirsi non soltanto rispetto a se stesso, ai valori insegnatigli dagli amati genitori, al proprio sogno e al "disprezzo" per una realtà scadente, ma anche nei confronti di un luogo dell'anima che soltanto chi non ha mai visitato neanche per un giorno può non amare.