lunedì 24 ottobre 2022

HALLOWEEN ENDS: IL DISTACCO DEFINITIVO DAL MODELLO ORIGINALE

Quando a inizio anno Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillet sdoganavano, con sagace ironia, il concetto di requel attraverso una delle sequenze più memorabili di Scream, il tutt'altro che velato punto di riferimento era quell'Halloween diretto nel 2018 da David Gordon Green, capostipite di una nuova trilogia che si innesta cronologicamente dopo lo storico capolavoro carpenteriano, eliminando dalla timeline ufficiale della saga tutti i precedenti sequel. Proprio quest'anno il cineasta statunitense porta sugli schermi di tutto il mondo Halloween Ends, capitolo finale di tale epopea e idealmente dell'intero franchise ormai quarantennale. Come già previsto dal regista la pellicola sta riscontrando molte reticenze da parte sia della critica che della fanbase, soprattutto a causa di scelte in fase di sceneggiatura piuttosto ardite e dunque immediatamente tacciate di iconoclastia.
Ambientato a una manciata di anni di distanza dai prequel, il film mostra l'incrociarsi delle strade di due ragazzi segnati dalla violenza di Haddonfield: Allyson (Andi Matichak), sopravvissuta insieme alla nonna Laurie (Jamie Lee Curtis) all'ultima strage di Micheal Myers, e Corey (Rohan Campbell), ostracizzato da gran parte della città per aver inavvertitamente fatto morire un bambino a cui badava in qualità di babysitter. Nonostante (o forse a causa) i rispettivi traumi questi si innamorano e cercano di prendersi una rivincita sul proprio passato insieme ma soltanto la coriacea protagonista storica della saga averte in Corey la stessa malvagità caratteristica di The Shape.
Se il succitato primo capitolo della trilogia diretta da Green cercava per quanto possibile di restare fedele al seminale slasher made in Carpenter, Halloween Ends, d'altro canto, recupera il ben più personale Halloween Kills (David Gordon Green, 2021), espandendone le riflessioni sociali e abbandonando quasi del tutto la struttura narrativa originale. Ancora una volta l'autore di Joe (2013) focalizza il proprio sguardo, elemento cardine dello slasher, non più su Myers e la sua maschera in quanto tali, bensì come agenti patogeni di un Male non più metafisico ma virale. Il vero orrore simboleggiato da quella diafana riproduzione, sempre più maciullata dal passaggio del tempo, del volto del Capitano Kirk diventa dunque la sua capacità di instillare odio, violenza, incapacità di rapportarsi e comprendere il prossimo in chiunque viva e respiri l'aria di Hoddenfield, che da spensierato sobborgo della provincia americana tipo si trasforma, mai come in questo ultimo capitolo, in una evidente sineddoche degli ex poli industriali ridotti a ombra di se stessi dalle crisi economiche innescatesi in seguito alla bolla speculativa del 2008. In tale milieu che, proprio come in un romanzo di Zola, potrebbe corrompere qualunque animo non può che nascere persino un emulatore, un seguace dell'ombra della strega: un ragazzo timido e impacciato così abituato all'ostracismo della comunità e all'odio da trovare in un primo momento una sorta di moto di ribellione nell'amore, per poi finire inevitabilmente preda di un lato oscuro in grado di inghiottire qualunque barlume di luce. Ecco dunque che, allontanandosi da qualunque topos slasher che di solito prevede solamente rapporti violenti od occasionali tra adolescenti, Green mette al centro del racconto una love story da tipico coming of age per poi trasformarla in una sorta di tenaglia tra esistenze distrutte e che, proprio in virtù dell'incombenza del Male rappresentata da Myers, non può che finire nel sangue. La scelta di rendere quest'ultimo una figura che agisce solamente nell'ombra, nascosto come Lestat nel finale de Intervista col vampiro (Interview with the Vampire: The Vampire Chronichles, Neil Jordan, 1994), trova in questo contesto tematico una sua ragion d'essere che esula dal semplice tentativo di spiazzare il pubblico più affezionato: alla riflessione precipuamente postmoderna sull'iconicità dei serial killer immortalati sul grande schermo, siano essi realmente vissuti o meno, si innesta quella ancor più attuale sulle conseguenze nefaste e "virali" della cultura dell'odio, della violenza concettuale ancor prima che fisica e di quanto un clima di costante pericolo possa rendere ancor più ferini gli animi delle persone, sposando una tesi in parte hobbesiana della società. Persino il finale, con l'inevitabile vittoria di Laurie sul suo persecutore di una vita lascia degli strascichi fortemente ambigui, specie osservando le reazioni di quest'ultima e di sua nipote, costretta infine ad abbandonare quel suo inferno personale sotto forma di sobborgo di provincia.
Pur senza raggiungere le vette immaginifiche, formali e culturali del capostipite, Halloween Ends conclude la trilogia requel con una dose di coraggio e personalità che non possono essere ridimensionate in un periodo storico fortemente ancorato alla memoria e alla reiterazione costante del passato, al netto di imperfezioni e oggettivi limiti che a mio avviso non pregiudicano la riuscita della pellicola.

martedì 18 ottobre 2022

ATHENA: WAR MOVIE TRA LE BANLIEU

Dopo essersi fatto conoscere in tutto il mondo per alcuni tra i videoclip musicali più audaci dell'ultimo decennio, Romain Gavras, figlio del noto cineasta greco Costas-Gavras, presenta all'ultima edizione del Festival di Venezia il suo terzo lungometraggio: Athena. Pur senza ricevere una distribuzione in sala per quanto concerne l'Italia, il film ha attirato fin dalla proiezione al Lido opinioni contrastanti, soprattutto sul versante della narrazione e del suo rapporto con il versante più politico dell'attuale panorama cinematografico francese, esemplificato da quel Ladj Ly che firma la sceneggiatura dell'opera in analisi. Scopriamo se, come quasi sempre accade, la verità non si trovi semplicemente a metà tra le due barricate.

La pellicola racconta, in tempo reale, l'esplosione di una rivolta tra le banlieu parigine in seguito alla morte del giovane Idir, attribuita immediatamente a un eccesso di violenza da parte della polizia. In particolare al centro del racconto si trovano le diverse reazioni all'accaduto da parte dei fratelli del ragazzo: Karim (Sami Slimane) guida le sommosse, che troveranno il proprio cuore nel fittizio quartiere che dona il titolo al film, Moktar (Ouassini Embarek) pensa unicamente a proteggere i propri loschi affari dalle interferenze degli agenti, mentre Abdel (Dali Benssalah), soldato tutto d'un pezzo, si trova diviso tra il desiderio di mantenere l'ordine e il dolore per il lutto.

Fuorviati probabilmente dagli oggettivi punti di contatto con I miserabili (Les Misérables, Ladj Ly, 2019), molti recensori hanno accusato Athena di pressappochismo in relazione al contesto socio-politico che mette in scena o di vuota spettacolarizzazione, tradendo a mio avviso la reale dimensione di quest'ultimo. A differenza del succitato vincitore del premio della giuria al Festival di Cannes del 2019, il lungometraggio in analisi mostra con una certa fierezza una compattezza, a partire dal minutaggio, e uno schematismo narratologico tipico del cinema di genere, con una predilezione per il war movie. Fin dallo straordinario e lunghissimo piano sequenza che apre le danze lo spettatore viene progressivamente immerso in un ambiente urbano che assume immediatamente le coordinate ambientali e di dinamiche tra i personaggi topiche del cinema bellico: l'insistenza con cui la cinepresa resta costantemente vicina a Karim nel corso di esplosioni di fumogeni, scontri con le forze dell'ordine e inseguimenti in auto porta subito alla mente quanto visto in opere come 1917 (Sam Mendes, 2019) e Dunkirk (Christopher Nolan, 2017), che tentano di abbattere la barriera tra schermo e pubblico con una potenza sensoriale capace di rendere quest'ultimo estremamente partecipe del clima da battaglia proiettato. Sfruttando anche la lezione proveniente dal mondo videoludico Gavras riduce al minimo gli stacchi di montaggio, elimina completamente il classico découpage fondato su campi e controcampi, così da rendere la cinepresa una sorta di avatar dello spettatore inserito nel pieno della narrazione, raggiungendo una sorta di limbo tra la partecipazione parzialmente passiva del fruitore filmico e quella totalmente attiva del videogiocatore. Il risultato è uno showcase di cinema incalzante e esasperatamente dinamico, in pieno sincretismo con il racconto di un assedio che sfocia in battaglia campale, sulla scia di altri capisaldi del genere che si tinge di indagine sociale come Distretto 13 - Le brigate della morte (Assault on Precint 13, John Carpenter, 1976) o il connazionale Banlieue 13 (Pierre Morel, 2004).

Ulteriore conferma della sostanziale volontà di schierarsi all'interno di un panorama fortemente inserito negli schemi di genere, soprattutto action e bellico, è la dichiarata, fin dal titolo, ispirazione alla tragedia attica di Eschilo e Sofocle. Al di là del rispetto delle regole codificate dalla Poetica aristotelica, il film racconta in primo luogo la lotta di un nucleo familiare contro un Fato avverso a cui, nonostante gli sforzi, nessuno può sottrarsi. Sebbene i fratelli protagonisti dell'intreccio reagiscano ognuno a proprio modo alla perdita del più piccolo di casa, ciascuno percorre la sua personale discesa verso gli Inferi di omerica memoria arrivando a comprendere di non avere alcuna speranza di redenzione. Esemplare di tale dimensione tragica risulta la figura di Abdel, le cui intenzioni pacifiche e di stoico rispetto dei valori che la propria divisa rappresentano si trova a scontrarsi con la rabbia di un popolo intero e del suo io più profondo, portandolo inevitabilmente a un baratro fin troppo vicino a quello di eroi classici quali Oreste o Edipo. Un'ascendenza dalla più antica forma di rappresentazione di sé occidentale che però diviene modello narrativo anche per molti autori di pellicole d'azione e d'assedio come Walter Hill, i cui celebri I guerrieri della notte (The Warrior, 1979) e I guerrieri della palude silenziosa (Southern Comfort, 1981) nascono esattamente come versioni urbane delle immortali drammaturgie sofoclee.

Dove sta dunque la verità su Athena? Come sempre negli occhi di ogni singolo spettatore, che però prima di visionare e giudicare l'operato di Gavras ritengo debba inserirlo nel giusto contesto artistico (war movie e action movie) per poter godere senza fraintendimenti dell'ipercinetismo dei suoi 97 minuti.

giovedì 7 luglio 2022

MISSION: IMPOSSIBLE 2: WOO TRA BLOCKBUSTER D'AUTORE E MITOPOIESI CLASSICA

Nel corso dell'articolo dedicato a Mission: Impossible - Fallout (Christoper McQuarrie, 2019) avevo sottolineato come il regista avesse impresso una svolta fortemente serializzata al franchise, legando in maniera inscindibile narrazione e stile dei capitoli da lui firmati in maniera non dissimile da quanto accade con il Marvel Cinematic Universe. Una vera rivoluzione se si torna alle origini della saga, in particolare ai primi tre capitoli, tutti diretti da artisti diversi come veri e propri standalone sequel a là 007 senza rinunciare minimamente alla propria individualità. Tra questi spicca il primo sequel, Mission: Impossible 2, diretto nel 2000 da John Woo, reduce dal suo primo successo negli States con il capolavoro Face/Off (1997). Un incredibile successo commerciale, tanto da divenire il miglior incasso dell'anno al box office mondiale, ma con una folta schiera di detrattori, specie tra i recensori dell'epoca.

Come accennato nel finale del predecessore (Mission: Impossible, Brian De Palma, 1996) Ethan Hunt (Tom Cruise) torna a lavorare per l'IMF, questa volta con il compito di recuperare una pericolosissima arma biologica nota come Chimera, rubata dal suo ex collega Sean Ambrose (Dougray Scott) nel corso di un dirottamento aereo. L'unico modo per poter avvicinare l'uomo è quello di sfruttare il suo punto debole, l'amore per la ladra professionista Nyah (Thandiwe Newton). Durante il reclutamento però quest'ultima e il protagonista finiscono per innamorarsi, aumentando a dismisura il coinvolgimento emotivo della missione.

Come accennato in precedenza Mission: Impossible 2 si limita a riproporre solamente alcuni dei cardini narrativi del primo capitolo, con un unico personaggio a tornare in azione oltre all'eroe (Luther, interpretato ancora una volta da Ving Rhames), proprio alla stregua di quanto occorso per decenni con le imprese di James Bond. La discontinuità è dunque la parola chiave per questo sequel, dove la riconoscibilissima mano di De Palma viene sostituita dall'altrettanto unica firma di John Woo, alla quale si adatta perfettamente la sceneggiatura del veterano Robert Towne. L'evidente tributo nei confronti di Notorious (Alfred Hitchcock, 1946) oltre a confermare l'amore del cineasta asiatico verso il maestro del brivido già esplorato in Once a Thief (John Woo, 1991) rivela quanto al centro del racconto vi sia soprattutto la love story tra i due protagonisti, nel pieno rispetto della propensione del regista a nascondere tra le maglie di tutti i suoi action più celebri una vena melò fondamentale per comprendere la sua visione della settima arte. Paradigmatico in tal senso non è soltanto la lunga sequenza di corteggiamento automobilistica tra i due amanti, in cui la instancabile cinepresa dell'autore di Hard Boiled (John Woo, 1992) trasforma un pirotecnico inseguimento ad altissima velocità in una danza paragonabile a un tango, ma soprattutto la puntualità nel far sì che ogni singolo momento di reale suspense sia legata alla compromissione tra dovere e interessi personali, ragione e sentimento, come nella magistrale scena all'ippodromo e il suo efficace ricorso sistematico al montaggio alternato. Sebbene al triangolo amoroso manchi la beffarda introspezione riservata al villain vista nel classico hitchcockiano, Woo riesce a limare la manichea contrapposizione tra il buono Ethan e il perfido Sean mettendo in risalto tutto ciò che invece li accomuna. Le straordinarie capacità dei due, l'appartenenza per molti anni alla medesima agenzia governativa e, soprattutto, i continui scambi d'identità resi possibili dalle maschere già utilizzate da De Palma riportano alla mente il tema del doppio e del conflitto interiore stevensoniano di Face/Off, sfumando così confini altrimenti piuttosto netti in sede di sceneggiatura.

Come mai resta comunque, al netto della dialettica Hunt/Ambrose, una contrapposizione così decisa tra bene e male? La ragione risiede nel comune amore di screenwriter e director per la mitopoiesi classica e dunque per il fortissimo senso morale che permea il lungometraggio. La scelta di mettere al centro dell'intrigo internazionale virus e relativo antidoto dai nomi riecheggianti la mitologia greca non resta al livello di semplice strizzatina d'occhio, bensì evidenzia da subito come la narratologia più pura e arcaica sia il modello perseguito. A seguito di tale dichiarazione d'intenti Tom Cruise, simbolo a sua volta dell'eroismo contemporaneo rappresentato dal divismo hollywoodiano, assume i panni del semidio Bellerofonte, mentre la sua nemesi quelli del mostro Chimera, destinati, come puntualmente accade nel finale, a uno scontro in singolar tenzone, in pieno stile omerico, per decidere chi avrà la meglio tra la luce e le tenebre, tra giustizia e vigliacco egoismo. Ethan, plasmato dall'occhio di Woo, incorpora una caratterizzazione non così distante dai precedenti protagonisti della filmografia del creatore dell'heroic bloodshed: per la prima volta lo si vede ricorrere senza troppi problemi alle armi da fuoco e, soprattutto nel corso dello shootout a Sydney, imbraccia la coppia di pistole rese iconiche da Chow Yun-fat, affronta in pieno volto lo schieramento nemico come un fiero guerriero da wuxia dando il via a una danza ritmata da una tempesta di pallottole al ralenti.

Accusato al momento della distribuzione di puro calligrafismo a discapito di qualsivoglia sostanza, Mission: Impossible 2 rappresenta a mio avviso un capitolo essenziale nell'opera di uno dei più grandi autori del genere, in cui peraltro per la prima volta dona anche a un personaggio femminile la stessa gravitas eroica solitamente riservata in passato agli uomini, confermando ulteriormente l'ispirazione ai modelli greci. Se a questo si aggiunge la pressoché totale o quasi scomparsa dal panorama attuale di film ad alto budget girati con una tale personalità non vi resta che riscoprire questa perla inaugurale del terzo millennio.

martedì 21 giugno 2022

VENDICAMI: JOHNNIE TO TRA ESCHILO E NEO-NOIR

Erede di quell'heroic bloodshed inaugurato nel corso degli anni Ottanta da John Woo con il seminale A Better Tomorrow, Johnnie To rappresenta ormai da almeno due decenni una certezza all'interno del cinema di genere, al punto da aver assurto ormai la considerazione di auteur persino dai più prestigiosi festival internazionali. Proprio in concorso al Festival di Cannes del 2009 il cineasta di Hong Kong presenta Vendicami (Fuk Sau in originale cantonese), sua prima produzione internazionale con cast e location in buona parte francesi. Il film ottiene ottimi riscontri dalla critica e persino un discreto successo al botteghino, considerano la distribuzione limitata all'on-demand negli Stati Uniti, permettendo a un più ampio pubblico di avvicinarsi all'opera di un maestro ancora non così popolare nel Vecchio continente.

Protagonista della pellicola è François Costello (Johnny Hallyday), uno chef la cui famiglia è stata decimata dall'attacco di alcuni sicari, che hanno lasciato in vita, seppur in gravissime condizioni, soltanto la figlia. Deciso a vendicarsi a ogni costo, l'uomo assolda alcuni killer professionisti a Hong Kong per scoprire l'identità degli assassini e del mandante della strage per poi restituirgli il favore. La già complessa missione viene però resa ancor più difficile dalle condizioni di salute del protagonista, la cui memoria peggiora gravemente giorno dopo giorno.


Persino da questa sintetica sinossi appare chiara la ben riconosciuta affinità tra Vendicami e Memento (Christopher Nolan, 2000): due uomini comuni che si trasformano in angeli vendicativi dopo aver perso ciò che amavano di più, nonostante delle peculiari forme di amnesia ne rallentino il raggiungimento dei propri scopi. I punti in comune però finiscono qui, riducendosi dunque alla più basica fase di creazione del soggetto, poiché per quanto concerne scrittura, estetica e poetica To e Nolan seguono binari completamente diversi, se non nella comune ispirazione a una delle più antiche forme di rappresentazione di sé a oggi conosciute: la tragedia attica. In entrambi i casi la perdita di memoria non può non richiamare alla mente la dialettica tra la strenua volontà dell'eroe e l'ineluttabilità di un fato avverso tipici delle opere di Eschilo, Sofocle ed Euripide, con in particolare il primo a configurarsi come vero e proprio paradigma per questo tipo di racconto. Costello, seppur motivato da sentimenti fin troppo comprensibili per qualunque essere umano, intraprende una strada eticamente e filosoficamente destinata fin da subito a una rovinosa caduta. La vendetta nasce epistemologicamente come impresa fallimentare per eccellenza, in quanto causata da una perdita che nessuna forza naturale può restituire e, cristianamente parlando, da una proiezione dell'io del vendicatore verso gli stessi peccati commessi dall'oggetto dell'atto di ritorsione. Come un novello Oreste di eschilea memoria, lo chef non può realmente pensare di non dover pagare un prezzo altissimo per restituire il torto subito ai killer prezzolati che hanno ucciso suo genero e i nipoti, eppure sceglie stoicamente di perseguire l'unico obiettivo rimastogli, nonostante sua figlia (il cui destino viene lasciato in sospeso) sia ancora in vita. 

Neanche la crescente precarietà della propria memoria riesce a bloccare il meccanismo in atto ed è a questo punto che ritorna un punto di contatto con il capolavoro nolaniano: ha davvero senso l'azione dell'uomo nel momento in cui neanche ricorda ciò che deve fare e perché? Se la vendetta consiste in una reazione uguale a un abuso subito, come può essere perpetrata se non esiste più traccia di quello stesso atto? Da queste domande il regista inglese opera una analisi sulle possibilità del cinema di mettere in scena i meccanismi intellettivo-emozionali di un uomo dall'io totalmente frantumato, To d'altro canto resta fedele al proprio stile all'insegna della dialettica tra violenza e lirismo per rappresentare la completa futilità della vendetta. Giocando sul contrasto tra le splendide coreografie delle scene d'azione, con la danza di pistole e proiettili ereditata dal già citato John Woo, e momenti di pura pace con i bambini di un'amica dei killer assoldati dal protagonista, il regista sottolinea proprio la totale assenza di qualunque prospettiva di appagamento nell'atto vendicativo. La perdita di memoria diventa dunque non un handicap, un ostacolo alla riuscita di un piano ben elaborato, bensì una condizione di alterità che permette a Costello di vivere in una sorta di bolla paradisiaca, dove non esiste il dolore passato ma solamente un eterno presente fatto di tranquillità e affetto sincero. Non a caso da questa dimensione quasi eterea sembrano esclusi gli uomini, la cui bestialità hobbesiana li condanna a un'eterna infelicità.

Pur non riuscendo a raggiungere i vertici della filmografia di To, Vendicami resta un neo-noir insitamente tragico, in cui le dilatazioni temporali tipiche dello stile dell'autore di Hong Kong ricordano allo spettatore quanto inconcludente sia l'uso della violenza, persino per le più nobili delle motivazioni.

lunedì 14 marzo 2022

THE BATMAN: DAL CINECOMIC AL COMING OF AGE NOIR

Sebbene il primo supereroe cronologicamente sia Superman e quello più in voga negli ultimi anni Spider-Man, è innegabile il clamore che generi nel pubblico, anche quello più generalista, una nuova incursione cinematografica di Batman, specialmente dopo il successo unanime della trilogia firmata Christopher Nolan e la diatriba concernente l'incarnazione snyderiana dal volto di Ben Affleck. L'attesa dunque per The Batman era alle stelle e, a giudicare dalle reazioni della critica di tutto il mondo e i numeri al botteghino, l'ultima fatica di Matt Reeves, arrivata nelle sale nostrane il 3 marzo del 2022, l'entusiasmo per l'Uomo pipistrello sembra tornato a divampare, rafforzando lo status mitologico del personaggio.

Ambientato durante i festeggiamenti di Halloween, nel corso del secondo anno di attività del vigilante, il film vede il Cavaliere oscuro (Robert Pattinson) aiutare il detective Gordon (Jeffrey Wright) nelle indagini per fermare un misterioso serial killer, autodefinitosi L'enigmista (Paul Dano), che sembra aver preso di mira tutte le figure di spicco all'interno della società di Gotham invischiate con i traffici illeciti del boss Carmine Falcone (John Turturro). Nel corso delle indagini una figura chiave diverrà la misteriosa Selina Kyle (Zoe Kravitz), i cui rapporti con l'organizzazione del gangster aiutano l'eroe a scoprire dettagli sempre più inquietanti sul caso in corso.

Come si evince da questa breve sinossi, The Batman, ben conscio del ruolo del suo protagonista all'interno dell'immaginario collettivo, evita di mostrare per l'ennesima volta l'episodio traumatico che trasforma il rampollo della famiglia Wayne in un solitario vigilante mascherato, senza per questo rinunciare a molti dei canoni della origin story fumettistica. La scelta di spostare la narrazione leggermente più avanti rispetto a quanto fatto dal succitato Nolan con Batman Begins (2005) da un lato rende più imprevedibile il racconto per i fan ma, soprattutto, offre la possibilità di affrontare i medesimi snodi nella concezione dell'eroismo da parte del protagonista e le riflessioni sulla doppia identità da un punto di vista inedito, inserendo nel tessuto appena esposto elementi provenienti da diversi generi o filoni cinematografici classici e moderni, in particolare noir e coming of age. 
Per quanto riguarda il primo, uno dei paradigmi estetico-poetici alle origini della cinematografia americana, l'insistenza sul lato oscuro della città, popolata di loschi individui che vivono di espedienti e ceti altolocati completamente invischiati nel malaffare, così come la presenza di una femme fatale al cuore dell'intreccio risultano palesi richiami a quanto girato da Hitchcock, Siodmak o Lang, così come i monologhi interiori espressi in voice over da un protagonista eticamente dilaniato. Certamente il punto di riferimento maggiore, da questo punto di vista, per Reeves, sia nella costruzione di alcuni personaggi che nell'uso insistito di alcuni colori per la fotografia di Greig Fraser è la versione postmoderna del genere, rappresentata dai crime metropolitani diretti da David Fincher, particolarmente Seven (1995) e Zodiac (2007).

Meno immediata, soprattutto da un punto di vista formale, ma altrettanto importante l'ispirazione nei riguardi del racconto di formazione. Per una di quelle misteriose affinità elettive che attraversano la storia del cinema, e dell'arte in toto, a pochi mesi dalla conclusione del 2021 The Batman riaccende i riflettori sulla condizione emotivo-esistenziale dell'orfano, riecheggiando quanto fatto da due pellicole completamente antitetiche ma, ognuna a modo loro protagonista del proprio anno di distribuzione: Zack Snyder's Justice League ed È stata la mano di Dio (Paolo Sorrentino). Ovviamente sarebbe impossibile realizzare una nuova incarnazione del Cavaliere oscuro senza in qualche modo scendere a patti con lo spartiacque nella vita di Bruce Wayne, d'altro canto l'autore di Cloverfield (Matt Reeves, 2008) prende le distanze dai propri predecessori mettendo in scena, al punto da rievocare alcune riletture fumettistiche contemporanee del personaggio (si veda Batman: Terra Uno di Geoff Johns e Gary Frank), un giovane uomo che si è sentito abbandonato dai propri genitori. Il miliardario interpretato con sguardo perso da Pattinson, proprio come il Fabietto sorrentiniano, vive la morte del padre e della madre non come un terribile accidente occorso ai due, bensì come un vero e proprio abbandono, lasciandolo del tutto solo in un mondo che porta qualunque innocente a "disunirsi". Rabbia, vendetta, totale incapacità di perdono nei confronti di chi si sporca la coscienza guidano il vigilante in maschera, lasciando totalmente da parte l'idea di una crociata che tenti di emulare i volari di altruismo incarnati dai coniugi Wayne tipica del canone più noto al pubblico. Proprio la tutt'altro che impeccabile aura morale di questi ultimi, così come il conflittuale rapporto con il padre putativo Alfred (Andy Serkis), riportano quel Justice League nella versione originale di Snyder, permeato da una lunga serie di diverse sfumature della genitorialità e dei conflitti generazionali. Cyborg, alla stregua di Bruce, si trova a lottare tra l'innegabile affetto per chi lo ha messo al mondo due volte (fisicamente e metaforicamente come supereroe) e la ferita causata dai comportamenti tutt'altro che perfetti di quella che dovrebbe essere la sua figura di riferimento. Ecco dunque che The Batman assume proprio i caratteri tipici del coming of age, del confronto freudiano con i padri da parte del giovane, inevitabile per la propria maturazione a uomo adulto e caratterialmente definito. In fondo quale tipologia di racconto ha mai affrontato con maggiore attenzione la perdita dell'innocenza? E proprio a causa di questa dimensione sospesa, di adolescenza prolungata oltre i limiti anagrafici, Bruce Wayne appare totalmente assente, inglobato e messo in angolo per lasciare spazio alla vera personalità del protagonista. L'Uomo pipistrello, sembra affermare Reeves, non è ancora abbastanza maturo da poter gestire la maschera pubblica del miliardario playboy vista nelle precedenti incarnazioni del personaggio. Un teenager difficilmente riesce a reprimere il proprio vero io per pura convenienza sociale e il giovane supereroe non fa eccezione.

In definitiva The Batman fornisce ai fan una nuova, fresca e appagante reinvenzione di un mito ormai quasi centenario, offrendo al tempo stesso una risposta a chiunque pensi ancora che l'unica via al blockbuster contemporaneo sia la serialità fordista made in Disney. Warner Bros, quando evita di interferire con modalità quasi criminali nei confronti dei propri registi, sa di poter contare su una proposta ad alto budget dalle sfumature pienamente autoriali, pur essendosi lasciata andare l'attuale fautore di questa via al cinema da centinaia di milioni di dollari.

lunedì 28 febbraio 2022

I VAMPIRI: NASCITA DEL GOTICO ITALIANO

Quando si parla di cinema italiano nella maggior parte dei casi la mente viaggia tra i capolavori del Neorealismo, le risate amare della Commedia all'italiana e gli exploit contemporanei di autori come Sorrentino o Garrone, dimenticando però l'altra faccia della medaglia del periodo aureo della settima arte nostrana. In più di un'occasione ho accennato a una rinascita negli ultimi cinque o sei anni dei generi nel Belpaese ma quando è esplosa la diffusione di horror, peplum e gialli che hanno regalato fama internazionale a personalità quali Mario Bava e Dario Argento? Una data convenzionalmente accettata dagli storici è il 1957, anno di uscita de I vampiri, diretto da Riccardo Freda come sfida alla secolare estraneità della cultura italiana nei confronti del gotico e concluso proprio dal summenzionato Bava, a causa di dissidi tra il regista e i produttori negli ultimi giorni di riprese. Un titolo divenuto sinonimo della nascita dell'horror sul suolo italico ma merita ancora oggi una visione, al di là del ruolo di capostipite del genere? Scopriamolo.

 


Ambientato in una Parigi contemporanea, il film segue l'inchiesta del giornalista Pierre Latin (Dario Michaelis) sui misteriosi omicidi di giovani donne, tutte private del sangue come se a ucciderle fosse stato un vampiro. Alla continua ricerca di possibili indizi sul caso, il reporter deve gestire anche la corte dell'aristocratica Giselle Du Grand (Gianna Maria Canale), innamorata di lui come sua zia lo era del padre del protagonista.

 


Nonostante un titolo tanto diretto, I vampiri si presenta fin dalle prime sequenze come un parente piuttosto lontano dal filone iniziato dal seminale Nosferatu il vampiro (Nosferatu, eine Symphonie des Grauens, Friedrich Wilhelm Murnau, 1922). Pur senza rinunciare a topoi come la scelta di avvenenti donne in qualità di vittime e un'ambientazione tipicamente gotica come il castello della Du Grand, Freda attinge alla sua notevole cinefilia e all'esperienza di regista affermato per dare vita a una miscela di elementi provenienti dai più disparati riferimenti, al punto da rendere quasi irriconoscibile la matrice vampirica originaria. Tra mad doctor e sieri sperimentali di origine fantascientifica, una componente whodunit poeiana e la sopracitata ambientazione moderna, il cineasta nato ad Alessandria d'Egitto sceglie di dare vita a una propria lettura del mito dei non-morti, puntando su un'aderenza al reale che li rende un perfetto mezzo di critica sociale, anticipando in tal senso le istanze del New Horror americano degli anni Settanta.

Come confermato anche all'interno di interviste e della sua biografia, Freda vede nel vampirismo la smania delle generazioni più anziane di riacquistare il vigore perduto prelevandolo dai giovani, in un egoistico atto di ribaltamento della freudiana operazione di uccisione dei padri. A ciò si aggiunge, utilizzando come esempio di tale visione il personaggio della duchessa, una più politica riflessione sul rapporto tra il mondo contemporaneo e la decadenza dell'aristocrazia, ormai del tutto depauperata dei propri privilegi dall'ascesa borghese. In un ultimo tentativo di mantenere il proprio status si avventa sulla vitalità del motore della società attuale, attraverso strumenti del tutto moderni come chimica e chirurgia, privando il vampiro di quel sostrato erotico racchiuso nel gesto del morso sul collo.

 


Alle interessanti digressioni rispetto alla tradizione del filone esploso con il romanzo di Bram Stoker a fine Ottocento, Freda abbina una cura per la forma figlia di un'impostazione classicheggiante di ispirazione hitchcockiana, in totale opposizione alla sovraesposizione della macchina da presa resa popolare dal Neorealismo. Proprio come il maestro del brivido, l'autore italiano si mantiene costantemente in bilico tra la trasparenza registica hollywoodiana e momenti di virtuosismo attrattivo, resi ancora più evidenti dalla maestria nell'uso del bianco e nero da parte del direttore della fotografia Bava, che alle ascendenze espressioniste abbina straordinari effetti speciali, come l'indimenticabile trasformazione senza stacchi di montaggio di Giselle.

 


Vale dunque la pena recuperare I vampiri anche per chi non possiede particolari velleità di storia del cinema? Assolutamente sì: pur non essendo il miglior lavoro di un director raffinato come Freda, la sua originale interpretazione della figura del vampiro, insieme all'eccezionale impianto estetico lo rendono un titolo da riscoprire.


lunedì 14 febbraio 2022

SCREAM: IL REQUEL OMAGGIO AL PROFESSORE DELL'HORROR

Viviamo un periodo storico per il cinema, quanto meno americano, in cui la parola d'ordine sembra essere nostalgia. Alla prima ondata di remake e reboot cominciata agli albori del terzo millennio (senza contare che la pratica dei rifacimenti è sempre esistita, fin dai primi vagiti della settima arte) ne è seguita una all'insegna di sequel di franchise divenuti classici, nei quali aggiungere ai cast storici dei nuovi e più giovani protagonisti, dando vita a operazioni di soft-reboot ribattezzate da qualche anno con il termine "requel". Tra tentativi capaci ci centrare il bersaglio, rinverdendo saghe quasi del tutto sconosciute al pubblico sotto i trent'anni, e colossali buchi nell'acqua chi meglio del punto di riferimento pop per la riflessione metatestuale degli ultimi decenni poteva analizzare tale fenomeno? Mi riferisco a Scream, quinto seguito dell'originale diretto nell'ormai lontano 1996 da Wes Craven, affidato questa volta, vista la morte del proprio demiurgo, alla coppia Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillet. Distribuito nel corso delle prime settimane del 2022, il lungometraggio sta riscuotendo un notevole successo al box office, ben maggiore rispetto al quarto episodio (Scream 4, Wes Craven, 2011), e ottime recensioni, tanto da lasciare le porte aperte per ulteriori seguiti.

Ambientata esattamente a dieci anni dal massacro avvenuto nel corso del prequel, la pellicola vede nuovamente in azione una coppia di assassini travestiti da Ghostface, che perseguitano un gruppo di nuovi protagonisti, tutti però imparentati con vecchie conoscenze per i fan della saga. In particolare a essere colpita per prima è Tara (Jenna Ortega), che sopravvive miracolosamente all'incontro con il killer e, indirettamente, convince la sorella Samantha (Melissa Barrera) a tornare a Woodsboro dopo averla abbandonata in piena adolescenza. Un terribile segreto legato al passato della giovane sembra il vero movente dei villain e ad aiutare il gruppo di amici di Tara a sopravvivere sarà il trio nato dalla penna di Kevin Williamson, costituito da Sidney (Neve Campbell), Linus (David Arquette) e Gale (Courtney Cox).

Come per ogni capitolo del franchise indugiare oltre nella trama rischierebbe di rovinarne uno dei cardini, ossia il piacere della scoperta dell'identità degli assassini, in pieno spirito da giallo deduttivo. Scream, per quanto concerne la fedeltà all'operato del suo originale regista, si dimostra estremamente rispettoso, tanto da non nascondere neanche per un secondo l'intento della nuova coppia di director di omaggiare il maestro scomparso nel 2015. L'incipit da questo punto di vista è quanto mai rivelatorio: un vero e proprio remake della prima, iconica, sequenza del film datato 1996, del quale riprende soluzioni visive, canovaccio, inserti metacinematografici e la beffa dei rinforzi che arrivano troppo tardi per la "vittima", che stavolta però sopravvive alla prima apparizione di Ghostface. Una variazione sul tema, tutt'altro che banale, che introduce quello che poi diviene il leitmotiv dell'intero lungometraggio: il concetto di requel nel panorama contemporaneo, ben oltre la nicchia rappresentata dal filone slasher. Prendendo come modello principalmente gli Halloween di David Gordon Green e la trilogia sequel di Star Wars (esilarante quanto sagace l'easter egg dedicato allo Stab diretto da Rian Johnson), Bettinelli-Olpin e Gillet recuperano in parte le riflessioni sul reboot operate da Scream 4, offrendo però uno sguardo di sarcastica critica alla più fresca tendenza di celarlo dietro le maglie di un sequel in cui compaiono ancora gli eroi storico del franchise, così da poter catturare sia l'attenzione dei vecchi fan che le generazioni più giovani.
Il vero obiettivo, però, dell'invettiva dei due registi si cela non tanto nell'ormai conclamata, presunta mancanza di innovazione di cui soffrirebbe Hollywood, bensì nella sempre crescente influenza del fandom nel lavoro dei creativi. A partire in particolare dal più noto fenomeno di fanatismo legato alla celluloide, ovvero il già citato Star Wars, il web 2.0 ha reso sempre più facile per gli appassionati interagire con i propri beniamini e rendere pubblici i loro desideri nei confronti delle nuove iterazioni delle saghe che tanto amano. Ciò ha portato, inevitabilmente, a una certa sudditanza delle case di produzione nei riguardi delle tendenze su Twitter e Instagram e, dunque, a dover accontentare più possibile le richieste più popolari da parte dei fan stessi, così da scongiurare eventuali fallimenti al botteghino. Una situazione che rischia quasi di ribaltare le posizioni tra artisti e fruitori e che viene rappresentata con notevole arguzia dallo showdown finale del film analisi, con le motivazioni dietro gli omicidi che ricalcano proprio il desiderio degli appassionati di appropriarsi delle opere da loro amate al punto da farne una ragione di vita.

Siamo dunque dinanzi a un lavoro in grado di rivaleggiare o persino superare i capitoli diretti dal professore dell'horror? A mio parere purtroppo no, a causa di una certa superficialità nell'approccio al materiale poetico del franchise. Gli episodi diretti da Craven avevano ogni volta offerto nuove prospettive e argomenti di riflessione non soltanto sullo status del cinema horror e slasher in particolare, bensì avevano messo in evidenza l'evoluzione della spettatorialità dinanzi all'orrore filmico e a come questi sia in grado di raccontare e influenzare al tempo stesso il passaggio all'età adulta degli adolescenti, restando fedele ai temi cari alla propria filmografia. Un ulteriore step narrativo e filosofico ahimè assente in questo nuovo Scream, rendendolo un eccellente e accorato omaggio a un maestro, un ottimo esempio di requel in grado di riflettere sulla sua stessa natura ma non il quinto capitolo che avrebbero potuto partorire l'autore di Nightmare - Dal profondo della notte (A Nightmare on Elm Street, Wes Craven, 1984) e Kevin Williamson.

lunedì 24 gennaio 2022

MATRIX RESURRECTIONS: AMOR OMNIA (ET WARNER BROS) VINCIT

Per chiunque appartenga alle generazioni nate tra la fine degli anni Ottanta e i primi Novanta il 1999 è stato un crocevia cinematografico fondamentale, con un'abbondanza di titoli di qualità altissima che raramente si riscontra in una sola annata, all'interno della quale spicca però un cult assolutamente insostituibile: Matrix (The Matrix, Lana e Lilly Wachowski, 1999). Per affrontare in maniera quantomeno consona l'impatto sull'immaginario collettivo di quest'opera non basterebbe un intero saggio, eppure la coda del 2021 ha visto l'arrivo nelle sale di Matrix Resurrections (The Matrix Resurrections, Lana Wachowski) senza un briciolo del clamore scatenato dalla mania per la trilogia dipanatasi nei primi anni Duemila. Un quarto capitolo che, difatti, non si sta rivelando un grande successo al botteghino, complici anche le bizzarre scelte distributive made in Warner Bros in tempi di pandemia, mentre critica e fan storici si trovano divisi, con una leggera preponderanza dei riscontri favorevoli. Parliamo dunque dell'ennesima, discutibile, operazione nostalgica a cui stiamo diventando sempre più assuefatti? Anche di questo ci parla il film stesso.

Ambientato in un inizialmente imprecisato periodo successivo al finale di Matrix Revolutions (Lana e Lilly Wachowski, 2003), il lungometraggio vede Neo (Keanu Reeves) alle prese con una nuova versione della Matrice, in cui torna a vivere nei panni di Thomas Anderson, stavolta come game designer di fama mondiale, grazie proprio a una trilogia videoludica intitolata Matrix. Pur avvertendo di vivere un'esistenza lontana dall'essere davvero reale è soltanto l'arrivo di un gruppo di hacker provenienti dal mondo esterno, tra cui il capitano Bugs (Jessica Henwick) e una versione digitale di Morpheus (Yahya Abdul-Mateen II), a ricordargli chi sia davvero e restituirgli uno scopo: ricongiungersi con l'amata Trinity (Carrie-Anne Moss).

Alla stregua di quanto accaduto nel 1999, rivelare ulteriori brandelli di trama di Matrix Resurrections equivarrebbe a rovinare una parte non indifferente dell'emozione scaturita dallo script di Lana Wachowski, la quale, seppur orfana della sorella per la prima volta sia al cinema che in tv, esplora ancora una volta le tematiche più care alla coppia, riflettendo questa volta anche sulla saga che le ha consacrate al pantheon della settima arte, non senza una dose di notevole irriverenza. La prima metà dell'opera gioca continuamente con le aspettative e i ricordi di coloro che conoscono a menadito i prequel, permettendosi persino una sequenza iniziale speculare a quella del primo capitolo. Un espediente nostalgico fine a se stesso? Tutto l'opposto. La cineasta statunitense recupera l'intero background del passato per sbeffeggiare proprio la tendenza contemporanea al saccheggio di storie ormai classiche per mascherare un horror vacui creativo e umano imperante, dove Hollywood sembra credere che il pubblico sia affamato soltanto di già visto e minime variazioni sul tema. In particolare non può proprio passare inosservata la tagliente ironia con cui viene attaccata, davvero senza alcuna mezza misura, la Warner Bros stessa, rea di aver "costretto" l'autrice a tornare a lavorare alla saga in primo luogo per impedire alla casa di produzione di manipolare l'universo da lei creato, affidandolo a sceneggiatori e registi del tutto estranei a esso. Un vero e proprio atto di ribellione di un creativo verso il business dell'industria dell'intrattenimento fin troppo vicino ai temi di lotta contro il sistema insiti in ogni episodio del franchise e, di conseguenza, capace di fornire un'occasione estremamente ghiotta per fare del signor Anderson il perfetto avatar di Wachowski stessa. 

Siamo dinanzi, allora, a un grosso dito medio verso i perfidi piani alti di Hollywood da parte di un'artista sentitasi depauperata del proprio lavoro e nient'altro? Ecco un altro no. Terminata la prima, più metariflessiva, metà la pellicola si sposta più in profondità all'interno della diegesi inaugurata a cavallo dei due millenni, mostrando quanto continuino a essere spaventosamente attuali i quesiti posti allora dalle due registe ed efficace il percorso cristologico di Neo, stavolta con un ventaglio di influenze narrativo-filosofiche in cui risulta evidente la maturazione personale di Lana in seguito al cambio di sesso e alla creazione di opere fieramente personali come Cloud Atlas (Lana e Lilly Wachowski, Tom Tykwer, 2012) e soprattutto Sense8 (Lana e Lilly Wachowski, J. Michael Straczynski, 2015-2018). Proprio come quest'ultima, Matrix Resurrections mette del tutto o quasi in secondo piano l'epica tradizionale e la spettacolarità legata alle sequenze action (indubbiamente molto più deboli stilisticamente rispetto al passato) in favore dell'esplorazione di temi come l'uguaglianza al di là di qualsivoglia barriera esistenziale e la centralità dell'amore ben oltre ogni forma di violenza. Ecco dunque che la love story tra Neo e Trinity diventa il vero perno su cui si regge l'intera impalcatura del racconto, ricordando anche ai più maliziosi quanto fondamentale fosse l'apporto della più celebre hacker cinematografica in ogni svolta messianica del compagno, facendo sì che il finale risulti totalmente rispettoso non solo della visione anti-binaria dell'autrice, bensì anche della stessa mitologia creata con i prequel.

L'amore sembra essere così l'unica forza in grado di unire uomini e macchine, di abbattere una nuova versione della Matrice ancor più infida della precedente e persino la bieca avidità di alcune case di produzione. Parliamo di un film potente quanto il primo Matrix? Assolutamente no e forse neanche quanto Reloaded (The Matrix Reloaded, Lana e Lilly Wachowski, 2003) ma di un rarissimo esempio di blockbuster dotato di intelligenza, personalità e, soprattutto, amore. E tanto basta, in un biennio di tale aridità sentimentale e solitaria ignavia emozionale, a fare di Matrix Resurrections una delle opere più importanti del 2021.

martedì 4 gennaio 2022

È STATA LA MANO DI DIO: CULMINE E ORIGINE DEL REALISMO MAGICO SORRENTINIANO

Dopo aver raccontato con Le conseguenze dell'amore (Paolo Sorrentino, 2004) l'opera che lo ha confermato tra i migliori talenti del cinema italiano del terzo millennio, non posso esimermi dal dedicare una manciata di righe all'ultima fatica del cineasta partenopeo. È stata la mano di Dio, prodotto da Netflix ma con una discreta distribuzione anche in sala sul finale del 2021, segna il ritorno cinematografico di Sorrentino alla propria città natale, così come un nuovo inizio nel suo rapporto con critica e pubblico, sottolineato da numerose e prestigiose candidature internazionali e da un notevole passaparola tra gli spettatori.

Ambientato nella Napoli degli anni Ottanta, in preda al fervore per l'arrivo di Maradona nella squadra di calcio della città, il film racconta la forzata maturazione di Fabietto Schisa (Filippo Scotti), la cui adolescenza spensierata all'interno di una colorita famiglia borghese, viene sconvolta dall'improvvisa morte, causata da una fuga di gas, degli amati genitori (Toni Servillo e Teresa Saponangelo). Incapace di trovare un senso a quanto accaduto, il ragazzo capisce di potersi aggrappare solamente al suo sogno: diventare regista.

Come affermato a più riprese nel corso della sua promozione, È stata la mano di Dio rappresenta quanto di più autobiografico Sorrentino abbia mai scritto o diretto. Sebbene molto del suo carattere, delle proprie ossessioni e del suo passato fosse presente già nelle opere precedenti, così come molto di ciò che viene portato sullo schermo in questa sua più recente fatica sia del tutto immaginario, la pellicola presenta evidenti punti di contatto con la reale vicenda dell'ancora giovanissimo Paolo, la cui vocazione cinematografica nasce proprio a poca distanza dall'incidente che lo trasforma in orfano. Destino fatale a cui sfugge, proprio come il suo alter ego filmico, grazie all'intervento divino dell'idolo Maradona, a quei biglietti per la partita del Napoli che lo allontanano dal padre e la madre nel lasso temporale più importante.

La familiarità in cui si districa la cinepresa nel corso del lungometraggio no significa però che l'autore de Il divo (2008) perda di vista l'unicità del proprio sguardo e del suo modo di raccontare il mondo. Parafrasando quanto affermato in una delle sequenze chiave dell'opera dal regista Antonio Capuano (Ciro Capano), il director non si disunisce in nome dell'aderenza alla realtà, bensì sfuma il proprio magniloquente senso della composizione e il piacere per la battuta sagace con il vivido ricordo dell'indimenticabile Napoli del primo Scudetto, della spensieratezza precedente la caduta della Prima Repubblica ma anche del contrabbando di sigarette e degli status symbol kitsch assurti a palliativi per una miseria che non ha mai abbandonato l'ex capitale del regno borbonico. La filmografia sorrentiniana vive fin dagli esordi di un crescente realismo magico, fieramente ispirato alla negazione del Neorealismo operata da Fellini (del quale viene, non a caso, menzionata proprio l'affermazione secondo cui la realtà sia scadente) e all'idea di poter individuare sempre elementi di meraviglioso anche all'interno della più meschina delle milieu. In fondo la pellicola vive in primo luogo come riproposizione di ricordi dell'adolescenza del regista e non esiste episodio del passato che la memoria non mitizzi attraverso alterazioni della fattualità, rendendo in tal senso quanto mai opportuno per la narrazione lo stile sempre in bilico tra mondanità e fantasia di Sorrentino.

La grande novità rispetto alla precedente produzione del cineasta napoletano risiede, dunque, nel raccontare non più un uomo nel pieno della maturità e dei rimpianti per un'innocenza perduta molti anni addietro, bensì nel mostrare finalmente il momento esatto di quella perdita e, nel fare ciò, una reazione che, a giudicare dal finale e dall'autobiografismo fin qui descritto, porterà il protagonista a non disunirsi, come invece era successo al giovane Gep prima di inabissarsi nella squallida fauna romana ne La grande bellezza (Paolo Sorrentino, 2013). Fabietto, seppur ancora molto insicuro e distrutto dal "tradimento" causato dall'essere stato abbandonato dalle persone che più amava, capisce che il suo grande e forse stupido sogno può aiutarlo a convivere con il dolore, rifiutando l'escapismo del fratello maggiore e l'oblio pronosticatogli dalla baronessa, facendolo diventare finalmente Fabio, un uomo fatto e finito, capace di avere qualcosa di personale da raccontare, con l'aiuto delle tantissime storie che Napoli offre ogni giorno.

Sarebbe impossibile negare alla città, infatti, il ruolo di co-protagonista. Il film inizia con un lungo piano sequenza che parte dalle sponde del mare che la bagnano per arrivare poi nel suo cuore pulsante, fatto, non a caso, da quel misto di sacro e profano, miseria e nobiltà che rendono unico il capoluogo campano. Le strade, gli interni delle case, i costanti riferimenti al mare, non dissimili da quelli dell'unica altra pellicola della filmografia sorrentiniana ambientata nella sua amata terra, L'uomo in più (2001), diventano non solamente una manifestazione dell'interiorità del giovane Schisa (alla stregua della Roma de La grande bellezza), ma liriche disserzioni di una città che ogni suo abitante porta con sè ovunque vada. Solo apprezzando la centralità che questa possiede per il regista assume un senso estremamente pregnante ed emozionante la scelta di Napule è quale unica canzone all'interno dell'intera pellicola.

Fabio/Paolo ha imparato a non disunirsi non soltanto rispetto a se stesso, ai valori insegnatigli dagli amati genitori, al proprio sogno e al "disprezzo" per una realtà scadente, ma anche nei confronti di un luogo dell'anima che soltanto chi non ha mai visitato neanche per un giorno può non amare.