venerdì 28 dicembre 2018

INFERNO: LA FIABA SECONDO DARIO ARGENTO

Benché siano passati già sei anni dal suo ultimo film (Dracula 3D, 2012) Dario Argento resta uno degli autori italiani più riconosciuti sia in patria che nel resto del mondo, dove forse gode di una fama anche maggiore, data il solito e pessimo malcostume italico di denigrare le nostre eccellenze. Per la maggior parte degli appassionati della settima arte, così come per lo spettatore "casual", Argento è sinonimo di Profondo rosso (1975) o di Suspiria (1977) così oggi ho deciso di riportare all'attenzione una delle sue pellicole più controverse: Inferno del 1980. Concepito come secondo capitolo di una trilogia incentrata sulle luciferine Tre Madri e originata dal già citato Suspiria il film si rivela una cocente delusione per il cineasta romano sia da un punto di vista commerciale, a causa soprattutto della mancata distribuzione internazionale su larga scala, che critico, determinando una battuta d'arresto nell'affermazione mondiale dell'autore all'interno del circuito mainstream.

L'esile racconto messo in scena nel corso dei centosei minuti del lungometraggio ruotano attorno alla scoperta della leggenda delle Tre Madri, tre esseri infernali rinchiuse dall'alchimista e architetto Emilio Varelli in altrettanti edifici costruiti a Roma, New York e Friburgo. La poetessa Rose (Irene Miracle) compra da un antiquario proprio una copia del libro nel quale Varelli racconta il proprio rapporto con queste entità e si rende conto che l'antico palazzo nel quale vive rappresenta l'edificio americano nel quale è rinchiusa la Mater Tenebrarum, la più crudele del terzetto. Spaventata dalla situazione la donna chiede aiuto a suo fratello Mark, studente di musicologia a Roma, ma questi smarrisce la lettera inviatagli dalla sorella a causa della comparsa della Mater Lacrimarum (Ania Pieroni) durante una lezione. La missiva viene raccolta da Sara (Eleonora Giorgi), compagna di studi del giovane, che finisce per appassionarsi alla vicenda al punto però da essere uccisa nel suo appartamento insieme a un conoscente (Gabriele Lavia) al quale aveva chiesto protezione. Mark arriva a casa di Sara troppo tardi ma riesce a trovare alcuni frammenti della lettera di Rose che lo convincono definitivamente a raggiungere New York in cerca della sorella.

Dal mio, devo ammetterlo, piuttosto goffo tentativo di imbastire una breve sinossi di Inferno appare evidente come questi rifiuti categoricamente e fin dalla sua prima sequenza ogni pretesa di narrazione forte e di aderenza alla verosimiglianza. Se già Suspiria rappresentava una inesorabile discesa dal reale verso il sogno, o meglio l'incubo, con l'irrompere di elementi fantastici in un contesto verosimile fino a prendere il sopravvento nel suo seguito Argento abbandona definitivamente la forma narratologica classica per imbastire un percorso onirico, metaforico, ricco di suggestioni simboliche che appartengono prettamente al mondo della fiaba. Così come Cappuccetto Rosso o Hansel e Gretel, la coppia fratello/sorella formata da Rose e Mark compiono un percorso attraverso un luogo archetipico che li porta a discendere verso le viscere della Terra fino a dover affrontare un aguzzino proveniente da una dimensione altra rispetto a quella immanente, ovvero la Mater Tenebrarum e Varelli. Quest'ultimo in particolare assume il ruolo di vero demiurgo non solo di tutto ciò che accade su schermo ma persino degli ambienti nei quali si svolge l'azione, dei tempi e delle modalità della stessa, operando come un dio creatore o come un regista cinematografico. Dunque potremmo definire l'alchimista italiano un doppio dello stesso autore di Phenomena (1985), al quale lo accomuna la medesima passione per una ricerca e un lavoro creativo scevro dai vincoli imposti dai vincoli della logica e del metodo scientifico (spesso il cinema viene definito magia, proprio come molti caratteri magici sono presenti nell'alchimia), così come entrambi finiscono per dover subire in prima persona le conseguenze del loro operato, grandioso certamente ma anche doloroso (è importante ricordare quanto Argento sia stato preso di mira da attacchi moralisti per la violenza dei suoi film e anche le difficoltà vissute durante la produzione dello stesso Inferno).

Appurando la natura essenzialmente fiabesca e antirazionale della pellicola in analisi non solo perde ogni senso una critica verso le presunte incongruenze lamentate da molti detrattori ma soprattutto assume un valore tutt'altro che inutilmente virtuosistico l'enorme lavoro visuale svolto dall'autore, coadiuvato in alcune sequenze persino dal maestro Mario Bava per la creazione di alcuni effetti ottici. Proprio le influenze del regista di Terrore nello spazio (1965) risultano evidentissime nel ricorso a soluzioni cromatiche e luministiche assolutamente antinaturalistiche (si pensi alla presenza fortissima del rosso e del verde) e Argento le utilizza con grande padronanza della messinscena per evidenziare la discesa verso gli inferi operata soprattutto da Rose in una delle primissime sequenze, dato che i medesimi colori erano stati utilizzati da Bava nell'atipico peplum Ercole al centro della Terra per il viaggio nell'oltretomba del protagonista. Persino i momenti maggiormente assimilabili all'iperrealismo visivo dei gialli girati dal cineasta romano a inizio carriera presenti nel film vengono sempre traslati, privati di ogni aderenza al reale tramite inquadrature ardite come soggettive impossibili o raccordi altrettanto liberi dai vincoli di leggibilità imposti dalla grammatica classica. Molti definiscono questo linguaggio estetico barocco nella sua accezione volgarizzante di preminenza della forma sulla sostanza ma credo che nel lungometraggio il vero spirito barocco sia designato dalla vertigine di simboli e immagini provenienti dalla vastissima conoscenza del suo autore/demiurgo, alchimista capace di plasmare un piccolo universo di straripante inventiva libera dalle catene delle proporzioni di gusto classico.
Inferno è dunque l'apoteosi, la deflagrazione pura e incontrastata dell'intero mondo chiamato Dario Argento, per la gioia di chi ama il suo cinema o semplicemente la settima arte più immaginifica e per il rammarico e la noia di chi cerca un racconto forte.

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