venerdì 6 settembre 2024

TRAP: SHYAMALAN CI RICORDA L'IMPORTANZA DELLA FORMA

Negli ultimi anni si è diffuso tra gli appassionati di cinema un certo malcontento nei confronti dell'offerta proveniente dagli Stati Uniti, accusata di adagiarsi su una mediocritas tutt'altro che aurea e una mancanza di idee che si manifesta in una lunga serie di remake, reboot, sequel, requel ecc. Quanto è singolare che in questo panorama tra i registi che più dividono vi sia M. Night Shyamalan, che nonostante una carriera ormai quasi trentennale ha sfornato solamente due sequel e porta avanti una visione filmica estremamente personale e riconoscibile. Il 2024 vede il suo ritorno alla regia con Trap, che potendo contare su un budget di medio livello può dirsi un successo commerciale ma spacca nettamente i pareri, sia degli spettatori comuni, sia della critica.


Il film vede Cooper (Josh Hartnett), pompiere e padre come tanti altri, accompagnare la figlia Riley (Ariel Donoghue) all'attesissimo concerto di Lady Raven (Saleka Shyamalan). Quello che scopre dopo una manciata di canzoni è che l'evento nasconde una trappola ordita dall'FBI per catturare il macellaio, un serial killer colpevole di più di dieci omicidi e che si cela proprio dietro il volto del protagonista.


Trap fin dal titolo mette in chiaro la connivenza tra due generi raramente accostati: il thriller di matrice hitchcockiana e il musical, in cui il commento sonoro assume la stessa importanza narrativa di quello che nel lessico operistico si definisce recitativo. Per questo motivo Shyamalan, che fin dai tempi de Il sesto senso (The Sixth Sense, 1999) aveva abbracciato la riflessione sulle possibilità dello sguardo attraverso l'uso della macchina da presa, pone una doppia sfida al pubblico, ovvero in prima istanza quella di identificarsi in piena consapevolezza con un assassino, successivamente con le figure femminili che tentano di fermarlo, tra cui una popstar. In passato già era accaduto che dei registi sfruttassero la grammatica filmica, come l'insistenza sui primi piani ad esempio, per connettere emotivamente lo spettatore con un personaggio razionalmente e moralmente ripugnante (si pensi ad Hannibal Lecter sia sul grande che sul piccolo schermo) ma l'autore di origini indiane mette alla prova l'efficacia di tali strumenti e la capacità di chi osserva di scindere tra ragione e sentimento, cervello e stomaco, esattamente come Cooper, che in una sequenza a casa sua afferma apertamente di vivere un volontario sdoppiamento tra la vita domestica e pubblica e quella del macellaio, grazie a cui riesce a mantenere un irreale equilibrio tra istinti omicidi e rispettabilità, oltre a un profondo amore verso i figli espresso fino all'ultimo. Per chi si trova dall'altra parte della quarta parete aderire al punto di vista dell'uomo significa anche sperimentare questa dialettica interiore tipica degli assassini sociopatici, una deriva estrema di un fenomeno di dissipazione dell'empatia da cui è affetta l'intera nostra contemporaneità, come diventa evidente a più riprese nella pellicola: dai commenti totalmente fuori luogo dei fan alla live sui social in cui Lady Raven chiede aiuto perché qualcuno liberi il ragazzo imprigionato da Cooper fino all'ossessione dell'addetto al merchandising per il serial killer e le sue imprese, visto alla stregua di un eroe.

La stesso distanziamento empatico vissuto tra le diverse generazioni che assistono al concerto. Un evento che, oltre a citare altri maestri della suspense ripresa in diretta come il già citato Hitchcock ma anche Brian De Palma, viene girato con il linguaggio proprio della musica dal vivo e così evidenzia la totale mancanza di sintonia e, conseguentemente, la divergenza di sguardo tra le adolescenti che vivono con sincera partecipazione il live e i genitori che le accompagnano, chiaramente distaccati emotivamente e intellettualmente da ciò che li circonda. L'insistenza della cinepresa su una moltitudine di schermi però ricontestualizza l'amato split-screen dell'autore di Omicidio in diretta (Snake Eyes, Brian De Palma, 1998) per denunciare la distanza che si crea anche tra le fan e il loro idolo, di cui non riescono realmente a percepire la dimensione umana e pertanto istintivamente posizionano costantemente un filtro tra di essi, lo stesso peraltro a cui spesso ricorrono per dare un senso maggiormente comprensibile a un reale la cui percezione viene sempre più ovattata da chi vorrebbe proteggerli nei riguardi del male che il mondo nasconde. Esattamente ciò che fa Cooper per Riley, con la sola differenza che in questo caso è il mostro dentro di sé la minaccia.


Tutto questo e molto altro in Trap non si evince attraverso interminabili conversazioni o monologhi stantii, bensì grazie a ogni singolo movimento di macchina, stacco di montaggio, sovrapposizione visivo-sonoro che Shyamalan mette in scena, ricordandoci che il cinema, come tutte le arti, è soprattutto una questione di forma espressiva e di abilità nel manipolare l'occhio del fruitore. Se non riusciamo ad apprezzare un affabulatore in grado di riportarci al senso più profondo e primigenio della rappresentazione di sé forse dovremmo interrogarci almeno quanto Cooper.

lunedì 2 settembre 2024

THE FIRST SLAM DUNK: BILDUNGSROMAN E REMAKE DA MANUALE

C'era una volta (boomer nostalgico mode on) un mondo in cui Netflix non esisteva e il panorama anime si distribuiva sui palinsesti televisivi, segnando un appuntamento orario imperdibile e irripetibile perché il bingewatching era un concetto estraneo anche alla fantascienza e chi non si sintonizzava all'orario giusto davanti a quell'ingombrante tubo catodico rischiava di perdersi la trasformazione in super saiyan di Goku o la battaglia finale tra Seiya/Pegasus e il corrotto gran sacerdote delle dodici case. In questo contesto molti come me si sono innamorati di Slam Dunk (Nobutaka Nishizawa, 1993-1996), anime a tema sportivo tratto dall'omonimo manga ideato da Takehiko Inoue tra 1990 e 1996 in cui la testa calda Hanamichi Sakuragi si unisce a un altrettanto colorito team di basket liceale arrivando a sfiorare il titolo nazionale. A distanza di quasi venti anni dalla conclusione del fumetto il suo stesso autore, dopo una gestazione quindicennale, ritorna a quell'universo narrativo che ne ha lanciato la carriera scrivendo e dirigendo The First Slam Dunk (2022), film campione di incassi in Giappone universalmente acclamato dalla critica di tutto il mondo.


La pellicola adatta per il grande schermo uno dei momenti più importanti dell'originale cartaceo, la partita del campionato nazionale tra lo Shohoku, squadra dei protagonisti, e il Sannoh, istituto superiore con una tradizione cestistica invidiata in tutto il paese. Il match viene intervallato da una serie di flashback e momenti intimi legati a tutti i giocatori del team sfavorito, con particolare attenzione però per Ryota Miyagi (Shugo Nakamura), playmaker del quale viene rivelato per la prima volta il passato tormentato dalla perdita del padre e dell'amato fratello maggiore.


Viviamo anni estremamente legati al passato , specie per alcune fasce di età, motivo per cui cinema e serialità cavalcano quest'onda sfornando una moltitudine di remake, reboot, requel, sequel spirituali e chi più ne ha, più ne metta. L'idea di questo The First Slam Dunk potrebbe far pensare all'ennesimo tentativo di guadagnare sulla nostalgia dei Millennials ma bastano i primi minuti a smentire qualunque retropensiero. Dal tratto fumettistico iconico dell'autore di Vagabond (1998-2015) la macchina da presa passa a una commistione tra animazione digitale e tradizionale capace di donare movimento e conseguentemente vita ai disegni del mangaka, superando la capacità di fedeltà nell'adattamento anche dell'anime, e al contempo rendere la partita uno spettacolo visivo quasi indistinguibile da quelli dell'NBA visti in tv, con tanto di tecniche di montaggio e inquadrature acquisite proprio da quel linguaggio. A tale riuscito mix di grammatiche provenienti da diversi media Inoue aggiunge un'ulteriore strategia atta ad arricchire il pathos e il coinvolgimento dello spettatore tramite un costante ricorso a cambi di ritmo e altre manipolazioni temporali: accelerazioni improvvise quando il cuore (non a caso citato a più riprese dai personaggi) dei protagonisti batte a velocità inusitate per la fatica e la paura di non essere all'altezza dei fortissimi avversari, bruschi rallentamenti per soffermarsi sugli stati d'animo dei personaggi e sugli eventi personali che li hanno portati a dare letteralmente tutto per quella partita.

A proposito di non sentirsi all'altezza, sentimento tipico dell'adolescenza che molti di noi hanno provato a più riprese in quegli anni, lo spettacolare match sportivo messo in scena quasi in tempo reale rappresenta a tutti gli effetti un simbolo di quei riti iniziatici che segnano il passaggio dall'infanzia all'età adulta. Sebbene ognuno dei cinque titolari dello Shohoku godano di una certa introspezione, come ad esempio Mitsui (Jus Kasama) e il suo ambivalente rapporto con la pallacanestro, il centro emozionale e strumento attraverso cui percorrere questa delicata fase dell'esistenza è Ryota. Il regista del team, che in quanto tale determina tutti i movimenti dei compagni ma per fare questo li osserva più da vicino di qualunque altro spettatore, diventa l'osservatore privilegiato di quanto accade sul parquet per noi dall'altra parte della quarta parete ma, soprattutto, il filtro soggettivo dell'intera vicenda, poiché ciò a cui assistiamo è il suo momento. Troppo basso per uno sport in cui i fuoriclasse solitamente superano i due metri, poco talentuoso, seppur dotato di velocità non comuni e grandissima tecnica di palleggio, rispetto al fratello che non c'è più, troppo immaturo per fare da supporto a madre e sorellina. Il confronto con chi non c'è più è così impari da spingere il ragazzo a scrivere una lettere, che poi getta via, in cui esordisce chiedendo scusa al genitore perché a sopravvivere è stato il figlio sbagliato. In una sola, desolante frase è racchiuso l'intero mondo di insicurezze, dolore, rabbia e incapacità di esprimere sé stessi che caratterizza l'adolescenza, ancor di più forse in quella terra di mezzo che sono stati gli anni Novanta di cui è imbevuta la creatura di Inoue, quelli del disagio esistenziale cantato da Nirvana prima e Linkin Park poi e portati su schermo da David Fincher con Fight Club (1999). In questo caso, però, la tendenza autodistruttiva del giovane, che del resto condivide anche con tutti gli altri giocatoti dello Shohoku, persino l'allegro Sakuragi pronto a fare a botte con chiunque pur di affermare la propria esistenza a un mondo che altrimenti lo ignorerebbe, non si risolve in conseguenze funeste: la comunanza tra i cinque, quel gioco di squadra che decreta la differenza tra successo e insuccesso nello sport diventa ancora di salvezza anche a livello personale, nella partita della vita in cui, qualche volta, anche degli outsider che hanno subito pugni e calci continui dal destino riescono a togliere la gloria a chi ha sempre goduto del sorriso del fato.


The First Slam Dunk è letteralmente il cerchio che si chiude per un racconto iniziato decenni fa, una generazione, l'annosa dialettica tra animazione tradizionale e digitale, le coordinate su come si possa ritornare su una propria opera passata con qualcosa di nuovo da comunicare e il passato in toto. Un Bildungsroman da manuale in ogni sua componente.

giovedì 1 agosto 2024

CONAN THE BARBARIAN: ESTETICA E PASSIONE MA EPICA NON PERVENUTA

Tra i nomi meno apprezzati (per evitare termini più forti e che neanche dovrebbero essere accostati all'arte) dai cinefili che hanno iniziato ad amare il cinema nei primi anni Duemila c'è di sicuro Marcus Nispel, reo di aver diretto principalmente reboot di classici, a loro volta in realtà fortemente osteggiati quando furono originariamente distribuiti. Mentre oggi almeno Non aprite quella porta (The Texas Chainsaw Massacre, 2003) gode di una certa rivalutazione, specie tra chi ha avuto modo di avvicinarsi a quella saga proprio tramite questo titolo, indubbiamente l'opera meno amata del regista tedesco resta Conan the Barbarian, reboot del dittico tratto dai racconti di Robert E. Howard girato in stereoscopia nel 2011. Accolto con recensioni in gran parte negative e incassi ben al di sotto delle aspettative per un blockbuster, scopriamo, con la giusta distanza critica permessa dai quasi quindici anni trascorsi, cosa riserva allo spettatore odierno.


La pellicola, ambientata nell'immaginaria era hyboriana, segue il percorso di vendetta del cimmerio Conan (Jason Momoa), guerriero che ha perso tutto il suo clan e suo padre (Ron Perlman) a causa delle mire dello spietato Khalar Zym (Stephen Lang), che utilizza qualsiasi mezzo per ottenere tutti i frammenti di una maschera dai poteri magici enormi, Per riuscire ad attirare l'odiato nemico, il protagonista salva e porta con sé la sacerdotessa Tamara (Rachel Nichols), indispensabile per utilizzare l'artefatto mistico.



Ciò che attira in prima istanza l'attenzione durante la visione di Conan the Barbarian è la scelta da parte degli sceneggiatori di modificare buona parte degli eventi che segnano l'infanzia dell'eroe hyboriano rispetto all'iconico lungometraggio diretto nel 1982 da John Milius, così da avere maggiori libertà creative e tentare allo stesso tempo di smarcarsi dal continuo e, chiaramente deleterio, confronto con lo stesso. Questo non vuol dire però che Nispel non utilizzi come riferimento l'originale letterario in cui nasce il personaggio, anzi: alcuni scorci, specie nelle panoramiche o nei campi lunghissimi, così come l'aspetto di Momoa riecheggiano con grande reverenza le illustrazioni dei racconti realizzate da Frank Frazetta, così come la caratterizzazione interiore di Conan rievocano l'aspetto più libertario e picaresco dei lavori di Howard, verso cui non mancano anche easter egg e ammiccamenti per i fan. Altrettanto apprezzabile è in generale l'impianto formale della pellicola. Se nelle precedenti fatiche di matrice horror il cineasta aveva già mostrato una notevole cura nella composizione delle inquadrature, minata in parte però da un ricorso quasi ossessivo alla macchina a mano, stavolta preme l'acceleratore sul lato più estetizzante del proprio sguardo, persino durante le concitate scene d'azione, in cui il ralenti conferisce un'ulteriore impatto e anche una leggibilità dei movimenti spesso carente nell'action contemporaneo.
Di buon livello risultano le interpretazioni del cast, a partire dal già citato Momoa, passando dai due villain principali: Stephen Lang dona una certa gravitas al suo personaggio, mentre sua figlia Marique assume tratti lascivi e persino incestuosi grazie all'apporto di drammaturgia attoriale offerto da Rose McGowan, che in tal modo spinge anche ai limiti il perbenismo americano e l'autocensura tipica delle produzioni di massa. Proprio come l'abbondanza di sangue e gore durante i combattimenti, i cui arti mozzati, teste staccate di netto e flotti di sangue, evidentemente derivanti dagli horror dai connotati splatter diretti da Nispel, sono figli certamente dei modelli di Milius e Howard e molto lontani dal mondo dei blockbuster, specialmente quelli di matrice disneyana da cui siamo sommersi oggi.
Allora come mai il film è stato un tale insuccesso ed è ancora ricordato con vergogna, persino dalla sua star? Sicuramente per un eccesso di damnatio memoriae legata al dissenso dei fan del materiale originale, ma anche per oggettivi demeriti. In primis la sceneggiatura soffre di una grande mancanza di personalità e, soprattutto di epica; difetto quest'ultimo accentuato da un ritmo eccessivamente rapido e un commento musicale davvero anonimo. In questo senso risulta impietoso il confronto con la pellicola con protagonista Arnold Schwarzenegger, che brillava proprio nella distensione del racconto, le divagazioni estetico-poetiche in bilico tra Kurosawa e il western di John Ford e la colonna musica ricca di pathos firmata Poledouris.


Conan the Barbarian è, in conclusione, un buonissimo action fantasy, un'opera esteticamente ben più pregevole della media dei blockbuster degli ultimi anni ma priva di quello che contraddistingue il nome che porta, l'epica.

mercoledì 24 luglio 2024

ABIGAIL: DAL TRAMONTO ALL'ALBA 2.0 MADE IN RADIO SILENCE

Dopo gli esordi super indie, all'insegna del mockumentary e dei film antologici, oggi il duo composto da Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett, noto anche come Radio Silence, è stabilmente sulla cresta dell'onda dell'horror mainstream grazie all'enorme successo di Scream (2022) e Scream VI (2023), tanto da potersi permettere senza battere ciglio di abbandonare la saga di Ghostface da loro rilanciata per tuffarsi in una produzione del tutto slegata da franchise: Abigail. Distribuito nel corso della primavera del 2024, il lungometraggio ottiene discreti incassi al botteghino, sebbene nettamente più bassi rispetto alle fatiche precedenti, ma con riscontri largamente positivi da parte della critica, a conferma di una carriera ormai libera anche dalla possibile etichetta di "quelli dei requel".


La pellicola segue le impreviste conseguenze del rapimento della bambina che dona il titolo alla stessa (Alisha Weir), organizzato da una banda di professionisti, assemblata dal misterioso Lambert (Giancarlo Esposito), di cui fanno parte la tossica riabilitata Joey (Melissa Barrera), l'ex poliziotto Frank (Dan Stevens), l'hacker Sammy (Kathryn Newton), il forzuto Peter (Kevin Durand) e l'autista Dean (Angus Cloud).


I Radio Silence fin dai tempi di V/H/S (diretto insieme a David Bruckner, Justin Martinez, Glenn McQuaid, Joe Swanberg, Chad Villella, Ti West e Adam Wingard nel 2012) hanno portato avanti un'idea di cinema fortemente radicata nei codici di genere e nella sovversione degli stessi in chiave ironica e talvolta persino aspramente satirica. Un atteggiamento puramente postmoderno perfettamente aderente al panorama hollywoodiano contemporaneo, dove ogni singolo film vive come una sorta di ipertesto che, o perché parte di un universo narrativo espanso o perché un sequel o reboot, richiede conoscenze pregresse allo spettatore per poterne godere in pieno ammiccamenti, connessioni o ribaltamenti teoretici. Quando si parla di cinema postmoderno non si può non pensare alla filmografia di Quentin Tarantino, divenuto simbolo stesso di una settima arte intrisa di cinefilia e in cui qualsiasi elemento sia narrativo che formale risponde al bisogno di richiamare altre opere. In particolare con Abigail Bettinelli-Olpin e Gillett compiono un'operazione che, in maniera fin troppo esplicita per essere involontaria, aggiorna al terzo millennio quanto fatto più di venti anni fa da un'altra coppia di amici, Tarantino e Robert Rodriguez, che ibridarono l'action a fondo malavitoso con l'horror sovrannaturale dando vita a Dal tramonto all'alba (From Dusk Till Dawn, 1996). Simile è l'approccio estremamente ludico e autoreferenziale sia al filone crime (o pulp come andava di moda definirlo al tempo), sia a quello orrorifico, così come l'utilizzo costante di dialoghi brillanti e l'ambiguità morale di tutti i personaggi ma chiaramente gli autori di Finché morte non ci separi (Ready or Not, 2019) sono consapevoli di parlare a un pubblico che conosce a menadito la produzione del cineasta vincitore della Palma d'oro per Pulp Fiction (Quentin Tarantino, 1994) e dunque fin dai trailer annunciano sfacciatamente il twist che nel modello di riferimento era la chiave di volta dell'intero racconto, perché ciò a cui tengono maggiormente è fornire a quello stesso pubblico un giro sulle montagne russe a base di gore, humour nero e ribaltamento dei topoi sui vampiri, specie quelli a cui sono più affezionati quei Millennials nati proprio durante il decennio dominato dal regista di Le Iene (Reservoir Dogs, 1992), dal quale peraltro deriva l'idea di una squadra di rapinatori privi di rapporti personali tra di loro e che usano pseudonimi. 


Al di là di questo apparato di citazionismo anni Novanta Abigail è difatti un inno al cinema for cinema sake, privo delle implicazioni sociali di Ready or Not o di quelle metacinematografiche di Scream, ma irresistibilmente divertente, in grado di sfruttare al meglio sia il setting da horror gotico che la verve interpretativa di un cast a pieno agio con l'orrore postmoderno. Proprio come nel cult del 1996 anche qui non ci saranno grandi sottotesti a livello tematico o innovazioni epocali per quanto concerne la forma ma se neanche un minuto dei circa 110 di cui si compone la pellicola annoiano è ovviamente merito della perizia con cui gli autori si muovono all'interno del genere che frequentano ormai da più di dieci anni e che probabilmente intendono omaggiare proprio con questo disimpegno totale e ricercato, perché come la leggerezza sarà anche una perversione, come diceva Sorrentino tramite Michael Caine in Youth (2013), ma anche una tentazione necessaria in alcuni momenti della nostra vita.

lunedì 8 luglio 2024

OMEN - LE ORIGINI DEL PRESAGIO: UN PREQUEL FINALMENTE AL PASSO CON I TEMPI

Spesso da almeno una ventina di anni gli appassionati di cinema lamentano una diffusa mancanza di idee nel panorama hollywoodiano, simboleggiata dalla propensione sempre più accentuata verso nuovi capitoli di saghe già affermate, siano essi sequel, prequel, reboot, requel e chi più ne ha, più ne metta. Come ogni stereotipo chiaramente un fondi di verità in queste affermazioni è innegabile, specie nel post-pandemia con la generale crisi della sala cinematografica, ma è altrettanto innegabile che vi siano molti esempi di opere di valore tra queste nuove iterazioni di vecchie proprietà intellettuali. A tal proposito il 2024 vede l'uscita di Omen - Le origini del presagio (The First Omen), debutto al lungometraggio di Arkasha Stevenson. Nonostante un certo scetticismo anche tra i fan dell'originale, in parte legati al dimenticabile remake risalente al 2006 (The Omen, John Moore), il film ottiene un buonissimo riscontro critico e discreti numeri al botteghino, tanto da presagire (scusate il gioco di parole) un possibile requel ambientato dopo gli avvenimenti del cult diretto da Richard Donner.



Protagonista della pellicola, ambientata nella Roma dei primi anni Settanta, è la novizia Margaret (Nell Tiger Free), che dopo aver sofferto per anni di strane allucinazioni sembra rivedere la se stessa del passato nella giovane Carlita (Nicole Sorace), la quale proprio a causa di queste visioni viene ostracizzata dalle suore che gestiscono l'orfanatrofio che ospita le due ragazze. Quelli che sembrano comportamenti vessatori dettati da pregiudizi assumono però contorni ben più inquietanti quando Margaret entra in contatto con Padre Brennan (Ralph Ineson), che le apre gli occhi su una incredibile cospirazione interna alla Chiesa.



Inserirsi all'interno di una saga ben con solidata, specialmente a distanza di decenni dal suo periodo aureo, è sempre un'impresa improba, nella quale ogni regista deve scegliere tra due indirizzi principali: uno maggiormente nostalgico e rispettoso del canone al quale si approccia, strada solitamente più battuta, e un altro, al contrario, che integra i topoi principali del franchise con una visione personale di quel materiale, come era accaduto, per esempio, nei tanti sequel di Nightmare - Dal profondo della notte (A Nightmare on Elm Street, Wes Craven, 1984). Stevenson, dopo un incipit citazionista, sia nei confronti del capostipite, sia verso L'esorcista (The Exorcist, William Friedkin, 1973), mette subito in evidenza quanto il film sia figlio di una sensibilità al genere tutta contemporanea, ponendo al centro del racconto il percorso di formazione di Margaret, che arriva a Roma sicura ormai della propria scelta di matrice religiosa, per poi attraversare una sorta di discesa negli Inferi, quanto mai letterali rispetto al viaggio dell'eroe campbelliano, attraverso cui entra in contatto con tutte quelle esperienze che portano l'adolescente a diventare realmente adulto. Il Male ma anche il desiderio sessuale, l'istinto materno, la fratellanza con i pari, il conflitto con le generazioni precedenti trasformano completamente l'io della novizia e ovviamente il suo rapporto con Dio e la Chiesa, in piena corrispondenza a quanto avviene agli stessi giovani che protestano nella Roma sessantottina che, non a caso, fa da sfondo alle vicende narrate. Anche in queste affinità elettive tra milieu e racconto specifico dei personaggi principali la regista americana dimostra di essere maggiormente legata all'horror più contemporaneo, alla lezione di autori come Eggers e Peele che hanno aggiornato storie quasi ancestrali alle istanze di un mondo profondamente cambiato rispetto ai tempi di Donner e Friedkin, dove la rabbia giovanile è ancora più attenta alle disparità sociali e politiche verso le minoranze e le donne sono sempre più consce della idiosincrasia tra i proclami di un'epoca di pari opportunità e una manifesta realtà concreta, quotidiana in cui gli uomini continuano a decidere del corpo e della mente femminile, come simboleggiato dalla maternità diabolica imposta dall'élite ecclesiastica (maschile) a donne e giovani ragazze indifese nei loro confronti, almeno fino a quando non trovano persino in questa gravidanza forzata uno strumento di reazione al patriarcato de facto.



Persino da un punto di vista formale Stevenson non si limita a girare un film competente, in cui l'orrore nasce semplicemente dalla preparazione verso jumpscare piazzati nei momenti di maggiore tensione, bensì imbastisce un'atmosfera di costante angoscia in primis emotiva ed esistenziale, a cui aggiunge una potenza immaginifica in parte figlia dei già citati Donner e Friedkin, in parte connessa a un'iconografia cristiana che fornisce all'artista più attento un campionario di figure terrificanti più che sufficientemente variegata. Interessante anche la libertà con cui la cineasta mostra, alla faccia della censura, sfacciatamente momenti di estrema violenza esibita, persino con connotati sessuali che solitamente sono quelli più allarmanti per gli studios, attenti a non spiazzare troppo il benpensante pubblico americano. Mai come in questo caso il finale aperto a nuovi sequel risulta gradito, poiché Omen - Le origini del presagio riesce nella tutt'altro che semplice impresa non solo di soddisfare l'appassionato di cinema orrorifico, bensì di mettergli voglia di ulteriori spaventi.

sabato 29 giugno 2024

THANKSGIVING: BACK TO THE 80S

Sarebbe interessante analizzare a livello saggistico la nostalgia cinematografica e tutte le ondate di registi, sceneggiatori, critici e fandom che nel corso delle decadi hanno portato riportato in auge un modo di intendere la settima arte precedente, talvolta con revival che aggiornano il passato, altre con veri e propri omaggi così filologici da rischiare di perdere qualunque presa sui fruitori meno attempati. Eli Roth fin dagli albori del terzo millennio vive costantemente in bilico tra queste prassi, alternando sintesi tra ciò che fu e ciò che è (Cabin Fever, 2002) e oggetti nati dalla pura reverenza verso le proprie fonti di ispirazione (The Green Inferno, 2013). Anche solamente da questo punto di vista risulta particolarmente interessante Thanksgiving, nato come uno dei fake trailer distribuiti insieme al dittico Grindhouse (Quentin Tarantino, Robert Rodriguez, 2007) per poi diventare un lungometraggio solamente nel 2023. Quindici anni circa di distanza che si sentono eccome, nella più positiva delle accezioni, dato che la pellicola ottiene un buon risultato al box office e recensioni estremamente positive, tanto da permettere la messa in cantiere persino di un sequel.


Il film, dopo un prologo in cui la cittadina Plymouth viene sconvolta da un incredibile incidente al centro commerciale locale durante l'annuale Black Friday, nel quale perdono la vita molte persone, segue le conseguenze dell'avvenimento per il gruppo di adolescenti guidato da Jessica (Nell Verlaque), che diventa vittima delle attenzioni sempre più violente di un killer mascherato da John Carver, che accusa i ragazzi di essere la causa di quella strage e di averne lucrato con un video virale che riprendeva lo stesso.


Fin dal titolo Thanksgiving tradisce l'intento di omaggiare quel filone di slasher proliferati tra il 1978 e il 1982 che, nel tentativo di salire sul carro degli incassi di Halloween - La notte delle streghe (Halloween, John Carpenter, 1978), aveva portato sullo schermo killer mascherati pronti a massacrare teenager durante una delle più iconiche festività americane. E non manca nessuno dei topoi di suddetto filone: omicidi truculenti basati perlopiù su armi da taglio, la final girl che corrisponde alla più coscienziosa dei protagonisti, la morte dei ragazzi più promiscui ecc. Proprio per questo evidente rapporto con il passato del genere e l'origine dal progetto Grindhouse sarebbe stato previdibile l'utilizzo da parte di Roth di quell'estetica da finto b-movie con cui era girato il trailer e invece l'autore di Hostel (2005) opta per un'estetica pienamente contemporanea, persino quando cita esplicitamente capisaldi dell'horror anni Settanta come Romero. L'incipit, difatti, oltre a fornire quel trauma passato che forma il tipico movente al killer dello slasher, riprende la metafora romeriana dei consumatori della società capitalistica visti come zombie assetati di sangue che assaltano un centro commerciale e quale occasione risulta più emblematica di questo horro vacui se non l'americanissimo Black Friday, dove la vigilia del Ringraziamento assume connotati puramente materialistici e, per l'appunto, consumistici. Il tutto viene ripreso però con un ritmo del montaggio e una pulizia dell'immagine, quasi sempre con inquadrature con profondità di campo massima, agli opposti dell'estetica quasi documentaristica di Zombi (Dawn of the Dead, George Romero, 1978) e l'introduzione di tematiche che, per ovvi motivi cronologici, erano totalmente assenti, quali l'incidenza dei social media nella vita reale delle persone e la sfrenata fame di immagini violente. Thanksgiving vive nasce dunque nel solco della parte più citazionista della filmografia di Roth per poi spostarsi, una volta divenuto lungometraggio a tutti gli effetti, nella sezione maggiormente di raccordo con la contemporaneità, tanto da non poter non notare anche i punti di contatto con slasher recenti, tra cui in particolare la serie tv Scream (Jill Blotevogel, Dan Dworkin, Jay Beattie, 2015-2019) e Auguri per la tua morte (Happy Death Day, Christopher Landon, 2017), con i quali condivide la preminenza sia estetica che tematica della rivoluzione digitale, ma anche la componente ironica ben più marcata rispetto a quanto accadeva nei primi emuli del capolavoro carpenteriano sopracitato, che caso mai risultavano spesso involontariamente comici finendo nel calderone del camp, secondo la definizione di Susan Sontag.  Di questi però il regista americano non tradisce il ricorso a effetti speciali totalmente analogici e il gusto per l'uccisione dal gore estremo e sempre più creativa, secondo una strategia narrativa e formale discendente da quel giallo all'italiana che più volte è stato considerato il padre putativo dello slasher, dove il convulso intreccio spesso fungeva soprattutto da recitativo propedeutico a legare le arie operistiche costituite appunto dagli elaboratissimi, anche a livello di inquadrature, rapporto tra immagini e musiche ecc., omicidi. L'ironia così marcata e in alcuni casi persino grossolana di matrice contemporanea però, a mio avviso, insieme a una forma molto competente ma poco personale, risulta il vero limite della pellicola, poiché trovo ormai piuttosto stucchevole l'idea presente in qualunque genere che non si possa prendere di petto il racconto senza doverlo zuccherare con una distanza critica da postmodernismo 2.0: le risate sono sempre ben accolte e in tempi così travagliati fanno sicuramente bene all'umore di tutti ma con questo spirito avremmo mai avuto un Nightmare - Dal profondo della notte (A Nightmare on Elm Street, Wes Craven, 1984) o anche un meno "vetusto" It Follows (David Robert Mitchell, 2014)?



sabato 8 giugno 2024

TANK GIRL: DISTOPIA COME RIVOLUZIONE

Rachel Talalay non è certamente un nome così conosciuto al grande pubblico, ma per gli appassionati di horror e slasher è certamente sinonimo immediato di Nightmare 6 - La fine (Freddy's Dead: The Final Nightmare, 1991), capitolo conclusivo della saga con protagonista Krueger, se si esclude il successivo standalone diretto da Wes Craven, ricordato da molti per una particolare predilezione per i toni camp e umoristici e le sequenze stereoscopiche. Quello che anche pochi cinefili non ricordano spesso, però, è il buon successo commerciale ottenuto dal film, grazie al quale la cineasta di Chicago riesce a ottenere abbastanza credibilità da trovare dei finanziamenti per un progetto tutt'altro che semplice: la trasposizione del fumetto underground Tank Girl, in un momento storico in cui sul grande schermo arrivavano dal mondo delle vignette solamente personaggi estremamente famosi come Superman, Batman o Dick Tracy. L'omonimo lungometraggio, prodotto da MGM nel 1995, si rivela però un clamoroso insuccesso al botteghino, con risultati altrettanto freddi da parte della stampa, salvo diventare nel corso degli anni un cult tra gli appassionati di comics e tra la più recente critica femminista.


La pellicola si svolge in un futuro post-apocalittico in cui gran parte della Terra è priva di risorse idriche e dunque chi controlla l'acqua può considerarsi padrone del destino del pianeta. A ciò mira lo spietato Kesslee (Malcom McDowell), che utilizza qualsiasi mezzo per accaparrarsi la zona più ricca di oro blu, ossia quella abitata dai Rippers, mutanti con tratti animaleschi. Le sue mire espansionistiche si scontreranno con la resistenza di Rebecca (Lori Petty), giovane ribelle che si allea con i Rippers stessi e Jet Girl (Naomi Watts) per fermare lo spietato magnate e salvare la sua amica Sam (Stacy Linn Ramsower).


Persino a distanza di quasi trent'anni è facile comprendere i motivi che hanno causato l'insuccesso commerciale di Tank Girl. Nel bel mezzo del periodo d'oro dei blockbuster e delle trasposizioni dal fumetto con il chiaro scopo di attirare in primis il pubblico più giovane, persino quando si parla di capolavori intergenerazionali quali Batman (Tim Burton, 1989) o il seminale Superman (Richard Donner, 1978), Talalay non solo pesca una serie ben lontana dai numeri di vendite dei supereroi DC o Marvel, bensì evita accuratamente di adattare l'opera originale a canoni maggiormente accomodanti, come fatto ad esempio da Steve Barron con Tartarughe Ninja alla riscossa (Teenage Mutant Ninja Turtles, 1990), mantenendo altresì intatta la volontà di sovvertire l'ordine costituito delle tavole create da Jamie Hewlett e Alan Martin, peraltro coinvolti massicciamente nella produzione. Ecco dunque che ritorna quel mix tra violenza, persino rivolta verso i più piccoli, e black humour già vista in Nightmare 6, il sesso da tabù diventa arma da rivolgere contro gli oppressori e l'amore può nascere nelle occasioni meno scontate, addirittura tra "specie" diverse.

Proprio il connubio tra sesso, genere e dinamiche di forza si trova al centro della riflessione che permea il film. Rebecca fin dalle prime sequenze di cui è protagonista ritorce contro gli uomini la loro insaziabile voracità predatoria di tipo sessuale, sovvertendo quell'ordine costituito prettamente patriarcale che sembra sopravvivere anche all'olocausto nucleare occorso all'universo della diegesi sceneggiata da Tedi Sarafian. La giovane punk, i cui outfit sono divenuti iconici tra la comunità di cosplayer e di fan dei fumetti in genere, non restano una semplice strizzata d'occhio al pubblico di ragazzi alternativi della cosiddetta Gen X, ma rappresentano visivamente l'intenzione sovversiva dietro la poetica di Talalay, che con un piglio anche volutamente campy nei dialoghi e nelle soluzioni estetiche (si veda per esempio il trucco dei Rippers o il ricorso a intermezzi animati) disegna un mondo in cui solamente gli emarginati e i diversi mantengono una certa dose di umanità e altruismo, mentre i WASP assurgono a simbolo del lato più meschino e crudele della società, persino quando si trova al collasso economico e culturale.



Certamente la pellicola soffre di un andamento narrativo altalenante, soprattutto nella seconda parte, e di censure che ne soffocano in parte la spinta rivoluzionaria rispetto ai topoi del cinecomic più hollywoodiano, eppure Tank Girl mantiene oggi come negli anni Novanta il fascino unico di chi sbeffeggia le regole con ironia tagliente e sa come ritrarre il desiderio di rivalsa degli outsider senza scadere nel manierismo di molta produzione attuale. Quanti registi e registe di genere dovrebbero tornare alla filmografia di Talalay per comprendere come rendere giustizia alle donne nel cinema action e sci-fi.