venerdì 7 marzo 2025

MIMÌ - IL PRINCIPE DELLE TENEBRE: FINALMENTE LA NAPOLI DEI DIVERSI

Il cinema italiano del terzo millennio: un universo parallelo in cui è difficile esordire persino per un figlio d'arte quando ha idee personali, un curriculum internazionale e il desiderio di andare oltre il solito compitino che piace tanto ai finanziamenti pubblici, solitamente all'insegna di commedie che sfruttino il nome di richiamo televisivo o social oppure l'ennesimo lungometraggio sfacciatamente piccolo borghese che si fregia di una presunta superiorità artistica perché nasconde la propria pochezza stuprando il termine Neorealismo. Brando De Sica, figlio di un attore simbolo del nostro panorama popolare e, conseguentemente, nipote di uno dei più grandi registi del cinema mondiale, impiega ben sette anni per poter dare vita al proprio primo film diretto in solitaria, il cui titolo Mimì - Il principe delle tenebre, evoca immediatamente scelte coraggiose e interessanti, non casualmente apprezzate in numerosi festival, anche piuttosto prestigiosi come il Sitges, mentre gode di una quasi inesistente distribuzione in sala nel corso del 2023. Da qualche settimana può essere finalmente acquistato o noleggiato sulle principali piattaforme di streaming, con ben due anni di ritardo e modalità che non incoraggiano certo il pubblico, al 99% ignaro della sua esistenza, a tentare la sorte, come avrebbero sicuramente più volentieri fatto se fosse stato disponibile direttamente all'interno dell'abbonamento di uno di tali servizi.


Ambientata nell'odierna Napoli, la pellicola mostra l'incontro tra due ragazzi che, per motivi diversi, vivono ai margini della socialità. Mimì (Domenico Cuomo) è un orfano con una rara deformazione ai piedi che lo rende oggetto di scherno da parte dei coetanei, in particolare la cricca di Bastianello (Giuseppe Brunetti), cantante neomelodico figlio di un camorrista. Carmilla (Sara Ciocca), d'altro canto, più giovane del protagonista di qualche anno, è un'adolescente goth ossessionata dal vampirismo che è fuggita dalla famiglia benestante di Codogno. I due si conoscono all'interno della pizzeria gestita dal padre adottivo di Mimì, il semplice ma dal cuore immenso Nando (Mimmo Borrelli), e finiscono per innamorarsi, donando l'un l'altro la speranza di una felicità mai vissuta, almeno fino a quando non sono costretti a fare i conti con Bastianello.


Fin dalle primissime inquadrature, tra cui un notevole plongéè su una strada zigzagante e i sinuosi movimenti di macchina che accompagnano la visita del protagonista al suo ex orfanatrofio, Mimì - Il principe delle tenebre mostra una certa reverenza verso Tim Burton,  a cui poi si aggiungeranno una lunga serie di strizzate d'occhio verso capisaldi del genere horror, in particolare quelli legati al mito di Dracula, come Nosferatu il vampiro (Nosferatu, eine Symphonie des Grauens, Friedrich Wilhelm Murnau, 1922) o la serie a esso dedicata prodotta da Hammer, ma anche classici nostrani come Non si sevizia un paperino (Lucio Fulci, 1972). Un repertorio cinefilo certamente utile a comprendere la grande passione per il genere insita nel regista e nel progetto in toto, ma, soprattutto, perfettamente innestato in quello che è a tutti gli effetti un racconto di formazione con al centro un freak tanto buono quanto emarginato dal resto della società che è molto vicino all'Edward Scissorhands burtoniano e al contempo, esattamente come il modello statunitense, al prototipo di Pinocchio, nato totalmente buono come il selvaggio di Rousseau e costretto, suo malgrado, a conoscere in prima persona quanto l'uomo possa essere meschino e crudele con il prossimo, prima di diventare un bambino vero/adulto.


Altrettanto riconducibile all'immaginario dell'autore di Batman (Tim Burton, 1989) è certamente la componente dark su cui si concentra lo sguardo empatico di De Sica, stavolta però con una netta distinzione: se nel cineasta statunitense questa caratteristica deriva principalmente da una lunga serie di esempi provenienti dal mondo della fantasia o comunque dell'arte, nel caso del collega italiano c'è molto di reale, per quanto stilizzato, nel milieu a cui il giovane pizzaiolo viene introdotto da Carmilla. Chiunque abbia vissuto o anche solo frequentato Napoli sarà avvezzo a una delle sue tantissime contraddizioni, ovvero quella tra un'immagine popolare fatta di sole, mare e spirito eternamente allegro diffusa anche a livello turistico e un'anima sotterranea (persino fisicamente) ricca di folklore oscuro, fantasmagorico ed esoterico, dove le leggende sul munaciello e le tante personalità storiche legate all'alchimia arrivano fino a far ipotizzare che Vlad l'impalatore possa essere sepolto nel capoluogo campano. A ciò si aggiunge un substrato di sottoculture giovanili fervido fin dai tempi della contestazione studentesca sessantottina, successivamente sfociata in una consistente presenza di adolescenti punk, goth o emo che ancora oggi si incontrano in alcuni luoghi simbolo del centro storico, costretti però a convivere con i pregiudizi di quella parte della popolazione ignorante e invischiata nella mentalità da guappi che spesso li trasformano in oggetto di bullismo. Esperienze tutt'altro che immaginifiche o di pura trasposizione di topoi visti sul grande schermo, che vengono però ammantati di un'aura fiabesca onnipresente, come si può evincere anche dai personaggi di Nando e dell'amica maga transessuale Giusi (Abril Zamora), novelli Geppetto e Fata Turchina che rappresentano un faro di amore e speranza nella travagliata esistenza di Mimì e ne accettano la diversità persino quando il fantastico entra prepotentemente all'interno della vicenda. Ingresso peraltro segnato da una sequenza quasi remake del già citato Nosferatu che da sola vale come biglietto da visita per il gusto estetico e poetico dell'autore, che sembra affermare quanto la potenza dell'immaginazione, simboleggiata in questo caso da quella cinematografica, possa segnare una svolta per chi nella realtà trova solamente sofferenze e non ride mai, neanche alle battute dei film comici, che capisce "perché mica sono scemo".


In un tripudio di orrore e tenerezza che ben definiscono l'esperienza del passaggio dall'adolescenza all'età adulta, con tanto di momenti estremamente gore e la fine del personaggio di Bastianello che davvero racchiude tutta l'ipocrisia del machismo dei piccoli delinquenti della Napoli post-Gomorra, Mimì - Il principe delle tenebre risulta un'opera prima che, come il suo protagonista, naviga tra mari tempestosi unicamente con la forza del proprio cuore e di tante altre virtù che nessuno o quasi, purtroppo, supporta.

sabato 15 febbraio 2025

LOVE LIES BLEEDING: UNA FIABA DI SANGUE, STEROIDI E FEMALE GAZE

All'interno di un mondo profondamento conservatore, al netto dello sbandierato progressismo di facciata, come quello del cinema americano, dove si definiscono giovani autori ultraquarantenni, il percorso di ascesa di Rose Glass rappresenta la proverbiale boccata di aria fresca. Classe 1990, dopo una gavetta fatta di corti, esordisce al lungometraggio nel 2019 con l'horror Saint Maud, prodotto da A24, che le permette di girare anche il successivo Love Lies Bleeding, accolto con enorme entusiasmo al Sundance e successivamente da buoni risultati anche al box office americano, considerando le aspettative per un progetto lontano dalle coordinate di un blockbuster.


Ambientato in un piccolo sobborgo del New Mexico nel 1989, il film mette in scena l'incontro folgorante tra Lou (Kristen Stewart), proprietaria di una palestra, e Jackie (Katy O'Brian), bodybuilder appena arrivata in città. Le due si innamorano immediatamente ma le complessità rappresentate da una relazione omosessuale in quel periodo storico vengono rese ancor più estreme dai problemi legati alla famiglia di Lou, composta da una sorella (Jena Malone) costantemente picchiata dal marito (Dave Franco) e un padre (Ed Harris) immerso in loschi affari celati dietro un poligono di tiro.


Fin dalle primissime inquadrature, tutte incentrare sui fisici scolpiti che popolano la palestra della protagonista, con tanto di lungo piano sequenza sfacciatamente estetizzante, Love Lies Bleeding mette in chiaro quanto il corpo sia centrale, persino nelle sue componenti più feticistiche ma attraverso una lente prettamente femminile. Il mondo dei body builder, in grande ascesa non a caso nel decennio edonistico per eccellenza quali sono stati gli anni Ottanta, viene osservato con un mix di distanza critica e curiosità dallo sguardo spento e consumato dalla vita di Lou, la cui introduzione con le mani letteralmente nello sterco preannuncia una figura classicamente tragica, ma reinventata dalle coordinate della società reaganiana, dove la diversità è una malattia e, pur di mantenere quella facciata di rispettabilità borghese, si è disposti a sacrificare ogni sogno e velleità personale, specie se si è donna e provenienti da un nucleo famigliare tanto disfunzionale quanto violento. Violenza che pervade ogni singolo aspetto dell'ambiente in cui la ragazza vive, così fieramente americano e, conseguentemente, intriso di machismo, esibizionismo aggressivo e prevaricatore, simboleggiati proprio dall'ossessione per i muscoli, così come per le armi da fuoco. In tal senso sorprende il personaggio di Jackie, che inizialmente sembra fare propri, in maniera quasi passiva, tutti questi caratteri preminentemente maschili per farsi strada in una comunità così individualista e spregiudicata, per poi mostrare, nel corso del rapporto con l'amata, i più intimi motivi che la spingono a rispondere alla forza con una forza maggiore. Ecco dunque che il culturismo assume i contorni di uno strumento per l'affermazione di sé nel classico senso dell'american dream, che però, come sempre accade, presenta anche tante spine, simboleggiate in questo caso dall'uso di sostanze anabolizzanti che finiscono per prendere il sopravvento sulla volontà della giovane, fino a una sequenza a metà tra l'horror vero e proprio e i momenti più dolorosamente visionari di Requiem for a Dream (Darren Aronofski, 2000), con il quale in comune c'è anche il compositore Clint Mansell.


Visivamente Glass dipinge un'opera che non rinnega l'estetismo sfacciato del suo esordio, specialmente quando gioca con il ralenti e tinte ultra sature per ricreare la sensualità delle immagini degli anni Ottanta (interessante l'aneddoto secondo cui la regista avrebbe chiesto al cast di vedere Showgirls, diretto da Paul Verhoeven nel 1995, per comprendere l'atmosfera ricercata), così come le incursioni orrorifiche e le esplosioni di violenza grafica, ciononostante la macchina da presa tende maggiormente a porre lo spettatore all'interno del punto di vista delle due eroine, rinunciando all'algidità che spesso caratterizza le produzioni A24. Il cuore della pellicola, difatti, è rappresentato dalla palpabile chimica tra di esse, espletata anche tramite le sequenze di sesso, ma soprattutto negli sguardi complici e ricchi di desiderio, che le porta a sfidare ogni legge della società pur di vivere il loro sogno di amore e libertà, impossibile da realizzare senza sporcarsi le mani quando il potere è così ingiustamente maschilista. Motivo per cui le due scene finali, intrise di un mix anche autoironico tra realismo magico ed escapismo puro, mettono il punto esclamativo a una rielaborazione del neo-noir americano nel solco della tradizione millenaria della fiaba, alla stregua di quanto fatto da Refn con Drive (2011), stavolta però abbandonando ogni topos su cavalieri dall'armatura scintillante che si sacrificano per salvare la dama in pericolo. Qui, nel pieno dell'esasperazione della mascolinità tossica made in US, le donne possono tornare libere soltanto con le proprie forze, riversando sui prevaricatori la loro stessa medicina, fino al dolce perdersi tra gli sconfinati orizzonti del deserto americano, protagonista assoluto della mitologia tutta al maschile della superpotenza americana.



mercoledì 5 febbraio 2025

LISA FRANKENSTEIN: LA RIVINCITA DEL MOSTRUOSO (FEMMINILE)

Chi avrebbe immaginato che un breve romanzo in bilico tra fantascienza e horror (generi peraltro agli albori al tempo) scritto da una giovanissima scrittrice britannica in seguito a una sorta di scommessa intorno al 1816 avrebbe rivoluzionato per sempre l'immaginario collettivo, tanto da essere il soggetto di almeno due trasposizioni cinematografiche anche quest'anno, a più di 200 anni di distanza? Frankenstein o il moderno Prometeo rappresenta ormai un archetipo, un mito che, in quanto tale, è passibile di una infinita gamma di rivisitazioni, tra le quali si inserisce l'esordio dietro la macchina da presa di Zelda Williams, figlia del compianto Robin, la quale firma nel 2024 Lisa Frankenstein. Sceneggiato da un talento quale Diablo Cody, il film passa purtroppo inosservato al botteghino americano, motivo per cui in Italia arriva direttamente in home video, mentre la critica appare piuttosto confusa sul risultato, in maniera non dissimile da quanto accaduto con un altro cult nato dalla mente della screenwriter statunitense, Jennifer's Body (Karyn Kusama, 2009).


Ambientata nel 1989, come si evince dal riferimento a Senti chi parla (Look Who's Talking, Amy Heckerling), la pellicola segue le disavventure di Lisa (Kathryn Newton), adolescente orfana da parte di madre che vive con un padre estremamente naif (Joe Chrest), la sorellastra cheerleader Taffy (Liza Soberano) e l'insopportabile matrigna Janet (Carla Cugino). La ragazza vive completamente isolata dai suoi coetanei e trova come unico conforto il tempo che trascorre al cimitero locale, nel quale è rimasta particolarmente colpita dalla tomba riservata a un giovane morto nel 1837 (Cole Sprouse). Proprio questi, mentre la protagonista si trova sola a casa, torna in vita grazie a una potente scarica elettrica originata da un violento nubifragio e si presenta dinanzi a Lisa, che, dopo la paura iniziale, instaura un rapporto di amicizia con lui e decide di aiutarlo a riacquistare le funzioni vitali e le parti del corpo perse.


Come si può evincere già da questa breve sinossi o dai titoli di testa animati che introducono la backstory della Creatura, Lisa Frankenstein propone una rilettura postmoderna del capolavoro di Mary Shelley fortemente influenzata dalla poetica di Tim Burton. Il peculiare mix di generi, horror e commedia in primis, così come la fascinazione per il cinema delle origini (si pensi alla sequenza onirica che cita Pabst e soprattutto George Méliès) e il ritratto di una provincia americana estremamente stereotipata e insofferente verso qualunque variatio rispetto ai canoni della morale borghese portano subito alla mente i tratti più peculiari della filmografia dell'autore di Ed Wood (Tim Burton, 1994). In fondo il racconto si dipana proprio nello stesso anno di uno dei grandi capolavori del succitato cineasta, quel Batman (Tim Burton, 1989) che aveva inserito all'interno del multiforme universo supereroistico una dolente nota introspettiva che vedeva nel Cavaliere oscuro un outsider rispetto al sentire comune. E come non trovare nell'abbondanza di colori pastello della fotografia realizzata da Paula Huidobro una connessione a quella di Edward mani di forbice (Edward Scissorhands, Tim Burton, 1990), dove il contrasto tra essi e il look cupo del protagonista simboleggiano quello tutto interiore tra maggioranza e freaks?


Proprio da questo parallelo, però, si può iniziare a evincere quanto la coppia Williams/Cody non si limiti a sciorinare una lunga lettera d'amore a Burton, bensì ne rielabori l'amore nei confronti dei diversi attraverso una lente ancor più contemporanea e vicina a quanto possa essere ancor più dura per una donna non riuscire ad adeguarsi alla massa. Nella pellicola in analisi, difatti, le tinte accese, tipiche anche dell'estetica e della moda anni Ottanta, rispecchiano proprio la diversità di Lisa, la cui passione per il macabro e la musica goth e darkwave non si rispecchia in un ormai abusato look oscuro (con alcune eccezioni), ma, al contrario, in una costante esplosione tonale che stigmatizza visivamente il piattume che contraddistingue il resto dei personaggi, tutti fin troppo impegnati a indossare i panni a loro richiesti dalla società: dal nerd che usa il cinema come metodo per avvicinare le ragazze al bel tenebroso che cita le massime più banali di Oscar Wilde, passando per le immancabili ragazze popolari che frequentano atleti e giocatori di basket. Altra variazione sul tema rispetto ai canoni del teen movie americano è rappresentata dal personaggio di Taffy, la quale, dopo una fase iniziale dove sembra rispettare il topos della cheerleader, si rivela ben più sfaccettata e complessa, costretta a seguire determinati comportamenti e modelli per non essere esclusa dalla comunità, come d'altronde succedeva a Jennifer nel cult diretto da Karyn Kusama, e che nonostante i caratteri così diversi ama davvero la sorella acquisita, al punto da discutere anche con la perfida madre, il cui egoismo e odio nei confronti di qualunque deviazione rispetto al pensiero borghese stride incredibilmente con il suo lavoro in una clinica per problemi psichiatrici. La protagonista stessa, al di là dei simbolismi estetici, non si limita al ruolo di eroina senza macchia osteggiata dal conservatorismo americano; il suo percorso di persa di coscienza di sé, tipico del Bildungsroman, le permette di scendere a patti anche con gli istinti che teme maggiormente e che aveva represso fino all'incontro con la Creatura, che, al contrario di quanto avveniva nel romanzo britannico, agisce come forza dionisiaca in grado di smuovere l'essenza più profonda della ragazza. Una liberazione dai tratti certamente grotteschi e sarcastici che però rendono efficacemente l'idea di quanto la femminilità ancora oggi venga associata a concetti misogini e arcaici come quello del mostruoso femminile, centrale nella poetica di Cody e della sua idea di horror come genere per eccellenza con cui esprimere il bisogno della donna di vivere senza più i vincoli in cui per secoli è stata rinchiusa da società prettamente patriarcali.


Purtroppo Lisa Frankenstein pecca di numerose ingenuità e defezioni legate probabilmente anche alla poca esperienza di Williams, come un registro formale a mio parere fin troppo vicino a quello inquietantemente blando e impersonale da produzioni per lo streaming, ma affascina per la libertà con cui attinge a un determinato patrimonio iconologico per parlare a chiunque si sia mai sentito escluso dalla maggioranza e strappa tanti sorrisi, portando qualunque spettatore a fare il tipo per una coppia adorabilmente romantica, nel senso più storico del termine. 



mercoledì 29 gennaio 2025

NOSFERATU: DIONISIACO SALVIFICO

Pur senza seguire assiduamente le news legate al mondo del cinema o le dichiarazioni dei diretti interessati, è sufficiente una manciata di inquadrature di The Lighthouse (Robert Eggers, 2019) per comprendere quanta fascinazione nei confronti di Murnau nutra il cinema di Robert Eggers, tra i cineasti americani sotto la soglia del mezzo secolo più apprezzati dagli appassionati, sia di horror, sia di "arthouse". La perfetta chiusura del cerchio circa l'onnipresente reverenza verso il maestro tedesco non può che essere la realizzazione di un remake della sua opera più celebre, motivo per cui il 2024 si chiude negli States con l'arrivo in sala di Nosferatu, che a sua volta inaugura la stagione 2025 delle sale nostrane, con un non così scontato successo di pubblico e recensioni perlopiù positive. 


La pellicola, fedele quasi al 100% a quanto visto nel modello originario, vede la coppia di novelli sposini composta da Ellen (Lily-Rose Depp) e Thomas (Nicholas Hoult) Hutter alle prese con una forza soprannaturale che ne sconvolge le esistenze, specie quando si rivela essere in realtà il cliente con cui l'uomo deve firmare un importante contratto di vendita edile, ossia il sinistro conte Orlok (Bill Skarsgard), che intende trasferirsi dalla Transilvania a Wisburg per insidiare la giovane signora Hutter.


Sebbene gli ultimi anni cinematograficamente parlando siano contrassegnati in primo luogo dalla tendenza al remake, siano essi espliciti o nascosti dietro etichette fantasiose come reboot, requel, legacy sequel o addirittura omaggi, pare che pochi cineasti siano in grado di eseguire il compito senza scadere nella stanca reiterazione di quanto già visto o nel blando travaso di una traccia narrativa di base entro i confini degli stilemi più in voga al momento. Eggers, d'altro canto, con il suo Nosferatu mostra fin dalla sequenza d'apertura la volontà di operare una sintesi tra il rispetto, ai limiti della reverenza, nei confronti di un film che ne ha segnato fin dall'infanzia l'immaginario cinematografico e la centralità della propria poetica e del proprio stile, che chiaramente non è insensibile rispetto ad alcuni crismi del panorama attuale. La colonna musica, gargantuesca e minacciosa, così come alcune soluzioni di montaggio e l'uso insistito della profondità di campo a fini orrorifici chiamano in causa il lato più contemporaneo del genere, in special misura quella fetta che si è diffusa a partire dal successo delle prime produzioni A24 che qualcuno etichetta come "elevated horror" con una certa supponenza verso il concetto stesso di orrore filmico. Al contrario l'uso estremamente stilizzato e antinaturalistico di luci e ombre, la staticità della macchina da presa e l'attenzione nei confronti delle possibilità espressive di architetture e scenografie chiamano direttamente in causa l'operato dell'autore di Aurora (Sunrise: A Song of Two Humans, Friedrich Wilhelm Murnau, 1927), certamente con un approccio in parte postmoderno, che gioca con un repertorio di immagini ormai iconico per ottenere un effetto di raffinata nostalgia, ma al tempo stesso dettato da ragioni più prettamente narrative e poetiche.


Fin dal celeberrimo romanzo firmato Bram Stoker, Dracula e il vampiro tout court rappresentano un potente simbolo, in grado, come accade quando una creazione diventa mito, di adattarsi a innumerevoli interpretazioni, tra le quali quella più evidente fin dalle origini resta la reificazione di ciò che, in termini freudiani, si potrebbe delineare come rimosso o, come direbbe Nietzsche, dionisiaco. In un'epoca fortemente divisa tra dialettiche opposte (superficie/profondità, etica/costumi, progresso/conservatorismo ecc.) come quella vittoriana, in seno alla quale peraltro i primi vagiti letterari e artistici intorno al tema del subconscio sfoceranno negli studi della nascente psicoanalisi in territorio austriaco, un essere immortale, che si nutre del sangue dei vivi e mette in crisi qualunque appiglio razionale non può non simboleggiare l'insieme di tutto ciò che la socialità borghese e cristiana ritiene sconveniente, in primis il desiderio sessuale. Come già visto nel corso di The Witch (Robert Eggers, 2015), il regista americano mette in discussione tramite il soprannaturale le fondamenta repressive della cultura occidentale, con particolare attenzione alla situazione femminile, che subisce con maggiore forza i limiti imposti dalla società. Esempio lampante di ciò è proprio la sfera erotica, poiché nella mentalità tradizionale la donna svolge unicamente un ruolo di oggetto del desiderio maschile, finalizzato alla creazione di una famiglia, mentre le naturali pulsioni altrui vengono costantemente represse, al punto da essere addirittura considerate sintomi di malattia mentale quando espresse liberamente. Ecco che Ellen, questa volta parte attiva della relazione di Eros e Thanatos con il vampiro, diviene cuore di questo enorme insieme di spinte interiori e irrazionali che la moralità tenta di celare sotto al tappeto e in tal senso anche il finale, drammaturgicamente identico a quello di Murnau, si pone in scia alle rivendicazioni della potenza del dionisiaco nei confronti dell'apollineo di Eggers, dato che solamente attraverso la soddisfazione delle pulsioni il mondo può liberarsi dalla maledizione del desiderio represso. Persino Thomas, pur essendo privilegiato dal genere biologico, condivide con la consorte la tragica esperienza dello scontro con il Male a causa delle stringenti regole sociali, nello specifico legate alla mascolinità tossica e a una sorta di proporzionalità tra virilità e benessere economico.


Possono far storcere il naso le modalità con cui l'autore sposta tutto ciò che nella lunga tradizione di trasposizioni di Dracula è sempre stato sottotesto verso la superficie, con un didascalismo lontano anni luce dal lirismo di Herzog, ad esempio, ma che, a mio avviso, è perfettamente coerente con il cinema di Eggers, che fa proprio della reificazione del sotteso il fil rouge della propria filmografia. Nosferatu è dunque lo specchio del proprio regista, che piaccia o meno.

giovedì 2 gennaio 2025

PAST LIVES: ANIME GEMELLE MA NON IN QUESTA VITA/SOCIETÀ

In un panorama cinematografico in cui le major storiche annaspano sempre di più, sia qualitativamente, sia nei meri numeri al botteghino, oltre ai giganti dello streaming emergono anche realtà più piccole ma ricche di idee e volontà di imporsi, tra cui spicca A24. Con un'offerta che permette grande libertà ai registi e che ibrida gli orizzonti di attesa tradizionalmente associati all'arthouse da un alto, al genere dell'altro, la casa di produzione statunitense si è resa lo strumento ideale per rilanciare artisti messi in disparte da Hollywood, ma, soprattutto per dare voci a esordienti promettenti. Nelle vesti di distributore collabora anche alla prima esperienza alla regia di un lungometraggio di Celine Song, che dirige nel 2023 il semiautobiografico Past Lives, co-produzione tra Stati Uniti e Corea del Sud che, al netto di un budget di poco superiore a quello di un tipico lavoro indie, supera i 40 milioni di dollari al box office e ottiene il plauso unanime da parte della critica, condito da plurime nomination a Golden Globe e Academy Awards.


La pellicola segue, nell'arco di tre intervalli temporali di dodici anni, il rapporto tra Nora/Na Young (Greta Lee) e Hae Sung (Teo Yoo), fidanzatini di fatto nella pre-adolescenza in Corea, separati però dalla decisione dei genitori della ragazza di trasferirsi a Toronto, dove quest'ultima cambia anche nome. Proprio dodici anno dopo il trasloco intercontinentale, i due riescono a ritrovarsi grazie a Facebook e, nonostante la distanza e il lungo periodo trascorso senza parlarsi o vedersi, la complicità resta illesa, ma ormai ognuno ha una propria vita, specie la giovane, motivata a diventare una grande sceneggiatrice.


Nel cuore del suo concept drammaturgico Past Lives si inserisce senza alcun dubbio nel solco di una tradizione che annovera classici quali il ciclo della quattro stagioni di Eric Rohmer, la trilogia Before di Richard Linklater e In the Mood for Love (Wong Kar-wai, 2000) e molti altri epigoni più o meno riusciti, motivo per cui Song decide saggiamente di concentrare il proprio sguardo non sulla reinvenzione della ruota, bensì sull'offrire una prospettiva particolare e quanto mai contemporanea di questo tipo di racconto, resa possibile anche da trascorsi personali che ben si evincono da quanto accade sullo schermo. La cineasta canadese, nata però in Corea, nel mettere in scena una coppia che resta sempre in divenire, sempre sul punto di realizzare un amore che però finisce per fermarsi sempre alla potenzialità, pone l'accento su un tema che nel mondo attuale assume forse ancor più importanza rispetto agli esempi precedentemente illustrati, specie considerando le specificità di un mondo ormai fortemente globalizzato e in costante mutamento. Mi riferisco alla dialettica tra amore "romantico" e realizzazione individuale, tra abbandono al sentimento più irrazionale e contingenze quotidiane. Tutto certamente già sviscerato, fin dai tempi di Jane Austin e Goethe, ma in questo caso con i piedi ben saldi nell'era delle distanze azzerate solamente in teoria grazie a internet, i social network e i voli intercontinentali. Nora e Hae Sung, difatti, vivono il loro complicato rapporto in contemporanea alla crescita esponenziale della centralità del digitale nelle vite di tutti noi, saggiandone i grandi vantaggi, come ad esempio le videochiamate con cui si innamorano nuovamente a circa ventiquattro anni, così come i lati oscuri, dalla delusione cocente dell'impossibilità di conciliare i propri impegni nonostante l'apparente semplicità con cui ci si può spostare oggi fino al ruolo fondamentale che l'economia possiede persino nelle storie d'amore.


In maniera non dissimile da quanto visto nel mai abbastanza ricordato Like Crazy (Drake Doremus, 2011), l'autrice pone in evidenza quanto sia difficile conciliare il materialismo estremo alla base del nostro modello sociale con una lunga tradizione culturale che esalta invece la forza ben più dionisiaca dell'amore erotico, simboleggiato dal concetto coreano del inyeon a cui i personaggi del film fanno riferimento a più riprese. Un mondo in cui la paura della solitudine è il primo motore relazionale, due giovani innamorati si sposano prima del previsto per evitare che uno dei due venga espatriato e si vive in una città iconica come New York senza aver mai messo piede sulla Statua della Libertà, è in netta controtendenza con il concetto stesso di anime gemelle che si sfiorano nel corso di ogni esistenza fino ad arrivare a stare finalmente insieme e, di conseguenza, anche un'artista quale Nora trova maggiore sicurezza e aderenza al proprio io in una relazione poeticamente scialba ma indubbiamente autentica come quella con Arthur (John Magaro). Personaggio, peraltro, che permette a Song di ribaltare uno dei topoi del filone, ovvero quello del terzo incomodo, solitamente pieno di sé ed emotivamente freddo, che impedisce fino all'ultimo il ricongiungimento dei protagonisti. In questo caso, invece, lo scrittore con cui la donna vive da molti anni è l'esatto opposto, con le tante attenzioni che riserva all'amata, la sensibilità che dimostra quando Hae Sung arriva in America e persino una sorta di commento che sfonda i confini della diegesi proprio su quanto, anche solo da un punto di vista lirico, lui non abbia niente da offrire che possa rivaleggiare con il filo del destino che lega la consorte al suo primo amore. In tal senso la pellicola non schematizza la separazione tra due tipologie di sentimenti, anzi problematizza con rara delicatezza una questione che non è mai stata manichea e che lo è ancor di meno in un momento storico in cui siamo costantemente schiacciati da forze che mettono in secondo piano l'empatia e il bisogno innato che abbiamo di condividere le nostre esistenze con l'altro.


Past Lives è, dunque, il capolavoro epocale descritto dalla critica statunitense? Non per il sottoscritto, poiché ciò che difetta alla pellicola per arrivare ai medesimi livelli dei modelli precedentemente citati è una maggior personalità. In primis sul piano formale Song, pur ricorrendo a una qualità nella composizione delle inquadrature nettamente sopra la media e di grande fascino estetico, sembra trovarsi in una via media tra la fotografia straordinariamente estetizzante e sperimentale di Christopher Doyle nella filmografia di Wong Kar-wai e l'intimismo quasi documentaristico del succitato Like Crazy, tradendo probabilmente anche il fatto di essere agli esordi nell'ambito del lungometraggio. Anche la caratterizzazione dei protagonisti vive maggiormente delle straordinarie interpretazioni attoriali rispetto a una introspezione in sede di sceneggiatura, ciononostante basterebbe il piano sequenza conclusivo a rendere questa pellicola una visione imperdibile e un grande auspicio per l'avvenire di Song.


mercoledì 18 dicembre 2024

PALO ALTO: NOT ANOTHER TEEN MOVIE

Nonostante una pletore di titoli divenuti iconici nel corso dei decenni, a cominciare da uno dei primi esempi quale Gioventù bruciata (Rebel Without a Cause, Nicholas Ray, 1955), i teen movie sono sempre visti con un certo sospetto, quasi come se vi fosse qualcosa di intrinsecamente sciocco o banale nelle storie aventi come protagonisti gli adolescenti. Discorso che peraltro si riverbera in qualunque medium e non solo nel cinema, dai romanzi passando per la musica. Ciononostante molti autori riconosciuti o giovani promesse si sono cimentate con questa tipologia di racconto. Tra di essi figura anche Gia Coppola, nipote del leggendario autore di Apocalypse Now (Francis Ford Coppola, 1979) tra gli altri, impegnata quest'anno con The Last Showgirl (2024) ma che esordisce al lungometraggio nel 2013 con Palo Alto, tratto dall'omonima raccolta di racconti brevi a opera di James Franco, qui presente nelle vesti a lui più congeniali di attore. Prodotto con un budget piuttosto basso per gli standard statunitensi, il film viene presentato al Festival di Venezia, dove riceve recensioni perlopiù positive e, successivamente, buoni riscontri anche al box office, aprendo alla nipote d'arte la possibilità di una intrigante carriera nel cinema di fiction.


Ambientata nell'omonima città californiana, la pellicola segue la vita di tutti i giorni di un gruppo di ragazzi, alle prese con scuola, sport, feste a base di alcol e canne, esperienze sessuali spesso occasionali e i primi scontri con l'imminente età adulta. Tra di essi vengono seguiti con particolare attenzione April (Emma Roberts), talento della squadra liceale di calcio che inizia una relazione con il proprio allenatore (James Franco), e Teddy (Jack Kilmer), la cui vocazione artistica viene messa in secondo piano dalle bravate che combina insieme al migliore amico Fred (Nat Wolff).


Uno dei numerosi motivi pregiudizi verso il teen movie a cui accennavo precedentemente è quello di spettacolarizzare la vita dei ragazzi, in un tripudio di glamour e cliché narrativi in cui la caratterizzazione degli stessi finisce per essere estremamente bidimensionale e prevedibile. Palo Alto segue una direzione completamente opposta, non perché si discosti dai tipici problemi e temi legati a quella particolare età, bensì perché porta lo spettatore all'interno della quotidianità di adolescenti qualunque, come lo siamo stati tutti noi. La macchina da presa di Coppola, che dimostra anche un notevole gusto per la composizione delle inquadrature, segue i personaggi con la rara sensibilità di chi vuole conoscere qualcuno senza però finire per giudicarlo, dando vita a una sorta di via di mezzo tra il pedinamento quasi documentaristico di Elephant (Gus Van Sant, 2003) e l'umanesimo ai limiti del realismo magico di Magnolia (Paul Thomas Anderson, 1999). Una scelta narrativa che potenzia notevolmente il coinvolgimento emotivo del fruitore, permettendogli di entrare in contatto con una realtà magari lontana nel tempo, sfidando la tentazione di analizzare a livello sociologico o etico quello che accade sullo schermo, atteggiamento tipicamente adulto e poco adolescenziale. Esemplare di questa volontà è il doppio dialogo che vede protagonisti prima Teddy e un'assistente sociale e successivamente April e il suo coach, nel quale entrambi i giovani esternano una mancanza di consapevolezza di ciò che anima alcune delle loro azioni, mentre la risposta dei più maturi interlocutori li rassicura sul fatto che sia una caratteristica essenziale della giovinezza, nonostante in realtà una motivazione forte sia presente eccome nel momento in cui agiscono.


E certamente tra questi motivi non può non esserci anche la difficoltà nel rapportarsi con gli adulti, che appaiono totalmente distaccati o assenti nei confronti della generazione che li succede, talvolta fisicamente ma spesso anche quando sono presenti almeno da quel punto di vista. Il personaggio di James Franco, ad esempio, che anagraficamente sarebbe il più vicino ai protagonisti, si dimostra tutt'altro che in grado di creare una relazione sana e reciproca con la giovane amante e le altre calciatrici, che tratta esclusivamente come oggetti sessuali e manipola emotivamente con atteggiamenti subdoli quali love bombing o evidenti ammiccamenti che però astutamente evita di trasformare in molestie palesi. La distanza abissale tra teenager e adulti viene evidenziata anche visivamente dall'autrice, attraverso un ampio ricorso da campi lunghi in cui i primi finiscono per essere quasi inghiottiti dalla fredda architettura in cui si muovono, a simboleggiare lo smarrimento quasi metafisico (si pensi ai dipinti di De Chirico) che provano aggirandosi in un mondo che ancora non conoscono abbastanza, senza alcuna guida che possa almeno aiutarli a conoscere meglio sé stessi. Una scelta estetica molto vicina al quasi coevo It Follows (David Robert Mitchell, 2014), che estremizza l'horror vacui della provincia americana in decadimento economico e sociale in un mostro mutaforma ma condivide il medesimo atteggiamento empatico verso i ragazzi della pellicola in analisi, così come anche una colonna musica ricca di suoni elettronici capace di enfatizzare il disorientamento dei personaggi.


Per comprendere la connessione quasi unica tra Palo Alto e l'età che tenta di descrivere basterebbe la scena finale, in cui i destini opposti di Teddy/April e Fred riescono a instillare nello spettatore quei due estremi emotivi che possono convivere solamente quando la vita adulta è un incomprensibile miraggio.



sabato 7 dicembre 2024

BLONDE: LA FABBRICA DEGLI INCUBI

La categoria dei film divisi è sempre stata ricca e lo è ancora di più nell'era dei social, dove solitamente le opinioni si riflettono in una contrapposizione binaria tra poli estremi: o capolavoro o inguardabile, senza vie di mezzo. Spesso sono proprio questo tipo di produzioni a divenire, nel corso degli anni, dei cult, trovando una maggiore comprensione e atteggiamenti meno schierati da parte del pubblico, ed è questa, almeno a mio avviso, la strada sulla quale si sta incamminando Joker: Folie à Dieux (Todd Phillips, 2024). Su un percorso nettamente più tortuoso si trova, d'altro canto, Blonde, il biopic sulla diva per eccellenza, Marilyn Monroe, diretto da Andrew Dominik nel 2022. Opera presentata al Festival di Venezia con ben quattordici minuti di applausi per poi venire gradualmente demolita dal reso della critica al momento della sua distribuzione su Netflix, suscitando persino reazioni scandalizzate di presunte femministe e accuse di propaganda antiabortista. Il simbolo della netta polarizzazione intorno al lungometraggio è la sua presenza, in contemporanea, sia agli Academy Awards che ai Razzie del 2023. Un cortocircuito evidente di cui proverò a sviscerare i motivi.


La pellicola, seguendo un andamento cronologico non prettamente lineare, mette in scena le vicende umane di Norma Jeane, in arte Marilyn Monroe (Ana de Armas) a partire dalla tragica infanzia vissuta tra le grinfie di una madre (Julianne Nicholson) affetta da gravi disturbi psichiatrici e violenta, passando poi per la carriera hollywoodiana e i rapporti con uomini tanto famosi quanto incapaci di amarla e comprenderla, tra cui Joe DiMaggio (Bobby Cannavale), Arthur Miller (Adrien Brody), i due figli d'arte Cass Chaplin (Xavier Samuel) ed Eddy Robinson Jr. (Evan Williams) e in ultimo il presidente Kennedy (Caspar Phillipson).


Il biopic è da un lato uno dei generi maggiormente in voga degli ultimi anni, come dimostrano i risultati al box office e la crescente percentuale che occupano sia in sala, sia sui palinsesti on demand, eppure soffrono al contempo di una staticità estetico-narrativa che va ben oltre l'usuale dialettica tra rispetto dei canoni e variazioni che contraddistingue il cinema di genere. Escluse poche, notevoli eccezioni, come ad esempio la filmografia di Pablo Larraìn, si limita fin troppo spesso a ricalcare la parabola da manifesto dell'american dream nella quale un individuo partito dal niente riesce, grazie a tenacia e talento fuori dal comune, a scalare la piramide sociale fino al successo, superando anche fasi di vita oscure e complicate. Dominik, d'altro canto, sceglie una vita molto diversa, destrutturando il genere esattamente come aveva fatto in precedenza con il western (The Assassination of Jesse Jamesby the Coward Robert Ford, 2007) e il neo-noir (Killing Them Softly, 2012), a cominciare dalla struttura del racconto, che viene rarefatta divenendo una sorta di collage di momenti uniti tra di loro con un montaggio più vicino a quello di Ejzenstejn che non a quello classico a cui fa riferimento la protagonista stessa durante un dialogo, nel quale sottolinea quanto sia carente la componente creativa degli attori al cinema proprio a causa delle manipolazioni offerte dall'editing. Blonde, difatti, al netto di alcune coordinate temporali fornite da date o dai riferimenti ad alcune delle pellicole più note della carriera di Marilyn Monroe, si sviluppa come un flusso il cui cuore è rappresentato non dalle usuali dinamiche di causa ed effetto, bensì dalla progressiva frantumazione della psiche del personaggio che racconta, il cui punto di non ritorno diviene la nascita proprio del suo alter ego pubblico, che anno dopo anno, film dopo film, si distanzia sempre più dalla vera Norma. Lo sgretolarsi dell'equilibrio tra le due anime che condividono il corpo della diva porta progressivamente la donna sull'orlo del baratro, accelerato dal modo in cui viene oggettificata da qualunque figura maschile entri nella sua vita. Se la sua carriera hollywoodiana comincia con uno stupro da parte di un produttore, anche in seguito, quando l'opinione comune la vorrebbe così ricca e famosa da poter gestire la propria vita in piena autonomia, finisce solamente per essere cannibalizzata da quel pubblico che la tratta come un pezzo di carne per il male gaze, mentre i suoi compagni o mariti vorrebbero solamente plasmarla secondo i propri comodi, arrivando in tanti casi anche picchiarla o violentarla.


Il cinema e Hollywood in particolare rappresentano per il cineasta australiano l'esatto opposto della fabbrica dei sogni con la quale vengono spesso associati, persino nei tanti film di natura metatestuale, tanto da costituire per la protagonista un lungo ed estenuante incubo, dove non esistono linee di demarcazione tra pubblico e privato; gli esseri umani vivono solamente per essere usati, sbranati e digeriti e dietro ogni mito si nasconde solamente l'ennesimo orco. Traendo spunti anche estetici dall'andamento onirico della filmografia lynchiana, soprattutto Mulholland Drive (2001) e Inland Empire (2006), non a caso le pellicole più vicine all'horror della stessa e di ambientazione cinematografica, l'autore di Chopper (Andrew Dominik, 2000) demistifica in toto l'alone di fiaba che circonda l'eredità della diva bionda in un caotico viaggio infernale tra violenze domestiche, speranze di incontrare quel padre mai conosciuto e dialoghi immaginari con i feti che la donna ha portato nel grembo prima di una serie di aborti. La razionalità tipica di un genere che pretende una certa oggettività di matrice storiografica cede il passo alla volatilità inquietante dell'incubo e addirittura l'eroe di generazioni di americani, John F. Kennedy, si tramuta nell'ennesimo padre padrone che vede in Norma letteralmente soltanto un buco da riempire del proprio sperma. In questa discesa negli inferi esistenziali dell'attrice interpretata splendidamente da De Armas la perdita dell'innocenza e di ogni coordinata logica si traduce perfino in uno schizofrenico salto continuo tra diversi aspect ratio, tra colore e bianco e nero, lunghi piano sequenza e campi e controcampi sui volti dei personaggi da classicismo americano, inquadrature fisse e macchina a mano nello stile di Terrence Malick.


Come poteva un'opera tanto destabilizzante sotto ogni punto di vista accontentare tutti? Ecco perché Blonde è tra le opere più polarizzanti degli ultimi anni, ma anche una delle più coraggiose e viscerali nel coinvolgimento emotivo dello spettatore e nel ricordarci che, dietro i proclami, gli schieramenti ideologici e i miti collettivi la realtà è ben più complessa e, purtroppo, spaventosa.