All'interno di un mondo profondamento conservatore, al netto dello sbandierato progressismo di facciata, come quello del cinema americano, dove si definiscono giovani autori ultraquarantenni, il percorso di ascesa di Rose Glass rappresenta la proverbiale boccata di aria fresca. Classe 1990, dopo una gavetta fatta di corti, esordisce al lungometraggio nel 2019 con l'horror Saint Maud, prodotto da A24, che le permette di girare anche il successivo Love Lies Bleeding, accolto con enorme entusiasmo al Sundance e successivamente da buoni risultati anche al box office americano, considerando le aspettative per un progetto lontano dalle coordinate di un blockbuster.
Ambientato in un piccolo sobborgo del New Mexico nel 1989, il film mette in scena l'incontro folgorante tra Lou (Kristen Stewart), proprietaria di una palestra, e Jackie (Katy O'Brian), bodybuilder appena arrivata in città. Le due si innamorano immediatamente ma le complessità rappresentate da una relazione omosessuale in quel periodo storico vengono rese ancor più estreme dai problemi legati alla famiglia di Lou, composta da una sorella (Jena Malone) costantemente picchiata dal marito (Dave Franco) e un padre (Ed Harris) immerso in loschi affari celati dietro un poligono di tiro.
Fin dalle primissime inquadrature, tutte incentrare sui fisici scolpiti che popolano la palestra della protagonista, con tanto di lungo piano sequenza sfacciatamente estetizzante, Love Lies Bleeding mette in chiaro quanto il corpo sia centrale, persino nelle sue componenti più feticistiche ma attraverso una lente prettamente femminile. Il mondo dei body builder, in grande ascesa non a caso nel decennio edonistico per eccellenza quali sono stati gli anni Ottanta, viene osservato con un mix di distanza critica e curiosità dallo sguardo spento e consumato dalla vita di Lou, la cui introduzione con le mani letteralmente nello sterco preannuncia una figura classicamente tragica, ma reinventata dalle coordinate della società reaganiana, dove la diversità è una malattia e, pur di mantenere quella facciata di rispettabilità borghese, si è disposti a sacrificare ogni sogno e velleità personale, specie se si è donna e provenienti da un nucleo famigliare tanto disfunzionale quanto violento. Violenza che pervade ogni singolo aspetto dell'ambiente in cui la ragazza vive, così fieramente americano e, conseguentemente, intriso di machismo, esibizionismo aggressivo e prevaricatore, simboleggiati proprio dall'ossessione per i muscoli, così come per le armi da fuoco. In tal senso sorprende il personaggio di Jackie, che inizialmente sembra fare propri, in maniera quasi passiva, tutti questi caratteri preminentemente maschili per farsi strada in una comunità così individualista e spregiudicata, per poi mostrare, nel corso del rapporto con l'amata, i più intimi motivi che la spingono a rispondere alla forza con una forza maggiore. Ecco dunque che il culturismo assume i contorni di uno strumento per l'affermazione di sé nel classico senso dell'american dream, che però, come sempre accade, presenta anche tante spine, simboleggiate in questo caso dall'uso di sostanze anabolizzanti che finiscono per prendere il sopravvento sulla volontà della giovane, fino a una sequenza a metà tra l'horror vero e proprio e i momenti più dolorosamente visionari di Requiem for a Dream (Darren Aronofski, 2000), con il quale in comune c'è anche il compositore Clint Mansell.
Visivamente Glass dipinge un'opera che non rinnega l'estetismo sfacciato del suo esordio, specialmente quando gioca con il ralenti e tinte ultra sature per ricreare la sensualità delle immagini degli anni Ottanta (interessante l'aneddoto secondo cui la regista avrebbe chiesto al cast di vedere Showgirls, diretto da Paul Verhoeven nel 1995, per comprendere l'atmosfera ricercata), così come le incursioni orrorifiche e le esplosioni di violenza grafica, ciononostante la macchina da presa tende maggiormente a porre lo spettatore all'interno del punto di vista delle due eroine, rinunciando all'algidità che spesso caratterizza le produzioni A24. Il cuore della pellicola, difatti, è rappresentato dalla palpabile chimica tra di esse, espletata anche tramite le sequenze di sesso, ma soprattutto negli sguardi complici e ricchi di desiderio, che le porta a sfidare ogni legge della società pur di vivere il loro sogno di amore e libertà, impossibile da realizzare senza sporcarsi le mani quando il potere è così ingiustamente maschilista. Motivo per cui le due scene finali, intrise di un mix anche autoironico tra realismo magico ed escapismo puro, mettono il punto esclamativo a una rielaborazione del neo-noir americano nel solco della tradizione millenaria della fiaba, alla stregua di quanto fatto da Refn con Drive (2011), stavolta però abbandonando ogni topos su cavalieri dall'armatura scintillante che si sacrificano per salvare la dama in pericolo. Qui, nel pieno dell'esasperazione della mascolinità tossica made in US, le donne possono tornare libere soltanto con le proprie forze, riversando sui prevaricatori la loro stessa medicina, fino al dolce perdersi tra gli sconfinati orizzonti del deserto americano, protagonista assoluto della mitologia tutta al maschile della superpotenza americana.