sabato 15 febbraio 2025

LOVE LIES BLEEDING: UNA FIABA DI SANGUE, STEROIDI E FEMALE GAZE

All'interno di un mondo profondamento conservatore, al netto dello sbandierato progressismo di facciata, come quello del cinema americano, dove si definiscono giovani autori ultraquarantenni, il percorso di ascesa di Rose Glass rappresenta la proverbiale boccata di aria fresca. Classe 1990, dopo una gavetta fatta di corti, esordisce al lungometraggio nel 2019 con l'horror Saint Maud, prodotto da A24, che le permette di girare anche il successivo Love Lies Bleeding, accolto con enorme entusiasmo al Sundance e successivamente da buoni risultati anche al box office americano, considerando le aspettative per un progetto lontano dalle coordinate di un blockbuster.


Ambientato in un piccolo sobborgo del New Mexico nel 1989, il film mette in scena l'incontro folgorante tra Lou (Kristen Stewart), proprietaria di una palestra, e Jackie (Katy O'Brian), bodybuilder appena arrivata in città. Le due si innamorano immediatamente ma le complessità rappresentate da una relazione omosessuale in quel periodo storico vengono rese ancor più estreme dai problemi legati alla famiglia di Lou, composta da una sorella (Jena Malone) costantemente picchiata dal marito (Dave Franco) e un padre (Ed Harris) immerso in loschi affari celati dietro un poligono di tiro.


Fin dalle primissime inquadrature, tutte incentrare sui fisici scolpiti che popolano la palestra della protagonista, con tanto di lungo piano sequenza sfacciatamente estetizzante, Love Lies Bleeding mette in chiaro quanto il corpo sia centrale, persino nelle sue componenti più feticistiche ma attraverso una lente prettamente femminile. Il mondo dei body builder, in grande ascesa non a caso nel decennio edonistico per eccellenza quali sono stati gli anni Ottanta, viene osservato con un mix di distanza critica e curiosità dallo sguardo spento e consumato dalla vita di Lou, la cui introduzione con le mani letteralmente nello sterco preannuncia una figura classicamente tragica, ma reinventata dalle coordinate della società reaganiana, dove la diversità è una malattia e, pur di mantenere quella facciata di rispettabilità borghese, si è disposti a sacrificare ogni sogno e velleità personale, specie se si è donna e provenienti da un nucleo famigliare tanto disfunzionale quanto violento. Violenza che pervade ogni singolo aspetto dell'ambiente in cui la ragazza vive, così fieramente americano e, conseguentemente, intriso di machismo, esibizionismo aggressivo e prevaricatore, simboleggiati proprio dall'ossessione per i muscoli, così come per le armi da fuoco. In tal senso sorprende il personaggio di Jackie, che inizialmente sembra fare propri, in maniera quasi passiva, tutti questi caratteri preminentemente maschili per farsi strada in una comunità così individualista e spregiudicata, per poi mostrare, nel corso del rapporto con l'amata, i più intimi motivi che la spingono a rispondere alla forza con una forza maggiore. Ecco dunque che il culturismo assume i contorni di uno strumento per l'affermazione di sé nel classico senso dell'american dream, che però, come sempre accade, presenta anche tante spine, simboleggiate in questo caso dall'uso di sostanze anabolizzanti che finiscono per prendere il sopravvento sulla volontà della giovane, fino a una sequenza a metà tra l'horror vero e proprio e i momenti più dolorosamente visionari di Requiem for a Dream (Darren Aronofski, 2000), con il quale in comune c'è anche il compositore Clint Mansell.


Visivamente Glass dipinge un'opera che non rinnega l'estetismo sfacciato del suo esordio, specialmente quando gioca con il ralenti e tinte ultra sature per ricreare la sensualità delle immagini degli anni Ottanta (interessante l'aneddoto secondo cui la regista avrebbe chiesto al cast di vedere Showgirls, diretto da Paul Verhoeven nel 1995, per comprendere l'atmosfera ricercata), così come le incursioni orrorifiche e le esplosioni di violenza grafica, ciononostante la macchina da presa tende maggiormente a porre lo spettatore all'interno del punto di vista delle due eroine, rinunciando all'algidità che spesso caratterizza le produzioni A24. Il cuore della pellicola, difatti, è rappresentato dalla palpabile chimica tra di esse, espletata anche tramite le sequenze di sesso, ma soprattutto negli sguardi complici e ricchi di desiderio, che le porta a sfidare ogni legge della società pur di vivere il loro sogno di amore e libertà, impossibile da realizzare senza sporcarsi le mani quando il potere è così ingiustamente maschilista. Motivo per cui le due scene finali, intrise di un mix anche autoironico tra realismo magico ed escapismo puro, mettono il punto esclamativo a una rielaborazione del neo-noir americano nel solco della tradizione millenaria della fiaba, alla stregua di quanto fatto da Refn con Drive (2011), stavolta però abbandonando ogni topos su cavalieri dall'armatura scintillante che si sacrificano per salvare la dama in pericolo. Qui, nel pieno dell'esasperazione della mascolinità tossica made in US, le donne possono tornare libere soltanto con le proprie forze, riversando sui prevaricatori la loro stessa medicina, fino al dolce perdersi tra gli sconfinati orizzonti del deserto americano, protagonista assoluto della mitologia tutta al maschile della superpotenza americana.



mercoledì 5 febbraio 2025

LISA FRANKENSTEIN: LA RIVINCITA DEL MOSTRUOSO (FEMMINILE)

Chi avrebbe immaginato che un breve romanzo in bilico tra fantascienza e horror (generi peraltro agli albori al tempo) scritto da una giovanissima scrittrice britannica in seguito a una sorta di scommessa intorno al 1816 avrebbe rivoluzionato per sempre l'immaginario collettivo, tanto da essere il soggetto di almeno due trasposizioni cinematografiche anche quest'anno, a più di 200 anni di distanza? Frankenstein o il moderno Prometeo rappresenta ormai un archetipo, un mito che, in quanto tale, è passibile di una infinita gamma di rivisitazioni, tra le quali si inserisce l'esordio dietro la macchina da presa di Zelda Williams, figlia del compianto Robin, la quale firma nel 2024 Lisa Frankenstein. Sceneggiato da un talento quale Diablo Cody, il film passa purtroppo inosservato al botteghino americano, motivo per cui in Italia arriva direttamente in home video, mentre la critica appare piuttosto confusa sul risultato, in maniera non dissimile da quanto accaduto con un altro cult nato dalla mente della screenwriter statunitense, Jennifer's Body (Karyn Kusama, 2009).


Ambientata nel 1989, come si evince dal riferimento a Senti chi parla (Look Who's Talking, Amy Heckerling), la pellicola segue le disavventure di Lisa (Kathryn Newton), adolescente orfana da parte di madre che vive con un padre estremamente naif (Joe Chrest), la sorellastra cheerleader Taffy (Liza Soberano) e l'insopportabile matrigna Janet (Carla Cugino). La ragazza vive completamente isolata dai suoi coetanei e trova come unico conforto il tempo che trascorre al cimitero locale, nel quale è rimasta particolarmente colpita dalla tomba riservata a un giovane morto nel 1837 (Cole Sprouse). Proprio questi, mentre la protagonista si trova sola a casa, torna in vita grazie a una potente scarica elettrica originata da un violento nubifragio e si presenta dinanzi a Lisa, che, dopo la paura iniziale, instaura un rapporto di amicizia con lui e decide di aiutarlo a riacquistare le funzioni vitali e le parti del corpo perse.


Come si può evincere già da questa breve sinossi o dai titoli di testa animati che introducono la backstory della Creatura, Lisa Frankenstein propone una rilettura postmoderna del capolavoro di Mary Shelley fortemente influenzata dalla poetica di Tim Burton. Il peculiare mix di generi, horror e commedia in primis, così come la fascinazione per il cinema delle origini (si pensi alla sequenza onirica che cita Pabst e soprattutto George Méliès) e il ritratto di una provincia americana estremamente stereotipata e insofferente verso qualunque variatio rispetto ai canoni della morale borghese portano subito alla mente i tratti più peculiari della filmografia dell'autore di Ed Wood (Tim Burton, 1994). In fondo il racconto si dipana proprio nello stesso anno di uno dei grandi capolavori del succitato cineasta, quel Batman (Tim Burton, 1989) che aveva inserito all'interno del multiforme universo supereroistico una dolente nota introspettiva che vedeva nel Cavaliere oscuro un outsider rispetto al sentire comune. E come non trovare nell'abbondanza di colori pastello della fotografia realizzata da Paula Huidobro una connessione a quella di Edward mani di forbice (Edward Scissorhands, Tim Burton, 1990), dove il contrasto tra essi e il look cupo del protagonista simboleggiano quello tutto interiore tra maggioranza e freaks?


Proprio da questo parallelo, però, si può iniziare a evincere quanto la coppia Williams/Cody non si limiti a sciorinare una lunga lettera d'amore a Burton, bensì ne rielabori l'amore nei confronti dei diversi attraverso una lente ancor più contemporanea e vicina a quanto possa essere ancor più dura per una donna non riuscire ad adeguarsi alla massa. Nella pellicola in analisi, difatti, le tinte accese, tipiche anche dell'estetica e della moda anni Ottanta, rispecchiano proprio la diversità di Lisa, la cui passione per il macabro e la musica goth e darkwave non si rispecchia in un ormai abusato look oscuro (con alcune eccezioni), ma, al contrario, in una costante esplosione tonale che stigmatizza visivamente il piattume che contraddistingue il resto dei personaggi, tutti fin troppo impegnati a indossare i panni a loro richiesti dalla società: dal nerd che usa il cinema come metodo per avvicinare le ragazze al bel tenebroso che cita le massime più banali di Oscar Wilde, passando per le immancabili ragazze popolari che frequentano atleti e giocatori di basket. Altra variazione sul tema rispetto ai canoni del teen movie americano è rappresentata dal personaggio di Taffy, la quale, dopo una fase iniziale dove sembra rispettare il topos della cheerleader, si rivela ben più sfaccettata e complessa, costretta a seguire determinati comportamenti e modelli per non essere esclusa dalla comunità, come d'altronde succedeva a Jennifer nel cult diretto da Karyn Kusama, e che nonostante i caratteri così diversi ama davvero la sorella acquisita, al punto da discutere anche con la perfida madre, il cui egoismo e odio nei confronti di qualunque deviazione rispetto al pensiero borghese stride incredibilmente con il suo lavoro in una clinica per problemi psichiatrici. La protagonista stessa, al di là dei simbolismi estetici, non si limita al ruolo di eroina senza macchia osteggiata dal conservatorismo americano; il suo percorso di persa di coscienza di sé, tipico del Bildungsroman, le permette di scendere a patti anche con gli istinti che teme maggiormente e che aveva represso fino all'incontro con la Creatura, che, al contrario di quanto avveniva nel romanzo britannico, agisce come forza dionisiaca in grado di smuovere l'essenza più profonda della ragazza. Una liberazione dai tratti certamente grotteschi e sarcastici che però rendono efficacemente l'idea di quanto la femminilità ancora oggi venga associata a concetti misogini e arcaici come quello del mostruoso femminile, centrale nella poetica di Cody e della sua idea di horror come genere per eccellenza con cui esprimere il bisogno della donna di vivere senza più i vincoli in cui per secoli è stata rinchiusa da società prettamente patriarcali.


Purtroppo Lisa Frankenstein pecca di numerose ingenuità e defezioni legate probabilmente anche alla poca esperienza di Williams, come un registro formale a mio parere fin troppo vicino a quello inquietantemente blando e impersonale da produzioni per lo streaming, ma affascina per la libertà con cui attinge a un determinato patrimonio iconologico per parlare a chiunque si sia mai sentito escluso dalla maggioranza e strappa tanti sorrisi, portando qualunque spettatore a fare il tipo per una coppia adorabilmente romantica, nel senso più storico del termine.