sabato 28 dicembre 2019

DOMINO: LESA MAESTÀ AI TEMPI DEL POST-CINEMA

Quanto meno per chi ha superato i trent'anni Brian De Palma è sinonimo di cinema, persino per coloro che non vivono con profonda passione il mondo della settima arte. Uno dei pochi autori esplosi durante la New Hollywood ad aver girato grandi successi anche negli anni Ottanta e Novanta, seppur con alcune debacle. Oggi, nell'epoca di quello che molti chiamano post-cinema, nell'epoca dello streaming e della serialità televisiva applicata anche al grande schermo, la parabola dell'autore di Blow Out (1981) è in caduta libera; le sue ultime produzioni si situano ben distanti dai grandi budget hollywoodiani di un tempo e molti ragazzi pensano al massimo che sia un parente di un rapper nostrano. Non sorprende dunque che la sua ultima fatica , Domino (2019), sia una co-produzione europea in cui il cineasta statunitense non ha potuto avere il minimo controllo sul montaggio, portandolo per la prima volta a disconoscere pubblicamente una sua creatura. L'aneddotica è piena di casi in cui un regista, a causa dei problemi riscontrati sul set, finisce per rinnegare una propria opera e raramente la ricezione di questo tipo di lavori si rivela positiva. Questo caso in particolare non fa eccezione: stroncato dalla critica, snobbato dal pubblico ma è davvero così terribile Domino? Possibile che non vi sia alcuna traccia della maestria depalmiana al suo interno? Scopriamolo.

Ambientato prevalentemente in Danimarca, il film vede al suo cuore la caccia a una cellula dell'Isis scatenata dall'omicidio del poliziotto Lars Hansen (Soren Malling), avvenuto durante il tentativo di arresto del sospettato di omicidio Ezra Tarzi (Eriq Ebouaney). Le circostanze che hanno portato alla morte dell'uomo fanno sì che il suo partner e amico, l'agente Christian Toft (Nikolaj Coster-Waldau), si senta responsabile e che di conseguenza dia inizio a una caccia all'uomo in giro per l'Europa, durante la quale, accompagnato della collega Alex (Carice van Houten), verranno a galla intrighi di potere e verità scomode che riguardano anche la vita privata del defunto Lars.

Elimino subito ogni dubbio sulla prima domanda che sorge spontanea conoscendo le vicissitudini della produzione di Domino: gli effetti dei dissidi si sentono eccome, in particolare per la durata esigua della pellicola che porta ad avere un finale davvero sbrigativo e poco epico subito dopo una sequenza di eccezionale dilatazione temporale, sulla quale poi tornerò a soffermarmi. Senza utilizzare troppi giri di parole si avverte eccome il problema legato al montaggio, specialmente se si rapporta il film a quel Mission: Impossible (1996) con cui condivide molti elementi narrativi ed estetici, eppure, tornando alle domande poste in precedenza, la mano di De Palma emerge anche in mezzo alle sterpaglie appena descritte.
Esplorando la pellicola innanzitutto sul versante squisitamente formale i vezzi, le inquadrature e i movimenti di macchina che hanno dato vita alla fama di virtuoso dell'autore di Scarface (1983) sono ben presenti anche nel lungometraggio in analisi, basti pensare ai celebri split-screen e alla già menzionata sequenza pre-finale ambientata in Spagna. Quest'ultima, in particolare, rappresenta una vera e propria lezione su come creare la hitchcockiana suspense utilizzando i principi cardine della settima arte, immagini, montaggio e colonna musica. Attraverso un sapiente ricorso al montaggio alternato, i cui raccordi vengono rafforzati dalla sinergia perfezionata in anni di collaborazione con l'accompagnamento musicale di Pino Donaggio, il regista trasforma pochi minuti di contemporanea caccia ai terroristi da parte di Christian e Alex in una lunghissima e tesissima immersione subacquea in cui il fiato dello spettatore viene portato al limite estremo. Una di quelle sequenze che valgono il film, come si suole dire. A questo momento di suspense estrema si aggiungono numerose altre tracce del cinema depalmiano, come altri dei suoi tipici omaggi ad Alfred Hitchcock (si pensi alla scena dello scontro sui tetti tra il protagonista ed Ezra, ricca di rimandi a Vertigo, girato dal Maestro nel 1958) e soprattutto la moltiplicazione degli schermi, ottenuta sia tramite split-screen che attraverso le riprese in profilmico di strumenti di cattura dell'immagine tipici della contemporaneità quali videocamere a circuito chiuso, camere digitali e webcam.
A proposito di questa presenza ricorrente, ossessiva, di strumenti di ripresa, volendo passare dal piano estetico a quello poetico, il cinema nel cinema e il tema carissimo all'ultimo De Palma dell'onnipresenza di un voyeristico sguardo che controlla la vita di ogni singolo individuo tramite le apparecchiature digitali tornano prepotentemente all'interno della sua ultima pellicola. Proprio come in Blow Out, Femme Fatale (2002) e Passion (2012) omicidi in quanto espressione di esplosioni di crudeltà vengono sempre registrati attraverso supporti tecnologici tipici della settima arte, portando alla luce l'ambiguità etica delle motivazioni che rendono così affascinanti tali strumentazioni e, in particolare, la possibilità dell'occhio (o dell'udito) di dare vita a una versione aliena della realtà. Un mondo altro incorniciato all'interno dei limiti orizzontali e verticali dell'obbiettivo di una videocamera montata sul mitra di una terrorista, per esempio, che si tramuta così in un'arma che terrorizza persino più del mitra stesso. De Palma, autore non a caso di tanto cinema horror e thriller, conosce bene la potenza delle immagini sullo spettatore e per questo utilizza nuovamente la ripresa all'interno della ripresa per intensificare il disagio e l'orrore del pubblico nei confronti delle spietate azioni degli uomini dell'Isis, a loro volta ben consci di questi meccanismi che sfruttano ogni volta che riprendo e pubblicano online i video in cui decapitano una delle loro vittime. Torna dunque a farsi elemento cardine della riflessione del cineasta di origini italiane quel connubio formato da cinema nel cinema, strumenti di ripresa con forte connotazione realistica e umana crudeltà che avevano reso Redacted (2007) uno dei film più importanti del post-11 settembre e in generale della contemporaneità. 

Purtroppo i tanti tagli non gestiti in prima persona da De Palma, così come la recitazione spesso approssimativa dei protagonisti, impediscono a Domino di ergersi tra i migliori frutti di una filmografia straordinaria, ciononostante alle domande da me poste a inizio articolo rispondo così: ci troviamo dinanzi a una pellicola capace di appassionare, ricca di spunti formali e tematici tipici del suo regista e girata come raramente accade all'interno dell'attuale panorama action-thriller. Certamente i rimpianti per quello che sarebbe potuto essere restano, così come l'amarezza per come possa cadere nell'oblio uno dei maestri del cinema mondiale ancora in vita. Un reato di lesa maestà che evidenzia quanto questa realtà odierna consumi in fretta qualsiasi cosa, persino uomini e artisti.

giovedì 19 dicembre 2019

STAR WARS - L'ASCESA DI SKYWALKER: L'EPILOGO DELLA SAGA FAMILIARE DA UNA GALASSIA LONTANA LONTANA

Non servono certamente introduzioni a Star Wars, la saga cinematografica per antonomasia senza la quale la Hollywood attuale forse neanche esisterebbe. Per tutti i milioni di fan sparsi per il mondo il 2019 rappresenta un anno epocale, iniziato con il primo serial televisivo (anche se trasmesso in streaming) dedicato al franchise e concluso con l'uscito dell'attesissimo Star Wars - L'ascesa di Skywalker (Star Wars: The Rise of Skywalker), nono episodio e ultimo dedicato alle vicende della stirpe di Anakin e Luke, diretto dal mago della serialità J.J. Abrams. Arrivato nelle sale solamente ieri, il film pare non aver convinto appieno la critica ma la risposta del pubblico potrebbe essere diametralmente opposta, come era accaduto con il precedente Gli ultimi Jedi (The Last Jedi, Rian Johnson, 2017), amato dai recensori ma odiato da una larghissima fetta di fandom.

Per evitare qualunque spiacevole spoiler mi limito a dire, a proposito della trama, che questa volta i ribelli guidati da Leia (Carrie Fisher) dovranno vedersela non solo con il Primo ordine guidato da Kylo Ren (Adam Driver) ma anche con il redivivo Palpatine (Ian McDiarmid), intenzionato a mettere fine una volta per tutte ai Jedi e dunque a mettere le mani su Rey (Daisy Ridley). La giovane può ancora contare sull'aiuto di Finn (John Boyega), Poe (Oscar Isaac), Chewbecca e i droidi BB8 e C3PO (Anthony Daniels) ma i dubbi sul proprio passato ne minano il cammino verso la padronanza del lato chiaro della Forza e la vittoria della Resistenza.

Chiuso (purtroppo per me) il capitolo Johnson all'interno della trilogia definita "sequel" The Rise of Skywalker riprende molti degli elementi cardine del settimo episodio della saga, il primo diretto da J.J. Abrams, riuscendo al contempo nell'improbo compito di chiudere le vicende dei personaggi creati da George Lucas inserendo all'interno della propria visione del franchise anche le intuizioni e le svolte narrative viste nell'ottavo episodio. Sebbene molti fan e persino qualche critico abbiano visto in questo capitolo finale una sorta di azzeramento di quanto visto in Gli ultimi Jedi, con l'intenzione di recuperare i favori della comunità di appassionati, in realtà l'autore di Super 8 (2011) opera per sottrazione dal suddetto prequel solamente per quanto concerne la critica sociale innescata dal viaggio su Cantonica, abbracciando invece svolte del racconto come il legame che travalica spazio e tempo formatosi tra Rey e Kylo o lo spodestamento dal ruolo di villain principale di Snoke (Andy Serkis). Persino molte tematiche care a Johnson, quale per esempio la natura della Forza come energia panica alla quale chiunque può essere sensibile, a prescindere dai legami di sangue, rientrano prepotentemente in questa pellicola entrando in sinergia con i temi più cari ad Abrams, sottolineando dunque la rara capacità narrativa di quest'ultimo. Certamente alcune scelte e le modalità con cui viene reintrodotto Palpatine possono lasciare delle perplessità ma chiunque conosca la saga sa che non ci sarebbe potuto essere un finale per le peripezie degli Skywalker senza il meneur de geste dell'intera saga e anche il tanto vituperato velo nostalgico che aveva già ammantato Il risveglio della Forza (Star Wars: The Force Awakens, 2015) trova la sua ragion d'essere in un film che non conclude solamente una trilogia, bensì un ciclo narrativo, un'epopea mitica che ha segnato generazioni intere e la storia della settima arte. In quest'ottica dunque anche i momenti di puro fan service assumono un significato extradiegetico di commiato, di ultimo saluto per degli eroi che, dopo aver detto praticamente tutto ciò che avevano, non possono far altro che congedarsi dal pubblico che li ha amati e continuerà ad amarli per decenni.
Proprio a proposito del tema del saluto ultimo, della morte, sia essa fisica o solamente cinematografica, è innegabile come sul lungometraggio aleggi, in maniera costante, un'aura funerea, oscura e fantasmatica. Tutto il film è scandito dall'apparizione di spettri, di figure a cavallo tra la dimensione terrena e quella dell'oltretomba, a cominciare, ovviamente, dalla Leia di Carrie Fisher, morta prima di poter completare le riprese e dunque ulteriore ponte tra la diegesi e la realtà extradiegetica. Proseguono in questo solco fantasmatico le apparizioni di storici personaggi già dipartiti o creduti tali, di altri pronti a dire addio ai fan dopo ben tre trilogie (si pensi a Chewbe o R2D2) e la costante sensazione di deja vu che lega i nuovi protagonisti della saga a quelli ideati da Lucas. Persino location e scenografie confermano l'aura funerea appena descritta, come dimostra l'affascinante pianeta dei Sith che ricorda, oltre al luogo dello scontro tra Ahsoka Tano e il suo vecchio maestro in Star Wars Rebels (Simon Kimberg, Dave Filoni, 2014-2018), gli interni lugubri del cinema gotico caro alla Hammer, a sua volta già legato al franchise di Star Wars dalla presenza dell'ex Dracula Christopher Lee.

Quasi superfluo risulta sottolineare la grandiosità della colonna musica di John Williams, che recupera gran parte dei temi utilizzati nel corso di tutta la saga per attenersi al clima da saluto finale allo stesso, così come il lavoro eccezionale agli effetti speciali, digitali ma anche artigianali, della Industrial Lights & Magic, capace di sopperire anche a quella che forse è l'unica vera mancanza di questa pellicola: una certa personalità nella messinscena rispetto ai due capitoli precedenti. La mano di Abrams, evidente in Il risveglio della Forza, risulta quasi invisibile in questo caso, quasi come la produzione gli avesse imposto una trasparenza di matrice classica atta a uniformare il film alla forma standardizzata dai blockbuster Marvel (tra le rare eccezioni spicca il piano sequenza che segue Poe Dameron tra le strade notturne di Kijimi).
Tutto ciò mi porta, infine, a poter dire che L'ascesa di Skywalker rappresenta una chiusura del cerchio davvero di ottima fattura, capace di abbracciare con sagacia e sincero affetto per la saga tutto ciò che questa ha saputo offrire agli spettatori per decenni. Quasi sicuramente non l'apice dei nove episodi ma un commiato che riporta a galla quella fascinazione tra il mito e la fiaba, la fantascienza e il fantasy, tecnologia e misticismo che ha reso Star Wars l'epica di cui un Occidente alla costante ricerca di eroi continua ad avere bisogno.

martedì 17 dicembre 2019

PARASITE: BRUTTI, SPORCHI E UMANI

Fin dagli albori di questo terzo millennio il cinema sudcoreano ha dimostrato una vitalità inedita per il paese, capace di alternare e ibridare produzioni d'autore e di genere in grado di mettere all'angolo i blockbuster statunitensi all'interno del mercato autoctono e di esportare nel resto del mondo figure registiche sempre più rispettate. Tra i nomi più noti fuori dai confini del paese asiatico vi è sicuramente quello di Bong Joon-ho, del quale non si possono non ricordare in tal senso anche le produzioni occidentali ad alto budget come Snowpiercer (2013) e Okja (2017), con quest'ultimo al centro di una lunga sequela di polemiche legate alla sua candidatura alla Palma d'oro pur essendo una produzione Netflix, non destinata dunque alla distribuzione in sala. Dopo due anni dalla suddetta pellicola il cineasta coreano è tornato a lavorare nel paese natio dirigendo Parasite, a oggi il suo miglior exploit al botteghino in carriera e primo film sudcoreano ad aggiudicarsi il più importante riconoscimento del Festival di Cannes.

Centro della (atipica) narrazione è la famiglia di Kim Ki-woo (Choi Woo-shik), giovane dotato di intelligenza e buona preparazione culturale che però non gli hanno permesso di superare i test dell'università. Insieme al padre Kim Ki-taek (Song Kang-ho), la madre Kim Chung-sook e la sorella Kim Ki-jeong (Park So-dam) vive in un trasandato seminterrato mantenendosi con piccoli lavoretti occasionali mal retribuiti. La possibile svolta a una situazione familiare di grande difficoltà viene offerta inaspettatamente da Min-hyuk (Park Seo-joon), amico fraterno di Kim Ki-woo benestante che propone al ragazzo di prendere il suo posto come insegnante privato di inglese per una ragazza di ottima famiglia. Utilizzando tutto il proprio estro creativo e quello dei propri familiari il protagonista tenterà di sfruttare l'ingenuità di Park Dong-ik (Lee Sun-kyun) e di sua moglie Park Yeon-gyo (Cho Yeo-jeong) per permettere a tutta la famiglia di essere assunti dai suoi ricchissimi datori di lavoro, senza però svelare il legame di parentela che lega ciascuno di loro.

Come accaduto già in gran parte delle sue opere precedenti anche con Parasite Bong Joon-ho lavora, con intelligenza e astuzia, mescolando i generi classici, fino a dare vita a un film polimorfo, in grado di cambiare pelle come un rettile nel corso della sua durata. In questo caso specifico l'autore di The Host (2006) "accomoda" lo spettatore nei ranghi di una black comedy per circa metà lungometraggio per poi innestare una marcia da polifonia composta da elementi horror e thriller che accompagnano un'anima solista da dramma sempre più angosciante. E proprio come nel sopracitato monster movie i topoi di genere diventano per il cineasta coreano strumenti per poter riflettere sulla condizione umana all'interno di una società fortemente capitalista e ormai priva di una classe media come quella coreana. Le due famiglie al centro della pellicola rappresentano in maniera evidente i lati opposti di una barricata creata da logiche economiche e culturali rese possibili solamente da una sfrenata rincorsa al benessere ostentato dagli Stati Uniti, non a caso continuamente citati come sorta di terra promessa da Park e consorte, scontratasi con l'iceberg costituito dalla crisi economica mondiale del 2008 e dalle trasformazioni socio-economiche derivanti dalla digitalizzazione massiccia della vita contemporanea, simboleggiata dalla centralità dello smartphone all'interno del film. La prima metà sembra dunque rielaborare in chiave personale e grottesca la lezione della commedia all'italiana (la presenza di un brano di Morandi all'interno della colonna musica potrebbe essere un indizio in tale direzione) in cui le tante risate strappate nascondono in realtà un velo di estrema malinconia e rabbia verso una lotta di classe tutt'altro che diluita rispetto ai tempi in cui per primo ne parlò Karl Marx. Persino l'eccelsa eleganza formale con cui Bong riprende sia le brutture della famiglia Kim che l'elegantissima casa dei Park, i lunghi piani sequenza ricchi di morbidi movimenti di macchina e la ricercatissima composizione delle inquadrature anziché raffreddare il lato emozionale del film riescono ad accentuare la partecipazione empatica dello spettatore nei confronti dei quattro truffatori. Come dei novelli Totò risulta impossibile non patteggiare per Kim Ki-woo e gli altri, poveri diavoli mossi solamente dalla necessità a oltrepassare i confini della legge e in fondo senza mai ferire le proprie "vittime", a loro volta descritti senza alcun intento aprioristicamente antiborghese dal regista.
Ecco così che è il subentrare nella vicenda da commedia agrodolce della ex governante e di suo marito, poveri tra i poveri, disperati tra i disperati a segnare il cambio di registro, sia formale che narrativo. La rapida ed inesorabile escalation che trasforma la black comedy in tragedia sanguinolenta si consuma non a caso quando a confrontarsi e scontrarsi si trovano esponenti della medesima classe sociale dei più indigenti, mostrando la volontà di Bong di rimarcare come la vera tragedia della contemporaneità (in special modo in Corea del sud ma non solo) risieda in realtà nella lotta tra poveri conseguente proprio all'acutizzazione delle disparità sociali attuali. Trovare un compromesso che possa permettere a entrambi i gruppi di poveri di riscattare almeno in parte la dignità da sempre agognata appare una chimera, una possibilità irrealizzabile che viene scartata immediatamente in favore di una violenza sempre più fisica e distruttiva. Una violenza così pervasiva da lenire persino l'immagine fino a quel momento piuttosto positiva della famiglia benestante, della quale inizia a emergere lentamente ma inesorabilmente il disprezzo verso la classe "inferiore", simboleggiato dal cattivo odore che emanerebbe Kim Ki-taek.

Parasite, tirando le fila, mette in scena non tanto la lotta di classe, la contrapposizione ormai otto-novecentesca tra borghesia e proletariato quanto invece ciò che unisce e ciò che divide esseri umani. Uomini e donne, ragazzi e ragazze nei quali non esiste una malvagità o una bontà aprioristica ma soltanto una serie di rocambolesche circostanze che portano fratelli e sorelle appartenenti alla medesima specie a farsi del male.

venerdì 13 dicembre 2019

DOLOR Y GLORIA: UNA VITA IN 24 FOTOGRAMMI AL SECONDO

Pedro Almodóvar è internazionalmente divenuto sinonimo non solo di quella rinascita socio-culturale vissuta dalla Spagna negli anni Ottanta, in seguito alla definitiva chiusura dell'esperienza franchista, ma dell'intero panorama cinematografico iberico, al punto di essere riconosciuto persino dalla persona più indifferente alla settima arte. Con un tempismo quasi esoterico nel 2019, a circa quaranta anni dal suo esordio dietro la macchina da presa, il cineasta castigliano presenta al Festival di Cannes il suo lavoro più autobiografico: Dolor y gloria. La pellicola segna un vero e proprio trionfo per l'autore di Donne sull'orlo di una crisi di nervi (Mujeres al borde de un ataque de nervios, 1988), vincendo numerosi premi in tutto il mondo (al momento è in corsa anche per due Golden Globes) e ritrovando i favori anche del pubblico dopo un paio di tappe poco fortunate all'interno di un percorso di grandissima qualità.

Centro di gravità permanente del film è Salvador Mallo (Antonio Banderas), regista reduce da decenni di successi indimenticati ma nel pieno di una paralisi sia nel lavoro che nella vita privata causata, almeno in apparenza, da una lunga serie di problemi di salute. L'abbondanza di tempo libero permette all'uomo di riflettere sul proprio presente ma soprattutto sul passato, dall'infanzia in povertà vissuta affianco della volenterosa madre (Penelope Cruz) passando per due storie d'amore con uomini accomunati solamente dalla dipendenza dall'eroina. Proprio l'incontro con Alberto Crespo (Asier Extendía), attore protagonista di una delle sue opere più celebri, e con Federico (Leonardo Sbaraglia) porteranno a una svolta per l'impasse del regista.

Qualunque spettatore con una minima cognizione della filmografia di Almodóvar non può che notare quanto della sua vita reale si trovi nelle disavventure e nella caratterizzazione di Salvador, rendendolo in tutto e per tutto un alter ego dell'autore. Utilizzando l'amico Banderas come una sorta di avatar videoludico nel quale riversare la propria personalità, il proprio passato, i tormenti della diversità in un paese profondamente cattolico e vissuto per decenni tra le sbarre della dittatura, l'amore per il cinema e la nostalgia tipica dell'età che avanza, il cineasta spagnolo gira quello che potrebbe essere considerato il suo 8½ (Federico Fellini, 1963). Con i capolavoro felliniano il film in analisi condivide non solo la natura autobiografica e autoanalitica, bensì anche la discrasia temporale e soprattutto il ricorso a una mise en abyme che si rivela man mano sempre più raffinata e idonea a poter rappresentare lo stato d'animo di un uomo non più giovane diviso tra i rimpianti del passato e il desiderio di vivere il futuro che potrebbe attenderlo. La struttura a scatole cinesi della pellicola, barocca solamente in apparenza, cela in realtà una vena metacinematografica essenziale all'intimo racconto almodovariano poiché, come rivelato da Mallo all'interno del monologo che fa recitare ad Alberto, in ogni suo ricordo, fin dall'infanzia, c'è sempre stato il cinema e solo attraverso l'occhio della cinepresa riesce ad affrontare le questioni in sospeso trascinate per anni.
Attraverso una forma che unisce il gusto per il décor raffinato degli esordi al lavoro di sottrazione attuato nell'ultima parte di carriera, l'autore di Tutto su mia madre (Todo sobre mi madre, 1999) riesce a dare vita a una riflessione sul proprio vissuto di uomo e regista attuando gli stessi propositi che il suo alter ego enuncia nelle discussioni con il suo ex attore protagonista (si pensi, per esempio, alla categorica negazione delle lacrime) e, allo stesso tempo, toccando tutti quei temi che in circa quarant'anni di carriera lo hanno reso uno dei più importanti cineasti viventi. L'equilibrio con cui dosa emozione struggente e tenerezza quasi adolescenziale per filmare l'incontro tra Salvador e Federico è materiale che può scaturire solo dallo sguardo di un maestro, eppure a rubare la scena resta la tempesta di tonalità che colorano il rapporto con la madre, altro tema cardine della filmografia almodovariana. Un'esplorazione, attraverso spazi e tempi sempre diversi, di quello che appare come un mistero insondabile almeno quanto quello della natura una e trina di Dio secondo il dogma cristiano: come può una madre rifiutare di accettare la natura di un figlio che indubbiamente ama e per il quale ha vissuto un'esistenza intera? E come può un figlio perdonarla e convivere con la consapevolezza di averla delusa, pur amandola con tutto se stesso?
Salvador non pronuncia alcuna parola, alcuna frase che possa rispondere chiaramente al dilemma ma quel ricordo che si trasforma in ripresa cinematografica pare la più eloquente delle enunciazioni. L'amore non basta a salvarci ma il cinema sì.

lunedì 2 dicembre 2019

IT - CAPITOLO DUE: LA RESA DEI CONTI CON I PROPRI DEMONI

Il tutt'altro che atteso fenomeno cinematografico del 2017 è stato senza dubbio It, trasposizione diretta da Andy Muschietti di uno dei più celebri romanzi di Stephen King, già adattato nel 1990 per la televisione con una produzione in due puntate divenuta cult. Chiunque conoscesse l'opera originale o almeno la sua versione per il piccolo schermo una volta conclusa la visione del film sapeva di aver assistito solamente a circa metà delle avventure del Club dei Perdenti e dunque era facilmente pronosticabile l'arrivo di sequel. Il 2019 ha così visto l'arrivo nelle sale di tutto il mondo di It - Capitolo 2 (It: Chapter Two), conclusione del dittico che conferma gran parte del cast del prequel, a partire dal regista, aggiungendo quasi unicamente le versioni adulte dei protagonisti. Visti i numeri al botteghino ottenuti dal primo capitolo, le recensioni per la maggior parte positive e il gran numero di fan sparsi per il globo del capolavoro kinghiano l'attesa era davvero tanta, finendo per penalizzare molto più del dovuto la ricezione della pellicola. Chiaramente parliamo di un ulteriore successo per Muschietti, grazie agli oltre 400 milioni di dollari incassati e a una accoglienza da parte della critica discreta ma i risultati del predecessore restano ben lontano.

Ambientato ventisette anni dopo gli accadimenti del prequel, il lungometraggio in analisi vede il cosiddetto Club dei Perdenti alle prese con la vita da adulti, tutti in città e contesti molto diversi: Bill (James McAvoy da adulto, Jaeden Martell da ragazzo) è uno scrittore e sceneggiatore di successo ma frustrato dalle critiche ai suoi finali; Beverly (Jessica Chastain/Sophia Lillis) è una stilista di livello mondiale; Ben (Jay Ryan/Jeremy Ray Taylor) ha esaudito il suo sogno di diventare architetto e dimostra una forma fisica da modello; Richie (Bill Hader/Finn Wolfhard) è un famoso stand-up comedian; Eddie (James Ransone/Jack Dylan Grazer) lavora in ambito assicurativo; Stan (Andy Bean/Wyatt Olef) è un uomo d'affari di successo. Tutti vivono lontano da Derry, tranne Mike (Isaiah Mustafa/Chosen Jacobs), rimasto nel piccolo borgo del Maine in qualità di bibliotecario e che pare essere l'unico a ricordare ciò che era accaduto durante la loro giovinezza. In seguito alla scomparsa di un numero crescente di abitanti di Derry lo stesso Mike contatta telefonicamente i suoi vecchi amici, ricordandogli della promessa fatta nel finale del capitolo precedente: Pennywise (Bill Skarsgard), il mostro dalle sembianze di clown, è tornato e i Perdenti questa volta devono ucciderlo definitivamente.

Probabilmente molta delusione da parte del pubblico verso questo It - Capitolo 2 deriva da una "minore" presenza di scene prettamente orririfiche rispetto al capostipite e in parte non si può definire errata un'affermazione di questo tipo. A ben vedere, in effetti, Muschietti in questa chiusura del cerchio iniziato nel 2017 dona maggiore enfasi e approfondimento allo scavo del percorso psicologico ed emotivo occorso ai protagonisti, riuscendo così non solo a rendere personaggi a tutto tondo tutti i componenti del gruppo di amici ma anche a creare un giusto parallelo tra la maturazione dei personaggi e quella delle loro paure. Il clown danzante, esattamente come nel romanzo, non può che rappresentare una sorta di reificazione del male insito nella natura umana e delle paura che ogni uomo o donna è costretto ad affrontare nel corso della vita (non a caso è un essere mutaforma) e dunque diventa del tutto naturale che a dei ragazzini alle soglie della pubertà si manifesti in forme mostruose degne del più variegato tunnel dell'orrore, mentre per uomini e donne tra i trenta e i quarant'anni il terrore prende forme ben diverse. I mostri nell'armadio di ogni adulto assumono aspetti ben più sfumati, legati strettamente all'età che avanza, a una gioventù ormai svanita, ai problemi quotidiani e ai rimpianti che accompagnano ogni decisione presa. It - Capitolo 2, a differenza del prequel per ovvie ragioni, è una pellicola intrisa di nostalgia malinconica, di rimpianti e di lotte interiori tra due forze centrifughe: una che spinge l'uomo a dimenticare e accantonare il passato come se non fosse mai esistito, chiudendo gli occhi dinanzi a esso; l'altra che al contrario porta un adulto maturo a decidere non voltarsi più dall'altra parte, di ricordare il dolore provato nel passato e nel presente e di affrontare i propri demoni. Seguendo questa interpretazione si può comprendere come mai il cineasta argentino abbia scelto per questo sequel di recuperare il continuo salto temporale tra presente e adolescenza dei protagonisti, piazzando non a caso le apparizioni più fisiche e mostruose di Pennywise proprio nei flashback.
Questo slittamento di preminenza tra gli elementi tipicamente di genere e lo scavo psicologico non significa che il lungometraggio non abbia i suoi momenti di puro horror e soprattutto che rinunci alla ottima inventiva di Muschietti per gli spaventi: i tormenti personali di ogni Perdente rafforzano la partecipazione emotiva dello spettatore, grazie anche alle ottime performance del cast corale guidato da McAvoy e Jessica Chastain, e in tal modo anche la potenza orrorifica delle più sporadiche apparizioni di It e delle creature legate alla sua presenza a Derry. Persino la prima sequenza, un vero e proprio prologo talvolta criticato per la presunta distanza rispetto alle vicende di Billy e gli altri, assurge egregiamente al ruolo di introduzione ai toni e ai temi del film, in particolare nel momento in cui la coppia di giovani omosessuali (da notare che uno dei due è interpretato dal noto regista e attore Xavier Dolan) viene assalita e pestata non dal malefico clown, bensì da un gruppo di bulli omofobi. Mai come in questa scena, tutt'altro che edulcorata anche nella violenza grafica, esplode con chiarezza il pessimismo antropologico ereditato dal romanzo di King: certo a sbranare il povero Adrian è Pennywise, un essere alieno, ma ad averlo ridotto in fin di vita e gettato (letteralmente) nelle fauci della creatura sono stati giovani uomini (tra cui addirittura un adolescente), capaci di una ferocia incontrollata e incontrollabile solamente a causa del sesso della persona amata da uno sconosciuto. Questo è il vero Male, quello che nelle menti e nelle avventure dei Perdenti prende le sembianze di It ma che ogni lettore e spettatore conosce fin troppo bene, già dall'adolescenza. Adolescenza che però assume in sé anche la prerogativa di unico bagliore di luce pura all'interno della vita umana; locus amoenus in cui sbocciano le uniche autentiche forme di amicizia ed amore, così potenti e cristalline da poter sopprimere persino l'ombra gettata dal Male. Ecco dunque perché uno sparuto gruppetto di ragazzini prima e di adulti insoddisfatti dopo riesce a sconfiggere una forma di vita aliena sopravvissuta per secoli e in grado di trasformarsi in qualunque incubo la mente umana possa partorire.

La purezza dell'amore adolescenziale può vincere tutto e tutti. Paura, rimpianto, vergogna, senso di colpa, menzogne. Forse anche quella pecca (più o meno) veniale che affligge Billy e lo sceneggiatore Gary Dauberman quando si tratta di concludere una bella storia. Il didascalico finale di It - Capitolo 2, macchiato secondo me anche da una svolta del racconto di dubbio gusto sul versante morale oltre che prettamente narratologico, non mina comunque il magnifico affresco dipinto da Muschietti sull'ancor più straordinario soggetto fornitogli da Stephen King (il romanzo It) e dalla vita (l'adolescenza).