mercoledì 31 ottobre 2018

MINE: IL DESERTO DEI TARTARI IN OGNUNO DI NOI

Come avevo precedentemente affermato a proposito di The End? L'inferno fuori il cinema di genere in Italia, dopo almeno due decenni di crisi e di chiusura verso una nicchia sempre più esigua, sta vivendo un vero e proprio rinascimento facendo proprio stilemi internazionali per poi rileggerli attraverso la realtà autoctona, proprio come accaduto negli anni d'oro di Cinecittà con la famiglia Bava, Riccardo Freda, Lucio Fulci, Antonio Margheriti, Sergio Leone e molti altri. All'interno di questa seconda giovinezza trova una propria posizione ben distinta Mine, primo lungometraggio diretto da Fabio Guaglione e Fabio Resinaro tramite una co-produzione tra Italia, Stati Uniti e Spagna sostenuta da Armie Hammer, produttore esecutivo e protagonista del film. Sebbene, piuttosto inspiegabilmente, l'opera prima dei due non abbia convinto la critica americana in Italia l'accoglienza si è rivelata ben più generosa, impreziosita da recensioni positive, buoni riscontri commerciali e varie candidature ai David di Donatello e al Nastro d'argento.

Protagonista assoluto della pellicola è il marine Mike Stevens (Armie Hammer), impegnato in una missione in Nord Africa come cecchino insieme all'amico Tommy. I due sono incaricati di assassinare un pericoloso terrorista ma Mike, sebbene possieda una mira infallibile, resta come pietrificato e rinuncia a colpire il bersaglio quando si rende conto che quest'ultimo si trovi coinvolto in un matrimonio e che l'unico modo per ucciderlo sarebbe stato sparare anche agli sposi. Scoperti dagli uomini al soldo del bersaglio mancato i due soldati fuggono attraverso il deserto e impossibilitati da alcune tempeste di sabbia a ricevere il soccorso immediato dei mezzi aerei si incamminano in cerca del primo villaggio disponibile. Durante la fuga finiscono loro malgrado in un vecchio campo minato: Tommy fa inavvertitamente scoppiare un ordigno mentre il compagno ne calpesta uno ma riesce a bloccarsi per evitare di azionarlo. Rimasto senza gambe e sanguinante l'osservatore si spara mentre Mike resta bloccato con il piede sulla mina in attesa dell'arrivo dei soccorsi.

Con un incipit in medias res Mine appare per i primi 20 minuti circa come un tipico war movie statunitense contemporaneo con l'ambientazione esotica, lo scontro ormai divenuto archetipico tra i marines buoni e i terroristi islamici cattivi e una coppia di protagonisti tendente al buddy movie, data la caratterizzazione opposta dei due (uno taciturno e pessimista, l'altro loquace e sempre pronto allo scherzo). Nel momento in cui Mike dimostra per la prima volta di non riuscire a muoversi, a fare un ulteriore passo nella propria vita, ossia quando evita di sparare al bersaglio, il film si trasforma in un thriller di sopravvivenza nel quale il deserto si tramuta da puro ambiente ad antagonista; una trappola che stringe d'assedio i due soldati proprio come farebbe un esercito nemico fino a farli cadere nell'imboscata del campo minato. Ed ecco che la pellicola subisce un'ulteriore e definitiva trasformazione: come un bruco che diventa crisalide e infine una farfalla l'opera prima di Fabio & Fabio (così si firmano nei titoli di testa) trova la propria identità matura in un viaggio metaforico e psicologico tra presente e passato, reale e immaginazione nel quale fattualmente Mike non si muove mai. Alla stregua di un contemporaneo Odisseo legato all'albero maestro della propria nave per non cedere alle lusinghe delle sirene il soldato americano tenta di resistere alla tentazione di spostare il piede dall'ordigno mantenendo una posizione che lo mantenga in vita ma che è anche identica a quella assunta da un uomo quando chiede la mano della donna amata e quella di un cavaliere durante l'atto di reverenza verso il proprio re e la propria regina. Il personaggio interpretato con notevole capacità fisica ed emotiva da Hammer conosce bene questa posizione poiché costituisce parte integrante di quel passato dal quale non riesce proprio a fuggire, nonostante l'escapismo che ha causato la sua scelta di arruolarsi, esattamente come la coppia di registi italiani conosce forme e contenuti della mitologia occidentale, sia essa di matrice ellenica o bretone, perché il lungometraggio appare intriso di riferimenti sia all'Odissea che al ciclo arturiano. Esattamente come l'eroe omerico Mike affronta un viaggio irto di insidie per poter tornare a casa dalla donna che ama, spesso alla deriva senza poter ricevere aiuto se non da figure incontrare lungo il percorso ma la sua peregrinazione è tutta interiore, simbolica e attraversa non i confini del mondo conosciuto ma il passato e i demoni che l'uomo ha portato con sé in missione. Resistere alla tentazione di abbandonarsi ancora una volta alla paura e all'immobilità, alla non-decisione non è facile per il protagonista, esattamente come è dura sopportare il clima avverso, la sete e gli assalti di creature selvagge che appaiono durante la notte proprio come creature infernali più mitologiche che reali.

La dura battaglia per la vita e la libertà combattuta da Mike si dipana tra visioni oniriche, ricordi in flashback e miraggi causati dalla stanchezza ma la notevole capacità di raccontare per immagini dei due cineasti italiani si palesa mediante la materializzazione di due archetipi della fiaba, l'antagonista e l'aiutante, nelle figure del già citato deserto e di un anonimo Berbero interpretato con enorme umanità da Clint Dyer. Esattamente come avviene nell'impianto narratologico del racconto fiabesco il deserto tenta in ogni modo di abbattere il desiderio di resistere e di liberarsi finalmente dei fardelli che bloccano il percorso di Mike mentre il saggio aiutante fa di tutto per mantenere in vita lo sconosciuto straniero e anzi, tramite un mix di saggezza e dolce ironia, mostra al soldato come la posizione nella quale questi si trovi sia dettata non da interventi esterni ma dalla sua paura, dal timore di commettere l'ennesimo errore diventando un mostro come suo padre. Un vero e proprio deserto dei Tartari personale dunque che tiene bloccato un singolo uomo esattamente come nel capolavoro di Buzzati accade per un esercito simbolo di un paese e di un intero sistema socio-politico come quello determinato dalla Guerra fredda. Questo e molto altro ancora è Mine, un esordio folgorante per due giovani registi che dimostrano un talento probabilmente appena scalfito e che magari un giorno verrà compreso anche oltreoceano.

martedì 30 ottobre 2018

IL CASO SPOTLIGHT: IL CINEMA D'INCHIESTA AMERICANO DAL 1976 AL 2015

Quarantadue anni fa, nel 1976, arrivava nelle sale americane, nel pieno del clima di rinnovamento e sfiducia verso le istituzioni classiche causato dalle rivolte giovanili, dalla ferita costituita dalla Guerra del Vietnam, dalla scandalo Watergate e dalle nuove evoluzioni della New Hollywood, Tutti gli uomini del presidente (All President's Men), pellicola diretta da Alan J. Pakula capace di ricostruire con estrema lucidità e uno stile visivo da reportage di guerra proprio l'inchiesta che aveva portato alle dimissioni di Richard Nixon. L'enorme successo di quest'opera inaugurava la diffusione di un vero e proprio filone cinematografico statunitense legato dalla volontà di portare su schermo il coraggio e la caparbietà con la quale il giornalismo può smascherare gli intrighi di potere delle istituzioni solitamente intoccabili, sfruttando anche l'aria di complottismo conseguente proprio alla scoperta degli abusi di potere dell'ex presidente. Oggi, vivendo un decennio la cui parola d'ordine pare essere "vintage", tra le tantissime tendenze, tipologie di produzioni o modelli che vengono ripescate dal passato per essere adattate a un'idea dello stesso fortemente legato al sentimento nostalgico è possibile rintracciare proprio quel cinema d'inchiesta grazie soprattutto a Il caso Spotlight (Spotlight), quinto lungometraggio diretto dall'attore Tom McCarthy. L'opera girata nel 2015, certamente non l'unica a seguire questa linea d'indirizzo, merita una certa attenzione quantomeno per il successo che riscuote alla sua uscita, specialmente all'interno della critica anglofona che la elogia come uno dei migliori prodotti dell'anno, aiutandola persino a ben sei candidature agli Academy Awards, con tanto di vittoria nella categoria per il miglior film.

La pellicola ricostruisce, con notevole rispetto dei fatti realmente accaduti, l'inchiesta messa in piedi dalla squadra Spotlight del Boston Globe nel 2001 capace di portare alla luce una fitta rete di preti pedofili nella città del Massachusetts e soprattutto la connivenza del cardinale Bernard Law, al corrente degli atti orribili perpetrati da questi prelati e colpevole di aver organizzato un sistema di spostamenti degli stessi da una località all'altra e di risarcimenti economici secretati alle vittime per poterne coprire le tracce. Il team formato da Walter Robinson (Micheal Keaton), Michael Rezendes (Mark Ruffalo), Sacha Pfeiffer (Rachel McAdams) e Matt Carroll (Brian d'Arcy James), sostenuto dal neodirettore Martin Baron (Liev Schreiber) riesce a rintracciare e soprattutto a rendere pubbliche le prove della colpevolezza di circa novanta preti e l'accondiscendenza del cardinale, nonostante l'ambiente omertoso nel quale si trovano a dover lavorare.

Dilungarsi sullo spinoso tema della diffusione della pedofilia all'interno delle schiere ecclesiastiche mi pare piuttosto superfluo in questa sede, specialmente perché proprio Spotlight lo affronta con una sobrietà, una consapevolezza della complessità dello stesso e, cosa fondamentale in ambito giornalistico, una aderenza alle fonti e alla loro attendibilità capaci di aprire gli occhi persino al più disinteressato degli spettatori. Una capacità tutt'altro che comune resa possibile dall'ottimo lavoro di sceneggiatura di McCarthy e Josh Singer ma in buona parte dovuta anche alla straordinaria performance attoriale di un cast composto da attori di prim'ordine accomunati dal disinteresse verso l'istrionismo o la tipica volontà di catalizzare l'attenzione del pubblico propria del divo, categoria alla quale in fondo sfuggono tutti gli interpreti presenti (si pensi a Keaton e alla sua lotta al divismo messa in scena in Birdman, girato dal messicano Inarritu nel 2014). Proprio la centralità degli attori e della creazione dei loro personaggi rappresenta uno dei tanti ponti che collegano l'opera in questione con quell'ondata di cinema d'inchiesta citata precedentemente e in particolare con Tutti gli uomini del presidente, anch'esso forte delle performance sobrie ma altrettanto potenti di interpreti quali Dustin Hoffman, Robert Redford o Martin Balsam e capace di riflettere non solo sul motivo etico alla base dell'indagine portata sul grande schermo (la fitta rete di abusi di potere di Nixon si rispecchia in quella creata da Law per occultare la pedofilia ecclesiastica) ma anche sul giornalismo stesso, sulla sua capacità di aprire o chiudere gli occhi delle persone comuni e sulla difficoltà nel riuscire a difendersi dalle pressioni politiche. Lo sguardo del regista di New Providence non può però essere il medesimo di Pakula, data la distanza temporale tra i due lungometraggi, e dunque il film del 2015 appare come l'ennesimo tentativo di riportare in vita un fenomeno passato attraverso una lente nostalgica tipica dell'estetica vintage: in particolare al lavoro svolto dall'autore di The Visitor (2007) manca la ricerca formale da reportage bellico tipica dello stile di Pakula, influenzato certamente dalle immagini del Vietnam e dall'ibridazione cinematografica delle stesse operate da altri cineasti della Hollywood Reinassance quali Francis Ford Coppola, George Lucas e John Milius. Nel 2015 i riferimenti culturali e visuali per un regista sono ovviamente ben diversi da quelli di quattro decenni fa e dunque risultano ben evidenti le influenze ben più contemporanee di McCarthy, specialmente quelle provenienti dal linguaggio del serial televisivo di genere thriller (si pensi alle varie serie facenti parte del franchise Law & Order).

Spotlight rappresenta in definitiva un caso esemplare della tendenza alla riscoperta del passato mediante un filtro di sapore nostalgico tipico dell'attuale cultura vintage e nel caso in essere a essere riportato alla luce è la cinematografia d'inchiesta giornalistica esplosa negli anni '70 negli USA. Questo ancoraggio al passato certamente non connota negativamente di per sé l'operazione svolta dall'autore e anzi potrebbe persino essere appropriato parlare di aggiornamento o evoluzione di taluni modelli, eppure mi pare un gran peccato aver sacrificato la ricerca stilistica presente in Tutti gli uomini del presidente e in generale tipica del grande cinema. Un difetto quasi mai notato dalla critica in sede di recensione del film, esattamente come pochi hanno dotato il giusto risalto alle magnifiche musiche composte da Howard Shore, forse il vero valore in più di Spotlight rispetto ai propri modelli.

lunedì 22 ottobre 2018

LOOPER: UCCIDERE FREUDIANAMENTE I PADRI SECONDO RIAN JOHNSON

Oggi il nome di Rian Johnson tende a essere abbinato da molti a Star Wars: Episodio VIII - Gli ultimi Jedi (Star Wars: The Last Jedi, 2017) e peraltro, grazie alla magia oclocratica dei social network, anche con un accento qualificante di segno negativo, nonostante le recensioni estremamente negative ricevute sia in Italia che nel resto del mondo dall'ultimo capitolo in ordine cronologico del franchise creato da George Lucas, altra vittima illustre delle spietate quanto stupide sentenze del popolo del web 2.0. Prima di tutto questo il regista cresciuto in California aveva, però, stupito gli Stati Uniti e il mondo con progetti a basso e medio budget fino a trovare nel suo terzo lungometraggio la propria consacrazione ad autore riconosciuto anche dal grande pubblico: Looper, scritto e diretto nel 2012, si è rivelato difatti un enorme successo sia critico che commerciale, spianando la strada a Johnson verso la saga dedicata alla famiglia Skywalker.

Ambientato a cavallo tra diversi piani temporali futuri il film narra la parabola discendente di Joe (un Joseph Gordon-Levitt completamente trasformato dal trucco per farlo somigliare all'altra star del cast), uno dei tanti looper che vivono nel 2044, ossia un assassino su commissione che si occupa di eliminare persone scomode inviate nel passato dall'anno 2074. Dopo aver svolto numerosi lavori il giovane appare intenzionato a lasciare gli Stati Uniti per potersi godere la vita con i guadagni dell'attività da killer ma i suoi progetti vengono sconvolti prima dalla sfortunata sorte dell'amico Seth, un altro looper che non ha avuto il coraggio di uccidere il se stesso del futuro (un'azione chiamata nel gergo del film "chiudere il loop"), e poi dall'incontro con il Joe del 2074 (Bruce Willis), che sopravvive a quello che sarebbe dovuto essere il proprio omicidio e chiede aiuto al suo io del passato per mettere fine alla vita del bambino che nel futuro diventerà lo Sciamano, un uomo capace di diventare senza aiuti il boss della malavita americana e responsabile della morte della donna incontrata da Joe in Cina.

Addentrarmi oltre nel tutt'altro che semplicistico apparato narratologico imbastito da Rian Johnson sarebbe allo stesso tempo tediante e demotivante, specie per chiunque non avesse ancora visto questo Looper e quindi si trovasse a essere ancora vergine dalle continue divagazione temporali del quale è ricco. Eppure nonostante appunto l'importanza del viaggio nel tempo e delle possibilità offerte dai due futuri prefigurati dal regista questi finiscono per essere quasi dei MacGuffin hitchcockiani o quanto meno dei meri mezzi per poter affrontare tematiche etiche e sociali che sono fondamentali per la poetica dell'autore in questione, esattamente come accadeva in quello che può essere definito il modello di riferimento maggiore per la pellicola, Terminator di James Cameron (1984). L'intera intuizione della figura del looper e soprattutto quella della pratica costituita dalla chiusura del loop risultano evidenti espedienti dotati di notevole capacità immaginifica per inscenare i due conflitti alla base stessa dell'esistenza umana, fin dalla notte dei tempi: quello tra padri e figli e quello di ogni uomo con il proprio passato. La scelta di immaginare un ipotetico futuro sfruttato da un ulteriore temporalità successiva per poter ripulire le proprie brutture simboleggia con evidenza e forza l'eterno ciclo di battaglie tra le diverse generazioni, la dialettica conflittuale che si instaura ogniqualvolta i giovani si trovano a dover avvicendarsi con la fascia d'età corrispondente ai genitori, dei quali spesso non vengono approvati comportamenti e convinzioni finendo per rendere sempre tumultuoso questo cambio. Come affermato agli albori del XX secolo da Sigmund Freud per poter diventare adulto ogni uomo ha bisogno di compiere un vero e proprio patricidio di tipo morale, sociale ed emotivo attraverso il quale rendere stabile la propria posizione di individuo indipendente e motivato da scopi e atteggiamenti nuovi rispetto al passato. Lo stesso desiderio che ha permesso nel secondo tragico dopoguerra alle giovani generazioni tedesche di superare il trauma causato dalla scoperta di discendere da una classe genitoriale che, nel migliore dei casi, si era resa complice degli orrori del nazismo ma anche il medesimo spirito che anima per l'intera durata del lungometraggio Joe, il quale vede nel suo io del futuro non tanto una proiezione di sé quanto uno scomodo genitore che tenta di imporre al figlio la propria visione del mondo e una vita prestabilita. Non è un caso che questi nel momento in cui si confida con la madre single Sara (Emily Blunt) affermi che l'uomo che intende attentare alla vita del figlio di lei sia suo padre e non se stesso; una bugia che riafferma la percezione freudiana di contrasto padre-figlio che probabilmente colpirebbe chiunque venisse a trovarsi nella situazione paradossale di Joe.

All'opposto l'ex looper interpretato da Willis vede nella sua giovane controparte il riflesso in carne e ossa di un periodo passato della propria vita pieno di errori e possibilità sprecate per poter dare un senso alla stessa. Certamente vi è nella posizione di supremazia rispetto al giovane che si autoimpone una certa dose della condizione di padre, come in fondo conferma il desiderio espresso dall'uomo più volte con grande dolore di divenire genitore, ma appare più forte dalla sua prospettiva la consapevolezza dell'identificazione totale tra i due Joe. Per il più anziano l'incontro con il suo io passato costituisce dunque una sorta di riflessione resa più sensoriale dal viaggio del tempo su ciò che avrebbe potuto cambiare dei suoi trascorsi potendo contare sull'esperienza e la consapevolezza donate dall'età, proprio come farebbe chiunque di noi davanti a una vecchia foto incontrando una persona appartenente a un periodo della propria vita ormai concluso e accantonato nel ripostiglio della memoria. Dunque tutto l'apparato fantascientifico e l'impianto narratologico a incastri e paradossi temporali degno del miglior Cameron finisce per costituire un mezzo per affrontare da una angolazione insolita l'atavico tema del conflittuale avvicendamento delle generazioni e del rapporto con il tempo, proprio nello stesso modo con il quale Johnson si approccia visualmente a quello che, per budget e ambizioni, costituisce a tutti gli effetti una produzione tendente a un bacino d'utenza mainstream. L'autore di Brick (2005), sebbene sappia di dover attirare un pubblico ben più ampio rispetto a quello previsto per il suo debutto indipendente, ricorre a un linguaggio filmico ancora una volta assolutamente personale, ritmato da un'alternanza quasi jazzistica tra long take e rapidissimi stacchi di montaggio sui tipici primi piani schizofrenici del regista statunitense, nei quali spesso la cinepresa, dopo aver costruito con precisione maniacale un'inquadratura perfettamente armonizzata con un punto di fuga centrale , sposta la propria attenzione su angolazioni vuote o finisce per tramutare una oggettiva in soggettiva senza ricorrere alla classica costruzione tripartita di questo tipo di inquadrature. Alla stregua del suo protagonista anche l'autore appare ben intenzionato a uccidere il passato e i suoi dogmi, proprio come confermato nel successivo Gli ultimi Jedi attirandosi le ire dei fan più esagitati di Star Wars.

Un'opera in grado di rispecchiare a trecentosessanta gradi poetica e stile del proprio autore all'interno di un contesto di genere appetibile per il grande pubblico: questo è Looper dovendone riassumere l'essenza in una brevissima frase. Per chi scrive uno dei migliori film capaci di unire autorialità e ambizioni commerciali del terzo millennio.

venerdì 19 ottobre 2018

THE PREDATOR: LA RIVINCITA DEI REIETTI

In seguito a un'attesa di ben otto anni è finalmente arrivato da qualche settimana anche in Italia The Predator, sequel ufficiale della saga fantascientifica nata nel 1987 con Predator dell'ingiustamente dimenticato John McTiernan. Il quarto episodio dedicato agli ormai celebri cacciatori alieni vede alla regia Shane Black, una garanzia di grande intrattenimento soprattutto in qualità di sceneggiatore, come dimostrano i vari Arma letale (Lethal Weapon, Richard Donner, 1987) o The Nice Guys, diretto dallo stesso Black nel 2016. Per l'occasione l'autore di Iron Man 3 (2013) ha riportato nel novero del cinema ad alto budget anche l'amico di vecchia data Fred Dekker nel ruolo di co-sceneggiatore ma nonostante ciò, almeno a oggi, il film in questione risulta aspramente criticato sia dai fan che dalla stampa anglosassone e, di pari passo con le recensioni negative, anche il botteghino sembra che stia sancendo il fallimento del progetto di riportare in auge il franchise.

Protagonista della pellicola è il cecchino statunitense Quinn McKenna (Boyd Holbrook), il quale durante una missione viene coinvolto nell'atterraggio disperato sul nostro pianeta da parte di un'astronave di un Predator, alieno dalle grandi capacità fisiche e strumentazioni tecnologiche con la passione per la caccia sportiva di altre razze. Prima che il mezzo extraterrestre e il suo pilota vengano occultati dalle forze governative che studiano i visitatori fin dai tempi del primo incontro con l'uomo del 1987 (il riferimento va agli avvenimenti del primo capitolo della saga) il soldato recupera l'elmo simile a una maschera e parte dell'armatura aliena come prova di ciò che ha visto e decide di spedirli alla sua famiglia, composta dalla moglie dalla quale appare ormai separato e dal figlio affetto da autismo Rory. Come prevedibile Quinn viene prontamente posto sotto arresto dall'esercito in quanto scomodo testimone e inserito in un gruppo di altri condannati dal tribunale militare, tutti profondamente colpiti nella psiche e nell'emotività: Nebraska Williams (Trevante Rhodes), marine con istinti suicidi, Coyle e Baxley (Thomas Jane), una coppia di ex amici affetti da chiari segni di stress post-traumatico, Lynch, soldato appassionato di illusionismo, e Nettles, pilota affetto da disordini mentali e un'estrema fede cristiana. Lo strampalato team di ex militari si trova suo malgrado a passare nei pressi del complesso nel quale un ensemble di scienziati studia le creature aliene attraverso il progetto diretto da Will Traeger, spietato quanto scaltro agente governativo che ha chiamato i visitatori spaziali Predator, quando, durante il primo giorno di lavoro della biologa Casey Bracket (Olivia Munn), l'extraterrestre riesce a liberarsi per mettersi alla ricerca dei pezzi mancanti della propria armatura. Durante la fuga dell'alieno la scienziata, tra i pochi sopravvissuti, si imbatte in McKenna e gli altri che la salvano dal tentativo dell'esercito di metterla a tacere e decidono di portarla con loro nella loro missione quasi impossibile: salvare il piccolo Rory dalle mire del Predator e di Traeger.

Dalla visione della pellicola e persino da questa, in parte convulsa, sinossi appare chiaro a chi abbia dimestichezza con il cinema americano anni Ottanta come The Predator attinga a piene mani da quel decennio e soprattutto dalla filmografia di tale periodo della sua coppia di autori, in particolare mi riferisco a quel Scuola di mostri (The Monster Squad, 1987), cult movie scritto e diretto da Dekker proprio con l'amico Black. La struttura narrativa ricalca in maniera evidente la ripartizione in circa tre piste percorse da altrettanti gruppi di personaggi che poi si riuniscono per la battaglia finale tra i tipici sobborghi della provincia americana. Oltre alla struttura narratologica portante ciò che davvero conferisce un'aura d'altri tempi e tipica della coppia di registi-sceneggiatori è l'intero spirito con il quale viene affrontato un lungometraggio con valori produttivi e ambizioni commerciali da blockbuster del terzo millennio. Come ormai risulta palese probabilmente anche ai muri il modello di pellicola ad alto budget da almeno una decina di anni è costituito dalle produzioni targate Marvel e da tutti i suoi epigoni, uniti da una tendenza all'intrattenimento ibrido tra action e commedia del tutto epurato da qualsivoglia riferimento sessuale o violento in grado di nuocere alla sensibilità dell'odierno web 2.0 e capace di ammaliare il pubblico tramite una fortissima spinta seriale, quasi come se ogni film sia anche un trailer per i seguenti. The Predator certamente non rinnega in toto questa tendenza dominante il panorama mainstream attuale (ricordo che Shane Black resta comunque l'autore proprio di uno dei capitoli del MCU) e dunque sfoggia alcuni dei caratteri tipici di essa quali l'abbondanza di CGI e un finale che, senza concedermi troppi spoiler, ammicca a possibili sequel ma allo stesso tempo resta fedele a una visione del cinema di genere e di intrattenimento assolutamente personale e per molti aspetti anacronistica. L'umorismo scaturito dalle stramberie del team capitanato da McKenna non potrebbe mai trovare spazio in un prodotto di matrice disneyana, specialmente quando arriva a toccare temi delicati come la diatriba uomo-donna o le disabilità mentali, così come la stessa idea di rendere protagonisti assoluti del film persone affette da evidenti disabilità psichiche o semplicemente dotati di una morale tutt'altro che cristallina come lo stesso cecchino o la biologa Bracket. Qualcosa di simile è stato in parte tentato da James Gunn con il suo dittico sui Guardiani della Galassia ma completamente edulcorato dalle palesi riflessioni sulle conseguenze reali della diversità di qualunque tipo in una società fortemente competitiva e uniformante come quella attuale presenti nella pellicola in analisi, la quale per certi versi riesce persino a assurgere a una sorta di summa delle riflessioni su tali tematiche già affrontante in passato da Black e Dekker nel già citato Scuola di mostri o in Kiss Kiss Bang Bang (2005), uno dei pochissimi action hollywoodiani con protagonista un personaggio omosessuale libero da stereotipi strumentali a una facile risata o a un'altrettanto grossolana lacrima.

In un panorama culturale che tende all'appiattimento, alla standardizzazione in ogni settore film commerciali come questo The Predator sono specie in via d'estinzione da proteggere con la massima cura (per chi ha visto il film l'ammiccamento a un tema da non sottovalutare è assolutamente voluto) e non perché questi sia un'opera perfetta o degna dell'Olimpo della storia del cinema ma semplicemente per il suo coraggio, nella fierezza con cui non nasconde la propria diversità, facendo tesoro persino delle proprie debolezze, come l'autismo che rende Rory incapace di fare amicizia con molti dei suoi coetanei ma al contempo ne "amplifica" sincerità e alcune capacità di apprendimento. Come il team composto da Nebraska e compagni l'ultimo lavoro della coppia di amici che aveva tentato di conquistare Hollywood negli anni '80 probabilmente finirà per essere dimenticato da molti ma per coloro che ne comprenderanno pregi e difetti resterà un'esperienza preziosa.

lunedì 15 ottobre 2018

NIGHTCRAWLER: L'ETICA DELL'IMMAGINE TRA CINEMA E MONDO ATTUALE

Dopo aver passato anni a scrivere per il cinema, proprio come il più celebre fratello Tony, Dan Gilroy esordisce alla regia nel 2014 con un progetto a basso budget prodotto dalla sua star incontrastata Jake Gyllenhaal: Lo sciacallo - Nightcrawler (in originale semplicemente Nightcrawler). Tramite la fama dell'attore portato alla ribalta da Donnie Darko (Richard Kelly, 2001), il passaparola tra gli spettatori e gli ottimi riscontri ricevuti ai festival il film si guadagna una buona fetta di mercato al box office ma soprattutto i favori di critica e pubblico di tutto il mondo, certificati dalle candidature ricevute ai Golden Globe e agli Academy Awards.

Centro gravitazionale dell'opera scritta e diretta da Gilroy è Lou Bloom (Jake Gyllenhaal), ladro di rame e altri metalli in cerca di una attività che gli permetta di sbancare il lunario come un vero imprenditore, convinto dalla sua istruzione fai da te online di avere tutte le carte in regola per poter scalare la piramide sociale con impegno, costanza e disposizione a imparare da qualunque situazione. L'opportunità che attendeva da anni gli capita quando per caso assiste alle riprese di un operatore freelance di crimini o eventi comunque appetibili per dei servizi giornalistici televisivi. Armato solamente della propria ferma volontà, una videocamera economica e una radio con la quale intercettare le frequenze della polizia l'uomo riesce a filmare un numero sempre maggiore e qualitativamente migliore di omicidi eclatanti, tutti rivenduti con soddisfazione a Nina Romina (Rene Russo), direttrice del tg di una emittente di Los Angeles in crisi di audience. Lou ben presto capisce che per espandere il proprio business necessita della rapidità che gli permetta di anticipare i colleghi edi immagini sempre più violente, a qualunque costo.

Come notato, piuttosto sagacemente, da molta critica nostrana sarebbe superficiale limitare questo Nightcrawler a un ennesimo attacco alla spettacolarizzazione esasperata della violenza da parte dei mass media, in particolare la televisione. In fondo lo stesso 2014 segna il successo mondiale di Gone Girl, opera nella quale Fincher mette alla berlina con il medesimo ironico disincanto, tipico del regista, sia l'istituzione del matrimonio che la spietata manipolazione della realtà operata da tv e social network, specialmente quando si tratta di eventi particolarmente violenti. Certamente nell'opera prima di Dan Gilroy non manca questa rappresentazione a metà tra nichilismo e umorismo della strumentalizzazione, per puri fini economici, delle notizie da parte dei media più diffusi eppure in questo caso tale tematica appare, in maniera forse più fine, come una declinazione simbolica della più ampia capacità del rapporto tra l'uomo e le immagini di rispecchiare la sua condizione attuale. La scelta di utilizzare proprio le riprese, seppur per finalità televisive, da parte di Lou per realizzare il suo proposito di diventare finalmente un imprenditore di successo, così come l'insistenza su dati procedimenti tecnici e formali tipici della settima arte, non possono non celare una profonda riflessione metalinguistica sulla relazione tra immagini cinematografiche e l'atto stesso del guardare in una società come quella contemporanea, bombardata ogni singolo giorno da pellicole di qualunque tipo e provenienza, sempre più "generose" in materia di violenza grafica in una dinamica di diretta proporzionalità tra scene truculente e insaziabile e morboso bisogno di alzare l'asticella di tali rappresentazioni. Lo stesso protagonista non appare spinto da un proprio intimo bisogno a superare ogni limite legale e morale pur di immortalare scene sempre più sanguinolente all'interno di contesti benestanti, bensì da una richiesta altrui sempre più pressante di queste immagini, come dei prodotti così richiesti dalla clientela da non poter essere ignorati da un provetto uomo d'affari come lo strambo personaggio ottimamente interpretato da Gyllenhaal.

Lou, in virtù di tale riflessione, appare non tanto come un avido cultore della violenza ma come il perfetto prototipo dell'esasperazione del modello capitalistico americano, del self-made man che tramite la propria ferma volontà riesce ad arrivare a un successo determinato solamente dal potere sul prossimo e dalla ricchezza pecuniaria, a discapito di ogni codice etico. Il figlio prediletto della crisi economica e morale scoppiata in tutta la sua cruda essenza nel 2008 proprio come Travis Bickle incarna la desolante condizione sociale scaturita dalla guerra in Vietnam.

Nightcrawler in poche parole costituisce un esordio estremamente interessante per Dan Gilroy, arricchito da una scrittura di grande livello, una performance conturbante da parte della propria star ma soprattutto una qualità visiva non così scontata per un regista formatosi principalmente con la parola scritta. Il digitale vivido e dotato di una profondità di campo quasi esasperata adottato per portare su schermo una Los Angeles notturna popolata solamente da criminali e avvoltoi richiama un modello non banale come quello di Michael Mann, rendendo ancora più evidente come oltre alla riflessione morale abbia un ruolo centrale quella sul mezzo cinematografico.

martedì 9 ottobre 2018

EXCALIBUR: MITOLOGIA DIPINTA SUL GRANDE SCHERMO

Per quei, purtroppo, non tantissimi all'esterno della cerchia degli addetti al settore che ancora ricordano un certo John Boorman tale regista è sinonimo di Un tranquillo weekend di paura (Deliverance), pellicola del 1972 capace di vincere ben tre Academy Awards nonostante la crudezza sia delle immagini che delle tematiche trattate. Nell'arco di meno di dieci anni da quel trionfo assoluto il cineasta inglese dirige solamente altri tre film, l'ultimo dei quali ho scelto di approfondire oggi: Excalibur. Presentato nel 1981 al Festival di Cannes il lungometraggio conquista i favori della critica quasi esclusivamente dal punto di vista della messinscena, guadagnandosi persino un premio speciale alla rassegna transalpina, ma al box office si rivela uno dei maggiori incassi dell'anno. Incredibile come oggi sia così fuori dai radar per la stragrande maggioranza dei "cinefili" cresciuti a pane e Tarantino.

Come intuibile dal titolo l'opera in questione rappresenta una libera trasposizione, co-scritta dallo stesso Boorman, di La morte di Artù, realizzato da Sir Thomas Malory nel XV secolo raccogliendo l'enorme mole di leggende circolate per via orale sul sovrano capace di riunificare la Gran Bretagna amministrandola insieme ai propri fidi cavalieri. Il film ripercorre l'intero percorso di vita di Artù (Nigel Terry), dal suo concepimento propiziato dalla magia di Merlino (Nicol Williamson) passando per l'estrazione dalla roccia della mitica Excalibur, la nascita della tavola rotonda, il tradimento di Ginevra e Lancillotto (Nicholas Clay), la ricerca del Graal per salvare il regno e infine la battaglia decisiva tra il protagonista e quel figlio da lui generato a causa di un incantesimo della sorellastra Morgana (Helen Mirren).

Andare oltre nel riassumere le vicissitudini narrate nella pellicola mi pare alquanto superfluo, dato che oggi, attraverso un mezzo o un altro, conosce a grandi linee il cuore del Ciclo arturiano, uno dei miti fondativi della cultura occidentali, esattamente come i poemi omerici, e dunque fonte di rielaborazioni continue attraverso le più disparate forme di espressione (basti pensare al classico Disney La spada nella roccia, diretto nel 1963 da Wolfgang Reitherman). Esattamente come fatto qualche anno prima da un altro dei maggiori esponenti della Hollywood Reinassance, George Lucas, Boorman abbandona del tutto con questo lavoro la dimensione sociologica tanto cara al movimento di rivoluzione del cinema statunitense per abbracciare il racconto mitico e dunque le origini stesse, le radici dell'atto del narrare. Il regista britannico non tenta neanche di conferire alle vicende arturiane uno sviluppo consono all'idea di matrice romanzesca del racconto, non espande la psicologia dei personaggi fino a renderli capaci di modificarsi nel corso della fabula poiché un'impostazione mitologica prevede caratteri esemplari, facilmente riconoscibili e dunque specificati attraverso poche e inequivocabili caratteristiche. Per questo Lancillotto rappresenta l'uomo a tutto tondo, capace di grandi meraviglie ma anche di cadere in disgrazia a causa delle passioni, Morgana la decadenza di coloro che si macchiano di hybris tentando di trascendere la condizione umana tramite la conoscenza priva di morale, Parsifal il perfetto eroe cristiano, semplice nei modi ma dotato di spirito di sacrificio infinito e così via. Le critiche ricevute dalla pellicola circa una scarsa attenzione ai personaggi o ai dialoghi risultano alla luce di ciò del tutto infondate, basate su una tipologia di narrazione (quella del romanzo e del cinema classico) che nulla ha in comune con quella del mito e della fiaba, forme di racconto primigenie originate da società dotate di tradizioni prevalentemente orali e dunque bisognose di caratteri facilmente riconoscibili e memorizzabili rispetto a figure complesse.
La totale immersione dell'autore di Zardoz (1973) in un contesto mitico non significa che non vi sia nel film alcun elemento di rilettura del patrimonio rappresentato dall'operato di Malory ma anzi, in quanto artista che si esprime attraverso un'arte prima di tutto visuale come il cinema, Boorman libera da ogni vincolo il proprio estro estetico dando vita a un mondo tanto esotico rispetto al nostro da risultare ben più vicino al sogno che al medioevo nel quale sarebbe vissuto Re Artù. Chiara fonte di ispirazione per la grandiosa messinscena della pellicola è prima di tutto la pittura inglese ottocentesca, dal Romanticismo di Turner fino alla grazia preraffaelita di Dante Gabriel Rossetti (si pensi alla sequenza d'amore tra i boschi che coinvolge Ginevra e Lancillotto), fornendo un ulteriore indizio circa la volontà del regista di affrontare il materiale narrativo di partenza con la fascinazione di chiunque si trovi a viaggiare con la propria immaginazione attraverso luoghi lontani nello spazio e nel tempo ascoltando le straordinarie imprese dei cavalieri di Camelot, esattamente lo stesso approccio che aveva portato i maggiori artisti e intellettuali romantici, inglesi e tedeschi, a innamorarsi della fiaba e di un medioevo più mitico che reale, più arturiano che storicamente accurato.

Se cercate in Excalibur una revisione contemporanea del Ciclo arturiano quasi sicuramente rimarrete delusi, detto francamente, ma se la mitologia e la narrazione mitica, così come la straordinaria capacità del cinema di creare immagini in grado di colpire cuore e cervello senza bisogno della parola, vi affascinano allora ecco cosa può offrirvi questa eccezionale opera fin troppo velocemente accantonata.

domenica 7 ottobre 2018

VENOM: IL CINECOMIC BIFRONTE

Con una certa sorpresa al momento dell'annuncio della partnership tra Sony e Marvel per l'inclusione all'interno dell'universo diegetico degli Avengers del personaggio di Spider-Man, i cui diritti pertengono alla multinazionale d'origine nipponica, è stata resa pubblica anche l'intenzione di produrre degli spin-off legati al mondo di Peter Parker e che il primo di questi sarebbe stato dedicato a Venom, uno dei suoi villain più celebri. Proprio in questi giorni Venom, diretto da Ruben Fleischer, arriva nelle sale di tutto il mondo, forte del rinnovato entusiasmo nei confronti dell'Uomo ragno, sebbene questi non appaia mai nel film, e del carisma della star Tom Hardy, produttore dell'opera e interprete proprio del cattivo divenuto in questo caso protagonista. Al momento il debutto ai botteghini mondiali si sta rivelando estremamente positivo, al contrario delle recensioni anglosassoni che infieriscono oltremodo sulla qualità della sceneggiatura.

Il film, come da manuale della origin story tipica dell'ormai codificato genere del cinecomic, introduce al pubblico la figura di Eddie Brock (Tom Hardy), reporter d'assalto di una emittente televisiva sempre pronto ad attaccare senza peli sulla lingua i poteri forti e a difendere gli indigenti. Proprio in tale ottica disobbedisce alle direttive del proprio datore di lavoro nel momento in cui gli viene chiesto di intervistare in maniera docile Carlton Drake, CEO della multinazionale Life Foundation attraverso la quale conduce esperimenti illegali per poter fondere esseri umani a forme di vita aliene chiamate Simbionti, parassiti in grado di sopravvivere sulla Terra solamente all'interno di un organismo ospite. Il protagonista sfrutta per poter mettere in difficolta l'intervistato alcuni file trovati sul portatile della fidanzata Anne (Michelle Williams), avvocato assegnato dalla propria società in difesa della stessa Life Foundation in merito ad alcune accuse molto pesanti. Il subdolo magnate interrompe bruscamente la chiacchierata con il giornalista e ne distrugge letteralmente ogni velleità di continuare con la propria professione, in contemporanea con la reazione furibonda di Anne che lascia immediatamente il proprio uomo non appena viene licenziata a causa del suo comportamento avventato. Dopo svariati mesi passati a cercare lavoro in perenne stato di ebbrezza Brock viene contattato da una ricercatrice della compagnia che lo ha ridotto sul lastrico. La donna gli racconta delle orribili colpa del suo capo e lo porta con sé nei laboratori della società per permettergli di scattare foto compromettenti. La missione segreta del protagonista gli cambierà per sempre la vita: senza volerlo viene attaccato da uno dei Simbionti che troverà nell'uomo il perfetto ospite con il quale convivere, dando la vita all'inarrestabile Venom.

Chiunque abbia una minima dimestichezza con le avventure a fumetti o le serie animate dedicate a Spider-Man sa come Venom sia uno dei villain più violenti dell'intero universo creato da Stan Lee e complesso da un punto di vista piscologico e morale, rispecchiando in tal senso lo stile del suo ideatore Todd McFarlane e dell'intero settore supereroistico tra gli anni '80 e '90. In virtù di questa ben nota caratterizzazione e anche a causa del successo non del tutto atteso di cinecomics vietati ai minori come Deadpool (Tim Miller, 2016) e Logan (James Mangold, 2017) era lecito aspettarsi un prodotto furente, selvaggio e ai limiti dell'horror e invece il Venom di Fleischer rispecchia a pieno l'identità del proprio autore e la volontà di allinearsi agli standard del MCU, dal quale mantiene una certa indipendenza ma pur sempre nei limiti imponibili a una pellicola ambientata in quel determinato universo diegetico. Il regista di Zombieland (2009) per l'occasione pesca a piene mani dall'intero bagaglio rappresentato dalla propria filmografia integrando sia la sua predilezione nei confronti dell'ironia dissacrante, ai limiti del black humour, che la capacità di mescolare atmosfere e generi, proprio come accadeva nel succitato film d'esordio o nel poco fortunato Gangster Squad (2013). Il lungometraggio in questione si rivela infatti, in maniera piuttosto evidente, una sorta di Giano bifronte nel quale coesistono due anime ben distinte: una prima, maggiormente rilevante durante la prima metà del film, prettamente cupa che trova nella prima sequenza la sua massima espressione in termini di qualità visiva e aderenza a toni action prettamente innestati in una contemporaneità facilmente equiparabile alla nostra mentre l'altra metà dell'opera rispecchia una seconda essenza della stessa ben più disposta a prendersi gioco della serietà messa in mostra precedentemente e nella quale domina su tutto il singolare rapporto di "amicizia" che si instaura tra Eddie e il Simbionte, causa di momenti da commedia d'azione quasi slapstick contaminati però da quell'umorismo nero al quale ho accennato. Con l'avanzare della storia i due poli del film finiscono per confluire diluendo fino a rendere molto labili i confini tra i due, in un percorso che sembra correre parallelamente alle sorti della convivenza sui generis tra uomo e alieno in un solo corpo. Proprio come il personaggio di Tom Hardy arriva nel finale a chiarire, con tanto di primo piano con sguardo in macchina, che da questo momento in poi esiste un "noi" chiamato Venom, composto dall'unione di due losers in cerca di riscatto, il film sembra in quella ultima sequenza raggiungere la piena maturità di una iniziazione che ha permesso a due metà distanti di diventare una squadra e infine formare un unico lungometraggio coeso, capace di unire con consapevolezza gli istinti bestiali dell'una all'ironia sorniona dell'altra.

Venom risulta dunque a tutti gli effetti un caso di Giano bifronte all'interno dell'ormai sempre più esteso panorama dei cinecomics, un prodotto in grado di unire due volti quasi opposti senza risultare indigesto o tedioso per lo spettatore, raggiungendo così l'obiettivo principale di qualsiasi blockbuster e lasciando presagire, anche grazie all'intrigante scena post-credit, un futuro luminoso per i suoi sequel.

venerdì 5 ottobre 2018

TARTARUGHE NINJA - FUORI DALL'OMBRA: RIMEDIAZIONE E NOSTALGIA

Nel corso del 2014 l'innegabilmente esperto di blockbuster Michael Bay ha avuto la felice intuizione di riportare sul grande schermo le avventure in versione live action delle Tartarughe ninja, quattro creature antropomorfe emotivamente equiparabili a normali adolescenti ma con la passione del ninjustu applicata alla difesa di New York. Affidata alla regia del pupillo Jonathan Liebesman la pellicola ha ricevuto critiche molto aspre ma al contempo è riuscita a superare il mezzo miliardo di dollari al botteghino, un risultato che si traduce in un inevitabile sequel, diretto nel 2016 da Dave Green con il titolo Tartarughe Ninja - Fuori dall'ombra (Teenage Mutant Ninja Turtles: Out of Shadows). Il secondo capitolo del riavvio della saga conferma gran parte del cast del predecessore eppure vede ribaltarsi completamente la ricezione ottenuta, dato che le recensioni si rivelano ben più lusinghiere nei suoi riguardi mentre i risultati economici deludono completamente le aspettative, mettendo in serio rischio la produzione di un ulteriore seguito.

Le vicende di questa seconda avventura dei quattro eroi sui generis si svolge due anni dopo la battaglia che aveva visto Leonardo, Raffaello, Michelangelo e Donatello sconfiggere il guerriero giapponese Shredder (Brian Tee) e la sua organizzazione criminale, il Clan del Piede. Il malvagio antagonista torna purtroppo a piede libero grazie all'aiuto dei suoi uomini durante il trasferimento da un carcere all'altro ma nel farlo utilizza un dispositivo di teletrasporto che lo mette in contatto con Krang, una potente entità originaria di una realtà parallela alla nostra che intende allearsi con il pericoloso criminale per conquistare il pianeta Terra. Per facilitare la riuscita del piano l'alieno consegna all'alleato una sostanza in grado di trasformare gli umani in esseri sovrumani dalle sembianze bestiali. Il siero viene testato su due robusti quanto poco intelligenti scagnozzi, Rocksteady (Sheamus) e Bebop, i quali si tramutano in un rinoceronte e in un facocero antropomorfi. Grazie a Shredder Krang riesce ad aprire un portale tra il suo mondo e il nostro, trasportando con sé un'arma capace di estinguere la vita sul pianeta. Gli unici a poter fermare il disastro sono proprio le quattro tartarughe e i loro alleati: le vecchie conoscenze April O'Neil (Megan Fox) e Vern (Will Arnett) insieme alle new entry rappresentate dall'ex poliziotto con la passione per l'hockey Casey Jones (Stephen Amell) e il capo della polizia Rebecca Vincent (Laura Linney).

Solitamente la visione di un sequel risulta subordinata quanto meno alla conoscenza di quanto accaduto nel film precedente, così da poter seguire con la giusta consapevolezza lo sviluppo narrativo dell'opera, e anzi molto spesso i seguiti tendono a confermare gran parte delle scelte formali e poetiche del prequel, specie quando il regista è lo stesso. Non è questo il caso. Tartarughe Ninja - Fuori dall'ombra, complici probabilmente il cambio di regia e le recensioni negative della pellicola diretta da Liebesman, si differenzia in quasi ogni suo elemento dal primo capitolo della saga denotando una certa dose di autonomia da parte di Dave Green. L'autore di Earth to Echo (2014) prende nettamente le distanze dall'utilizzo costante della camera in spalla e dal non del tutto ben amalgamato mix tra umorismo cartoonesco e ricerca di aderenza alla realtà contemporanea del predecessore optando per un recupero quasi filologico delle atmosfere e delle scelte narrative che avevano decretato la fortuna della serie animata cult Tartarughe ninja alla riscossa (David Wise, Patti Howeth, 1987-1996). Chiunque appartenga alla mia generazione o abbia anche qualche anno in più ricorderà con affetto questo prodotto d'animazione molto noto in Italia che aveva sdoganato questi quattro eroi attraverso avventure ricche sì di azione ma soprattutto di senso dello humour, esaltato in particolar modo dalla caratterizzazione spensierata di Michelangelo (la sua passione per la pizza è rimasta impressa a milioni di ragazzi) e degli sgangherati nemici, ben più colorati e simpatici rispetto a quelli visti nelle pagine del fumetto originale di Kevin Eastman e Peter Laird, la cui versione di Shredder è molto più vicina a quella immaginata da Liebesman. Sfruttando anche l'appetibilità commerciale di tutto ciò che ricorda gli anni '80 e '90 Green dirige un lungometraggio meno cupo, ricco di momenti di azione girati con estrema chiarezza, movimenti di macchina fluidi e diniego totale della camera in spalla da documentario di guerra tipica dello stile dell'autore di La furia dei titani (Wrath of the Titans, 2012). L'introduzione di antagonisti ricorrenti della serie animata come Krang e la bislacca coppia Rocksteady-Bebop confermano l'ispirazione precisa nei confronti della stessa ma la vera prova della posizione centrale di essa nella mente del director è rappresentata dal massiccio utilizzo di CGI, personaggi completamente digitali e persino intere sequenze d'azione create attraverso la computer grafica, con tanto di evoluzioni della cinepresa chiaramente ottenute attraverso espedienti digitali. Tale scelta formale determina la definizione di una estetica estremamente assimilabile proprio al mondo dell'animazione, tanto da rendere molto arduo definire il film come un vero e proprio live action. Certamente oggi siamo abituati a tantissimi blockbuster così infarciti di CGI da mettere a dura prova la definizione stessa di live action ma in questo caso gli effetti speciali digitali sembrano proprio voler evitare una semplice ricreazione mimetica del reale per sconfinare invece nell'immaginario dell'animazione e del videogame, due media che hanno ospitato i prodotti più apprezzati legati all'universo di Leonardo e i suoi fratelli.

Tartarughe Ninja - Fuori dall'ombra sicuramente non rivoluziona il cinema action o il panorama mainstream contemporaneo ma neanche ci prova, anzi la sua natura scanzonata di chiara ispirazione al modello della serie animata citata lo rende un prodotto genuinamente divertente e in grado di intrattenere lasciando un ricordo piacevole dopo la visione. Un risultato non così scontato.

martedì 2 ottobre 2018

ASSASSIN'S CREED: VIOLENZA E CONVERGENZA NEL BLOCKBUSTER D'AUTORE DI KURZEL

Ormai persino i muri conoscono il mito della presunta impossibilità di trarre bei film da videogiochi di successo. La vulgata ricorda continuamente, a proposito di tale argomento, esempi negativi di trasposizioni dal medium videoludico come l'ormai famigerato Super Mario Bros. (Rocky Morton, Annabel Jankel) o le tante pellicole dirette da Uwe Boll eppure basterebbe una piccola dose di elasticità mentale e minimi studi sui rapporti tra i mezzi audiovisivi nel contemporaneo per rendersi conto di quanto il linguaggio cinematografico sia oggi debitore dei videogame (Inception, regia di Cristopher Nolan del 2010, docet) così come vi sia una minoranza di lungometraggi di notevole fattura, tra i quali spiccano Silent Hill (2006) di Christophe Gans e Warcraft (2016) di Duncan Jones. Proprio nel medesimo anno in cui il figlio di David Bowie realizza la sua terza opera un altro regista dotato di estetica e poetica proprie, oltre che più avvezzo al cinema da festival, quale Justin Kurzel dirige il suo primo blockbuster attingendo all'immenso bacino di suggestioni narrative e visuali della vasta saga di Assassin's Creed, prodotta da Ubisoft a partire dal 2007. A differenza del suo collega inglese, Kurzel per il suo Assassin's Creed opta per una storia originale solo ispirata alla mitologia originale, attirandosi in questo modo fin da subito le prime ire dell'enorme fanbase dei videogiochi. Alla sua uscita nelle sale la pellicola, vittima di evidenti pregiudizi sia da parte della critica per un beh testimoniato pregiudizio verso le trasposizioni videoludiche che da parte degli appassionati oltranzisti, si rivela un successo modesto al botteghino ma un vero e proprio fallimento in sede di recensione.

La volutamente esile narrazione del film concentra la propria lente su Callum Lynch (Michael Fassbender), condannato alla pena di morte per omicidio dopo aver vissuto una vita da sbandato, ricca di piccoli crimini e segnata indelebilmente dall'odio verso suo padre, colpevole di aver ucciso la madre davanti ai suoi occhi. A sua insaputa l'uomo non viene ucciso dall'iniezione letale comminatagli dalla legge, bensì si risveglia in una struttura segreta della multinazionale Abstergo, dove viene affidato alle cure della dottoressa Sofia Rikkin (Marion Cotillard). La ricercatrice e figlia del CEO della società Alan Rikkin (Jeremy Irons) è la responsabile del progetto legato all'utilizzo di una macchina avveniristica chiamata Animus in grado di trasportare colui che la utilizza all'interno dei suoi ricordi genetici, ossia di fargli rivivere episodi realmente esperiti dagli antenati di tale persona. L'Abstergo si serve di tale strumento per poter rintracciare la Mela dell'Eden, l'artefatto risalente alla notte dei tempi narrata dall'Antico Testamento e che pare contenga al suo interno il codice genetico responsabile del libero arbitrio. Questo mitico oggetto interessa così tanto alla società di Rikkin perché in realtà essa non è altro che una delle tante espressioni della secolare setta dei Templari, un gruppo di uomini di potere che nel corso della storia tenta di sopprimere la libertà per instaurare un unico regime pacifico da loro dominato. A rovinare i loro piani fin dagli albori della civiltà si pone la Confraternita degli Assassini, un ordine legato a un rigido credo e che agendo nell'ombra combatte ogni regime che offuschi l'espressione libera dell'umanità. Callum discende da una longeva stirpe di Assassini e viene scelto come cavia da Sofia perché un suo antenato vissuto nella Spagna rinascimentale, Aguilar de Nerha, è noto per essere stato l'ultimo uomo ad aver posseduto la Mela dell'Eden.

Da appassionato della serie videoludica mi preme sottolineare fin da subito che per quanto concerne la mitologia di quest'ultima Assassin's Creed si ispira solamente a parte di essa e che fin da subito mette in secondo piano lo sviluppo di quella narrazione improntata a una personalissima mescolanza di avventura in stile Indiana Jones con retroscena di fantapolitica intrisi di riferimenti alla archeologia misteriosa e alla teoria degli antichi astronauti. Il film in questione recupera alcuni elementi cardine dei videogame come la guerra secolare tra Templari e Assassini, le loro differenti convinzioni etiche e filosofiche, il ricorso all'Animus, la natura trascendente della Mela e tantissimi altri particolari piccoli o grandi che qualunque fan può cogliere facilmente (dal celebre motto della Confraternita fino a easter eggs legati alle armi presenti nelle bacheche della Abstergo) ma Kurzel mette in chiaro fin dall'incpit che ciò che lo affascina di questo universo risiede in ben altri aspetti. Alla stregua di quanto dimostrato nel precedente Macbeth (2015), il regista australiano concentra ancora una volta il suo singolare sguardo su due poli principali: il tema della violenza insita nell'animo umano e la messinscena. Per quanto concerne il primo aspetto, indissolubilmente legato ovviamente alla sfera poetica della filmografia di questo autore, appare evidente come le licenze poetiche prese rispetto all'opera videoludica derivino proprio dalla scelta di approfondire una tematica già presente nella saga ma che solo nella mente del cineasta diventa centrale. Per quanto dissimili per metodi e scopi sia i Templari che gli Assassini ricorrono a una violenza incessante, illimitata, incurante di vincoli emotivi o familiari e per questo sconvolgenti per chiunque non si trovi ad accettare la visione fondamentalista che gli adepti hanno sia del primo gruppo che dell'altro. Callum, esattamente come Ezio Auditore e Desmond Miles nei videogame, è consapevole di utilizzare metodi efferati esattamente quanto quelli del nemico e sa di essere lui stesso un uomo profondamente violento, segnato fin dall'infanzia dalla violenza e per questo inorridito inizialmente dalla Confraternita, colpevole con i suoi precetti della morte della madre esattamente quanto la mano del carnefice, il suo stesso padre. Mi sembra evidente come in questo legame viscerale tra l'aggressività bestiale insita nell'uomo e la distruzione della vita del protagonista dovuta a traumi dell'infanzia vi siano forti echi shakespeariani oltre che richiama alla tragedia attica classica ma tali riferimenti culturali vengono rielaborati dall'occhio contemporaneo di Kurzel, la cui visione appunto bestiale, anarchica e istintiva dell'essere umano viene dunque a convergere con la sua interpretazione del credo degli Assassini, baluardi dell'individualismo dell'uomo con i suoi lati migliori e anche quelli peggiori contro l'utopia o distopia di un mondo ordinato e privo di bellicosità grazie al dominio dell'oligarchia costituita dai Templari. Utilizzando un lessico caro a Nietzsche potremmo definire Callum e i suoi come degni rappresentanti di una visione dionisiaca dell'esistenza che affascina l'autore australiano, mentre i Rikkin, l'Abstergo e i Templari definiscono una Weltanschauung di matrice apollinea, composta, probabilmente pacifica ma priva delle passioni e della libertà insite nella natura ferina dell'uomo.

La dionisiaca idea del mondo di Kurzel viene confermata e anzi esplode in tutta la sua forza vitale dalla libertà con cui questi lascia in disparte la coerenza, l'approfondimento e la credibilità del racconto in favore di una messinscena estremamente estetizzante e personale. Date le ambizioni di una produzione con budget da 125 milioni di dollari quasi ogni director avrebbe optato per uno stile coerente con le ultime tendenze dei blockbuster di maggiore successo commerciale e quindi un certo allineamento verso i canoni piuttosto standardizzati dei cinecomics Marvel o più in generale dell'universo Disney e invece per il suo esordio in questo mondo dorato l'autore di Snowtown (2011) segue la scia dell'estetica barocca di Macbeth ibridandola con sequenza d'azione ricche di ralenti e inquadrature identiche a quelle dei videogiochi, piani sequenza digitali che seguono il volo dell'aquila simbolo degli Assassini e una netta separazione cromatica tra le scene ambientate nel presente e quelle nell'Animus. La stessa macchina a suo modo protagonista di questo mondo fantascientifico nella mente del regista si trasforma fisicamente e simbolicamente dal letto visto nella saga videoludica a una sorta di macchina di realtà virtuale. Questa modifica che potrebbe banalmente essere attribuita a una carente conoscenza delle opere d'origine (tutto il film dimostra quanto invece Kurzel abbia studiato il materiale originale) trova invece una sua ragion d'essere nel cambio di riferimento metaforico che l'Animus assume: nelle avventure su console e pc questo strumento richiama in maniera evidente alla dimensione del sogno, al confine labile che esiste tra esso e la realtà mentre invece nel film il suo funzionamento somiglia molto di più a quello delle attuali tecnologie di realtà virtuale e dunque in questo mondo il cineasta sembra suggerire come una chiave di lettura ipertestuale e convergente dell'opera in essere sia fondamentale in quanto i ricordi genetici di Callum finiscono per diventare come un videogioco contenuto in un film tratto da una serie videoludica. Una costruzione a scatole cinesi che descrive perfettamente l'importanza della convergenza tra i vari media audiovisivi nel cinema contemporaneo e allo stesso tempo spiega le particolari scelte estetiche della pellicola, compresa l'insistenza nel riproporre nelle sequenze ambientante nel 1492 inquadrature, stile di combattimento, parkour e persino effetti sonori identici a quelli del videogame.
Non male per un prodotto spazzatura tratto da quei stupidi giochi elettronici no?