giovedì 7 luglio 2022

MISSION: IMPOSSIBLE 2: WOO TRA BLOCKBUSTER D'AUTORE E MITOPOIESI CLASSICA

Nel corso dell'articolo dedicato a Mission: Impossible - Fallout (Christoper McQuarrie, 2019) avevo sottolineato come il regista avesse impresso una svolta fortemente serializzata al franchise, legando in maniera inscindibile narrazione e stile dei capitoli da lui firmati in maniera non dissimile da quanto accade con il Marvel Cinematic Universe. Una vera rivoluzione se si torna alle origini della saga, in particolare ai primi tre capitoli, tutti diretti da artisti diversi come veri e propri standalone sequel a là 007 senza rinunciare minimamente alla propria individualità. Tra questi spicca il primo sequel, Mission: Impossible 2, diretto nel 2000 da John Woo, reduce dal suo primo successo negli States con il capolavoro Face/Off (1997). Un incredibile successo commerciale, tanto da divenire il miglior incasso dell'anno al box office mondiale, ma con una folta schiera di detrattori, specie tra i recensori dell'epoca.

Come accennato nel finale del predecessore (Mission: Impossible, Brian De Palma, 1996) Ethan Hunt (Tom Cruise) torna a lavorare per l'IMF, questa volta con il compito di recuperare una pericolosissima arma biologica nota come Chimera, rubata dal suo ex collega Sean Ambrose (Dougray Scott) nel corso di un dirottamento aereo. L'unico modo per poter avvicinare l'uomo è quello di sfruttare il suo punto debole, l'amore per la ladra professionista Nyah (Thandiwe Newton). Durante il reclutamento però quest'ultima e il protagonista finiscono per innamorarsi, aumentando a dismisura il coinvolgimento emotivo della missione.

Come accennato in precedenza Mission: Impossible 2 si limita a riproporre solamente alcuni dei cardini narrativi del primo capitolo, con un unico personaggio a tornare in azione oltre all'eroe (Luther, interpretato ancora una volta da Ving Rhames), proprio alla stregua di quanto occorso per decenni con le imprese di James Bond. La discontinuità è dunque la parola chiave per questo sequel, dove la riconoscibilissima mano di De Palma viene sostituita dall'altrettanto unica firma di John Woo, alla quale si adatta perfettamente la sceneggiatura del veterano Robert Towne. L'evidente tributo nei confronti di Notorious (Alfred Hitchcock, 1946) oltre a confermare l'amore del cineasta asiatico verso il maestro del brivido già esplorato in Once a Thief (John Woo, 1991) rivela quanto al centro del racconto vi sia soprattutto la love story tra i due protagonisti, nel pieno rispetto della propensione del regista a nascondere tra le maglie di tutti i suoi action più celebri una vena melò fondamentale per comprendere la sua visione della settima arte. Paradigmatico in tal senso non è soltanto la lunga sequenza di corteggiamento automobilistica tra i due amanti, in cui la instancabile cinepresa dell'autore di Hard Boiled (John Woo, 1992) trasforma un pirotecnico inseguimento ad altissima velocità in una danza paragonabile a un tango, ma soprattutto la puntualità nel far sì che ogni singolo momento di reale suspense sia legata alla compromissione tra dovere e interessi personali, ragione e sentimento, come nella magistrale scena all'ippodromo e il suo efficace ricorso sistematico al montaggio alternato. Sebbene al triangolo amoroso manchi la beffarda introspezione riservata al villain vista nel classico hitchcockiano, Woo riesce a limare la manichea contrapposizione tra il buono Ethan e il perfido Sean mettendo in risalto tutto ciò che invece li accomuna. Le straordinarie capacità dei due, l'appartenenza per molti anni alla medesima agenzia governativa e, soprattutto, i continui scambi d'identità resi possibili dalle maschere già utilizzate da De Palma riportano alla mente il tema del doppio e del conflitto interiore stevensoniano di Face/Off, sfumando così confini altrimenti piuttosto netti in sede di sceneggiatura.

Come mai resta comunque, al netto della dialettica Hunt/Ambrose, una contrapposizione così decisa tra bene e male? La ragione risiede nel comune amore di screenwriter e director per la mitopoiesi classica e dunque per il fortissimo senso morale che permea il lungometraggio. La scelta di mettere al centro dell'intrigo internazionale virus e relativo antidoto dai nomi riecheggianti la mitologia greca non resta al livello di semplice strizzatina d'occhio, bensì evidenzia da subito come la narratologia più pura e arcaica sia il modello perseguito. A seguito di tale dichiarazione d'intenti Tom Cruise, simbolo a sua volta dell'eroismo contemporaneo rappresentato dal divismo hollywoodiano, assume i panni del semidio Bellerofonte, mentre la sua nemesi quelli del mostro Chimera, destinati, come puntualmente accade nel finale, a uno scontro in singolar tenzone, in pieno stile omerico, per decidere chi avrà la meglio tra la luce e le tenebre, tra giustizia e vigliacco egoismo. Ethan, plasmato dall'occhio di Woo, incorpora una caratterizzazione non così distante dai precedenti protagonisti della filmografia del creatore dell'heroic bloodshed: per la prima volta lo si vede ricorrere senza troppi problemi alle armi da fuoco e, soprattutto nel corso dello shootout a Sydney, imbraccia la coppia di pistole rese iconiche da Chow Yun-fat, affronta in pieno volto lo schieramento nemico come un fiero guerriero da wuxia dando il via a una danza ritmata da una tempesta di pallottole al ralenti.

Accusato al momento della distribuzione di puro calligrafismo a discapito di qualsivoglia sostanza, Mission: Impossible 2 rappresenta a mio avviso un capitolo essenziale nell'opera di uno dei più grandi autori del genere, in cui peraltro per la prima volta dona anche a un personaggio femminile la stessa gravitas eroica solitamente riservata in passato agli uomini, confermando ulteriormente l'ispirazione ai modelli greci. Se a questo si aggiunge la pressoché totale o quasi scomparsa dal panorama attuale di film ad alto budget girati con una tale personalità non vi resta che riscoprire questa perla inaugurale del terzo millennio.