lunedì 30 gennaio 2017

...E ORA PARLIAMO DI KEVIN: L'OSCURO AMORE TRA UNA MADRE E UN FIGLIO

Per il suo terzo lungometraggio l'acclamata regista inglese Lynne Ramsay sceglie di adattare per lo schermo un romanzo quanto meno controverso, We Need to Talk About Kevin di Lionel Shriver, dandogli lo stesso titolo (in italiano il meno incisivo ...E ora parliamo di Kevin) e presentandolo all'edizione del 2011 del Festival di Cannes. Nonostante il poco successo a livello commerciale la pellicola ha ricevuto il plauso della critica, soprattutto all'indirizzo delle interpretazioni dei due attori principali Tilda Swinton ed Ezra Miller, tanto da portare l'attrice statunitense a vincere numerosi premi e a essere candidata ai Golden Globe.

Protagonista assoluta del film è Eva (Tilda Swinton), una donna completamente distrutta che vive in una piccola casa fatiscente e che a stento riesce a trovare un piccolo impiego in un'agenzia di viaggi. Attraverso i continui salti temporali dettati dai ricordi della donna lo spettatore scopre che a distruggerne l'esistenza è stata la nascita del suo primogenito, Kevin (Ezra Miller), che fin da subito si mostra ostile alla madre e allo stesso tempo amorevole con il padre (John C. Reilly) bonaccione ma poco attento a ciò che gli accade intorno. Il rapporto non migliora neanche con la nascita della dolce sorellina Celia, anzi la nuova arrivata diviene un altro bersaglio delle crudeltà del ragazzo, il quale poco prima del suo sedicesimo compleanno compie una strage nel suo liceo (e non solo).

Fin dall'incipit We Need to Talk About Kevin si dimostra un'opera estremamente attenta al lato formale ed estremamente diversa dalle molte produzioni che hanno provato a portare al cinema tematiche tanto delicate. La scelta di una narrazione in cui presente e passato si alternano continuamente, in stile Nolan, rende subito chiaro allo spettatore più accorto che tutta la vicenda è vissuta dal punto di vista soggettivo della protagonista in una sorta di autoanalisi, un tentativo di carpire il senso di ciò che le è accaduto e soprattutto scoprire se la colpa non sia in realtà sua.
Una volta acclarato il punto di vista del narrato non può non risultare estremamente interessante e coraggiosa la caratterizzazione di Kevin: fin da bambino il co-protagonista (o antagonista) presenta caratteri mefistofelici degni del Damien di The Omen (Richard Donner, 1976), è assolutamente consapevole della sofferenza che infligge alla madre e lo è ancor di più quando si trasforma nel bambino perfetto non appena appare il padre. Molti recensori hanno trovato in questi elementi horror uno dei passi falsi commessi da Lynne Ramsay, accusata di aver reso il ragazzo poco credibile nella sua crudeltà esasperata, mentre a mio avviso risulta un'intuizione ben giustificata dalla fine ricostruzione del dolore di Eva che oltretutto sovverte le ormai stantie logiche che vedono separati come da un muro invalicabile quelle odiose categorie di cinema autoriale e di genere. A rendere ancor più indovinata la scelta della cineasta inglese è l'interpretazione del giovane Miller, il quale dona al Kevin adolescente uno sguardo finemente glaciale che non può non richiamare l'Hannibal Lecter interpretato da Anthony Hopkins, anche se in questo caso l'immedesimazione verso la figura malvagia è ben più complicata.

Vero centro della pellicola, al di là del titolo, resta sempre Eva, della quale lo spettatore riesce carpire la trasformazione provocatale dalla maternità che si conclude con una vera e propria implosione emotiva in seguito alla strage. La donna prima di restare incinta era estremamente passionale, innamorata follemente del marito, amante dei viaggi e soddisfatta del successo in ambito lavorativo. Una volta subentrato il figlio, già al momento della gravidanza inizia a mostrare insofferenza (la sequenza insieme in piscina con le altre donne in dolce attesa lo testimonia), sente il nuovo arrivato come una minaccia alla propria individualità e quindi tutta questa negatività sembra riversarsi proprio sul figlio, il quale conosce come amore materno il disprezzo. Ciò che traspare dai ricordi della protagonista è proprio il fatto che, sebbene ci siano stati vari episodi estremamente traumatici come quando spezza il braccio al bambino, il rapporto tra i due sia nato già malato e che quindi il dolore estremo che prova nel presente è dovuto soprattutto alla quasi certezza di essere colpevole esattamente quanto Kevin. Perché allora si ostina ad andare a trovarlo in galera e addirittura ad abbracciarlo? La risposta è la più semplice che possiate immaginare: perché lo ama. Certo l'amore tra il personaggio interpretato alla Swinton e il figlio non è esattamente idilliaco, non si mostra attraverso la dolcezza eppure è così potente da spingere i due in una spirale di male che sacrifica tutto e tutti fino a renderli praticamente identici nel loro vuoto esistenziale, esemplificato dall'asettico arredamento della stanza di Kevin e della nuova casa della madre.

Come accennato in precedenza il lato formale del lungometraggio merita una notevole attenzione, vista la cura eccezionale per le inquadrature, le scelte cromatiche, in cui domina incontrastato il rosso, il tappeto sonoro, che richiama continuamente la strage incombente proprio come il rosso, e il raffinato montaggio. La colonna musica realizzata dal chitarrista dei Radiohead Jonny Greenwood rende palpabile lo struggente mondo in cui è ambientata la pellicola, così come le canzoni sempre piuttosto allegre creano un inquietante contrasto con ciò che si vede. A mio avviso basterebbero i flashback sulla storia d'amore tra Eva e il marito e il contrasto che crea accostarli alle sequenze più inquietanti aventi protagonista Kevin a ripagare della visione.
In conclusione ...e ora parliamo di Kevin è un'esperienza di una potenza sia estetica che emotiva difficilmente dimenticabile, capace di far riflettere ma soprattutto di smuovere l'animo, proprio ciò che il cinema deve fare in tempi tanto disumanizzati come quelli in cui viviamo.

venerdì 27 gennaio 2017

THE VISIT: IL MOCKUMENTARY D'AUTORE

In un mondo fatto di superomismo a tutti i costi come quello hollywoodiano sembra che non ci sia spazio per una delle caratteristiche che maggiormente distingue l'essere umano, ossia la sua tendenza a sbagliare in buona fede, la sua imperfezione e le sue numerose cadute nel percorso della vita. Nel rigido sistema del divismo americano al primo passo falso chiunque, persino il più grande rischia di tornare la nullità di partenza, il tutto in molti casi grazie al contributo del grande pubblico, il quale proprio come gli addetti ai lavori non sembra apprezzare la vera umanità nei propri idoli. Probabilmente per ragioni che niente hanno a che fare con l'arte io ho invece trovato sempre affascinanti quelle figure che, pur nella loro grandezza, mostrano quel volto umano caratterizzato dalla possibilità del fallimento e che troppo spesso finiscono in angolo dal quale è molto complicato uscire. Eppure vi sono anche coloro che quest'angolo dell'incomprensione, della negatività riescono ad abbandonarlo, dimostrando che il mito, tanto caro al cinema americano, dell'eroe che torna in piedi dopo innumerevoli tonfi e uno di questi è sicuramente M. Night Shyamalan. Il cineasta di origine indiana ha attraversato una parabola cinematografica quasi incredibile se non fosse vera, visto che tra la fine degli anni 90 e i primi anni del terzo millennio, ancora giovanissimo, si affermò come una delle più grandi promesse del cinema mondiale grazie al successo di The Sixth Sense (1999) e Signs (2002) mentre in seguito all'incompreso The Village (2004) ha inanellato un flop dietro l'altro fino al kolossal fantascientifico After Earth (2013). A questo punto vi starete chiedendo il motivo di questa filippica sull'autore anziché parlare subito del film da analizzare. Tralasciando la normale importanza che il contesto ha in dote in ogni opera d'arte mai come in questo caso i precedenti del regista risultano decisivi, dal momento che The Visit (2015), il film che ho deciso di analizzare, rappresenta una vera e propria rinascita per Shyamalan al cinema, in seguito al primo vagito di positività rappresentato dal serial televisivo Wayward Pines (2015), un nuovo capitolo zero che segna una cesura netta con il precedente kolossal fantascientifico e il suo milionario budget buttato al vento che ha conquistato sia la critica che, soprattutto, il pubblico.

Protagonisti della pellicola sono due ragazzi, la quindicenne Rebecca e il fratello tredicenne Tyler, i quali si apprestano a incontrare per la prima volta i nonni materni passando una settimana a casa loro. L'eccezionalità dell'evento, dovuta al fatto che loro madre era fuggita di casa subito dopo aver finito il liceo per stare insieme al padre dei due, fa sì che la più grande dei due decida di girare un documentario a testimoniarlo, anche se in realtà il suo reale scopo sembra essere quello di far riconciliare la famiglia. Al momento dell'arrivo gli anziani sembrano persone molto dolci, nonostante evidenti problemi legati all'età avanzata, eppure man mano che passa il tempo mostrano stranezze che diventano sempre più inquietanti.

Avrete già capito dalla breve sinossi quanto The Visit sia lontano dalla dimensione sci-fi di After Earth e il fatto che io non abbia citato nessun divo al suo interno ne testimonia anche le differenze produttive, dato che il film in questione è stato finanziato dalla Blumhouse di Jason Blume, reso famoso dai suoi horror a basso costo, spesso girati come mockumentary ma capaci di incassare centinaia di milioni di dollari. Proprio alla politica del falso documentario tipica di molte produzioni del nuovo re Mida dell'horror si adatta Shyamalan, cosa che gli permette di sfruttare da un punto di vista commerciale una tendenza ancora piuttosto forte e al contempo, dal lato artistico, di creare un'opera compatta, diretta, scevra dagli obblighi contrattuali dettati dai budget da Blockbuster e coerente con la propria poetica. Certamente molti lungometraggi che recentemente hanno scelto lo stesso espediente estetico-narrativo si sono rivelati mediocri,se non inguardabili, ma nelle mani del cineasta americano si rivela un mezzo estremamente efficace e i motivi sono molteplici. Il primo e più evidente è la qualità delle inquadrature e dei movimenti di macchina, mai tendenti a sballottamenti da mal di mare tipici di molti falsi documentari, che si rivelano perfettamente in linea con le abilità di chi la utilizza nella diegesi dando quindi un effetto ben più realistico e una dimensione metacinematografica di notevole fascino (un tema caro al regista): Rebecca con la sua camera digitale diventa un doppio di Shyamalan mentre il fratello con la fotocamera digitale agisce da seconda unità e le riprese vengono persino montate davanti allo spettatore attraverso un semplice pc portatile, proprio come farebbero dei ragazzi alle prime armi al giorno d'oggi, con tanto di discussioni tecniche sullo zoom o altri espedienti tecnici. Anche la creazione del clima di tensione e i momenti da sobbalzo sulla sedia acquistano ben altro valore, anzi l'autore si diverte a giocare proprio con le aspettative create nel pubblico dai tantissimi precedenti del genere, alle volte rallentando la comparsa dell'elemento conturbante mentre in altri momenti addirittura si permette di inserire momenti di pura comicità; una scelta audace resa totalmente azzeccata grazie a una elevata sensibilità drammaturgica e alla bravura degli attori, ottimi sia nel caso dei due ragazzi che della coppia di anziani.

A rendere infine la pellicola in tutto e per tutto made in Shyamalan è l'evidente dimensione fiabesca delle vicende narrate, data dalle continui citazioni di Hansel e Gretel, dal percorso di superamento dei proprio demoni da parte dei giovani protagonisti e dal perturbante che si insinua nel contesto familiare, unita al twist narrativo verso la fine della pellicola; i due veri e propri marchi di fabbrica del proprio autore che dopo tanti anni tornano a funzionare a dovere.
In conclusione The Visit incarna tutto ciò che il talento del proprio director aveva mostrato nei momenti migliori della sua carriera in una dimensione più contenuta, più umile ma impreziosita dallo stesso coraggio nel sovvertire le barriere di genere e nel sorprendere lo spettatore. In fondo i ritorni insperati sono quelli che colpiscono maggiormente il cuore.

lunedì 23 gennaio 2017

CRASH: SCONTRARSI E SCOPRIRE DI ESSERE ANCORA UMANI

Oggi, nel pieno di quel web 2.0 che ha portato la democrazia nell'informazione, o almeno avrebbe dovuto, ma che ha anche permesso la circolazione mondiale incontrollata di disinformazione, per non dire vere e proprie idiozie, risulta molto facile determinare il pensiero diffuso, dare vita a mode o luoghi comuni che francamente fino a pochi anni fa sarebbero risultati talmente ridicoli da oltrepassare il grottesco. In questo groviglio di catene di Sant'Antonio del pensiero finiscono sempre più spesso prodotti artistici come film, serial televisivi o videogiochi che finiscono per essere osannati per oscuri motivi dettati dal sentito dire o allo stesso modo vengono denigrati, con tanto di campagne all'insegna dell'insulto gratuito da vero bullismo virtuale.

Una vittima illustre di tale situazione si è suo malgrado ritrovata a essere persino una pellicola come Crash, scritta e diretta da Paul Haggis nel 2004, vincitrice di prestigiosi premi in tutto il mondo, tra cui tre Academy Awards (compresi miglior film e miglior sceneggiatura originale) e considerata all'uscita una delle migliori dell'anno da moltissimi autorevoli critici. Lungi da me considerare verbo divino l'opinione delle riviste di settore (come dimostra questo blog ho spesso trovato interessanti film stroncati senza pietà dalle recensioni) ritengo però che la recente rivalutazione, o meglio svalutazione, diffusasi in rete verso il lungometraggio in questione ridicola per la sua mancanza di riferimenti concreti al profilmico e per la puntuale omologazione delle pseudo critiche attribuitegli. Badate bene, niente è perfetto a questo mondo e probabilmente molti di voi alla fine potrebbero anche trovarsi in completo disaccordo con me ma almeno createvi una vostra idea, scevra dalle campagne di sensazionalismo tipiche della parte peggiore dei social network.
Crash si presenta da un punto di vista narrativo come una composizione corale, simile ai lavori di Altman o a Magnolia (Paul Thomas Anderson, 1999), uno spaccato di vita di varie persone comuni. tutte residenti a Los Angeles e i cui destini finiscono per incrociarsi nel giro di circa trentasei ore: un poliziotto bigotto e amareggiato dalla vita (un Matt Dillon strepitoso), il suo partner giovane e ancora convinto dei propri ideali (Ryan Phillippe), un detective di colore (Don Cheadle) diviso tra un'ostentata freddezza e l'amore amore incondizionato per la madre, due ragazzi afroamericani che vivono di furti, il procuratore distrettuale (Brendan Fraser) e sua moglie (Sandra Bullock), un regista televisivo ancora tormentato dal colore della propria pelle, un fabbro ispanico (Michael Peña) ecc.

Come avrete capito sono molti e provenienti dai più disparati contesti etnici ed economici i personaggi utilizzati dal regista come sineddoche di una umanità sconvolta dai postumi dell'attentato alle Twin Towers, preda di un atteggiamento verso il prossimo che va ben oltre il razzismo che ha sempre imperversato gli Stati Uniti, una sorta di armatura indossata per reagire alla diffusa paura che chiunque possa essere un terrorista pronto a fare del male. Trovo molto superficiale definire il film come una racconto morale e moralista sul razzismo, un tema che certamente viene affrontato ma che rappresenta anche soltanto una delle innumerevoli facce con le quali si presenta quella condizione che ho appena descritto; insomma la xenofobia risulta una delle varie tipologie di diffidenze sfocianti nell'odio che caratterizzano il bastone che fa da sostegno unico a esseri umani alienati da una metropoli che è un vero e proprio non-luogo, così come lo è l'occidente scosso dal terrorismo. Come affermato dal detective Waters nella sequenza iniziale il contatto fisico diventa l'unico antidoto a questo male diffuso, l'unica prova concreta di quell'essenza umana che sembrava perduta e che invece risulta ancora vibrante, nonostante venga quotidianamente sommersa dalla melma dell'odio. Scontrarsi (crash in inglese) per sentire finalmente di non essere delle isole nemiche.

Haggis riesce nel compito per niente facile di tessere una ragnatela di esistenze singole, ognuna presa dalle proprie angosce e da tutta una serie di compromessi dettati dalla sopravvivenza, che finiscono per toccarsi, senza mai rendere eccessivamente tortuosa la sceneggiatura, aiutata da un uso eccelso del montaggio alternato e dei salti temporali, come nel flashforward della sequenza iniziale. Nonostante la poca esperienza con la macchina da presa la regia si dimostra efficace e sicura nel mescolare la tecnica classica a quella moderna, esattamente come in fase di sceneggiatura, concedendo allo spettatore anche inquadrature di grande bellezza estetica, come ad esempio la carrellata finale ad allargare il punto di vista sulla città degli angeli. Memorabili infine risultano le interpretazioni del cast, ognuno dei protagonisti riesce a trasmettere l'umanità estremamente sfaccettata di cui sono portatori senza mai risultare delle semplici maschere, anche se a mio parere svettano leggermente sugli altri Dillon e Cheadle con i loro ritratti di uomini accomunati dalla durezza mostrata in superficie a discapito della vera forza che mostrano nel privato, che li vede entrambi occuparsi senza alcun riconoscimento di genitori distrutti dalla vita.

In conclusione Crash si dimostra un'esperienza filmica che colpisce duro, non lascia indifferenti né alla vista né al cuore con la sua potenza formale ed emotiva ma soprattutto fa tutto questo permettendo allo spettatore di riflettere con ottimi spunti sulla condizione umana attuale, tanto da poter essere definito una delle pellicole che maggiormente rispecchia il cinema contemporaneo nato dal fantasma dell'11 settembre 2001.

domenica 22 gennaio 2017

BITTERSWEET LIFE: UN ATTIMO, UN SOGNO DI PERFEZIONE

Nel pieno di quel periodo compreso tra i primi anni del terzo millennio che ha visto un improvviso quanto, purtroppo, fugace invaghimento dell'occidente nei confronti del cinema sudcoreano (si pensi all'esplosione a Cannes del fenomeno Park Chan-wook) Kim Jee-woon (Two Sisters, 2003; Il buono, il matto, il cattivo, 2008) presenta fuori concorso proprio all'edizione del 2005 del festival francese Bittersweet Life. La pellicola, che conferma la volontà del suo autore di esplorare e dare una propria rilettura ai maggiori generi cinematografici occidentali, ottiene immediatamente il plauso della critica europea e americana e segna l'esplosione definita dell'amore nei suoi confronti da parte dei cinefili appassionati di cinema asiatico, infatuazione sbocciata già con la precedente incursione nell'horror psicologico.

La trama della pellicola appare, almeno fino al poetico finale, piuttosto pretestuosa, quasi una voluta esibizione dei luoghi comuni tipici del genere noir: Sun-woo (Lee Byung-hun in un ruolo che sembra essergli stato cucito addosso) lavora ufficialmente come manager di un elegante hotel ma al tempo stesso lavora a stretto contatto con un boss della malavita. Questi gli affida un lavoro alquanto bizzarro, ossia sorvegliare, accompagnare in giro per tre giorni la giovane di cui il gangster si è innamorato e nel caso scoprisse che la ragazza lo tradisse sistemare il problema da vero scagnozzo. Il protagonista, un uomo che fin dalla prima sequenza si mostra freddo e implacabile, nei pochi momenti in cui resta accanto a He-soo (Shin Min-a) comincia a mostrare un lato emozionale finora rimasto nascosto, al punto da decidere di non uccidere la donna del boss nel momento in cui scopre la sua relazione con un coetaneo. Questa apertura alla propria umanità porterà a conseguenze fatali per l'uomo.

Da tale breve sinossi appare chiaro come Bittersweet Life giochi con i topoi del noir visto che non ne rifugge neanche uno, dalla "femme fatale" che segna il destino tragico del protagonista agli immancabili ambienti mafiosi che sembrano determinare la vita intera della città, rappresentata nei suoi aspetti più oscuri e malfamati. Cosa rende allora la pellicola una gemma pregiata capace di distinguersi dai suoi predecessori? Sicuramente la risposta più immediata e inoppugnabile è l'aspetto formale. La regia dell'autore di I Saw the Devil (2010) mette in mostra un talento visivo impressionante, una ricchezza di movimenti e angolature della mdp che rendono ogni inquadratura una lezione di cinema, al punto da raggiungere una perfezione estetica che rende ancora più potente il potere significante della sequenza finale accennata in precedenza.

Le scelta di espandere a dismisura il lato visivo del lungometraggio lasciando invece nel territorio del repertorio la narrativa trova proprio il suo senso nella suddetta conclusione, la quale svela definitivamente il carattere onirico di tutto ciò che l'ha preceduta (cosa già anticipata, anche se in maniera oscura, dalla voce over nell'incipit), un lungo sogno in cui Sun-woo ha fatto esperienza di cosa si prova a vivere come un vero essere umano, a soffrire realmente e persino a essere felice per alcuni brevi attimi. Proprio i fragili frammenti di felicità vissuti dall'uomo nello stare accanto a He-soo diventano un sogno nel sogno (perdonate la mia interpretazione nolaniana) il cui effetto devastante su un'intera esistenza viene sintetizzato nella struggente penultima sequenza e, soprattutto, nel secondo intervento della voce over a proposito del sogno dell'allievo.

In definitiva a mio parere la pellicola diretta da Kim Jee-woon risulta ben più della visione estetizzante del noir da parte del suo autore, come molti critici hanno affermato, e gli indizi a sostegno della mia interpretazione sono molti, a partire dai monologhi sul maestro e sul suo allievo, passando per le numerose inquadrature di specchi o altre superfici riflettenti (evidenti simboli di differenti piani del reale) e per finire con l'emblematica sequenza di chiusura.
Fatemi sapere se siete d'accordo o meno con questa mia lettura.

venerdì 20 gennaio 2017

BABADOOK: DOLORE E PERDITA COME MOSTRI NELLA VITA VERA

Girato in Australia nel 2014 ma arrivato in Italia solamente l'anno successivo, Babadook (The Babadook) rappresenta il primo lungometraggio diretto dall'ex attrice Jennifer Kent, già autrice del cortometraggio Monster (2005) che lo ha ispirato. In seguito alla presentazione al Sundance Festival il film ha ottenuto un successo straordinario di critica, con tanto di numerosi premi vinti, e la possibilità di essere distribuito in varie nazioni, cosa che lo ha portato a incassare quasi otto milioni di dollari a fronte di un budget di circa due.

Protagonisti della pellicola sono una madre, Amelia, e suo figlio di soli sei anni Samuel, i quali vivono un rapporto che definire tormentato sarebbe un eufemismo: la donna reprime da anni il dolore per la morte del marito proprio il giorno in cui è nato il loro bambino, a cui quindi non riesce a dare le attenzioni e l'affetto che vorrebbe e che meriterebbe, il tutto mentre il piccolo reagisce con comportamenti violenti a casa e a scuola. Ogni notte il giovane orfano chiede alla mamma di controllare che non ci siano mostri in camera sua, un po' come tutti i bambini della sua età, ma la situazione degenera quando trova in casa un libro illustrato su una figura mostruosa chiamata Mister Babadook. Samuel ne resta terrorizzato, al punto da far precipitare il già fragile equilibrio mentale di sua madre.

L'incipit dell'opera diretta dall'esordiente australiana mette subito in chiaro con che tipo di prodotto si troverà ad aver a che fare lo spettatore, ossia un dramma intimo di grande potenza, amplificata dalla tensione e da alcuni sequenze di forte impatto visivo tipiche dell'horror. Risulta veramente fondamentale questa premessa perché, soprattutto in Italia, una buona fetta del pubblico è rimasta spiazzata negativamente al momento della visione a causa di aspettative sbagliate magari causate da trailer fuorvianti, oltre che da scarsa abitudine all'autorialità; Babadook insomma è tutt'altro rispetto al tipico orizzonte d'attesa del pubblico generalista addomesticato a suon di azione, dialoghi e ritmi da cinema classico, figuriamoci poi la sorpresa che può scaturire se la pubblicità porta in sala persone convinte di assistere a una pellicola di mostri, sangue e jump scares. Questo non vuol dire che il film non incuta tale sentimento (le scene in cui appare la creatura del libro sono da manuale del cinema di genere) ma semplicemente che a spaventare risulta soprattutto la drammatica quanto ben plausibile condizione in cui vivono i protagonisti, le cui vicende appaiono tanto ben rappresentate da portare il pubblico a soffrire insieme a loro e a riflettere.

Cosa rende così viscerale, così emotivamente struggente il narrato della pellicola? Sicuramente l'ottima sceneggiatura fa la sua parte, specie grazie a un ottimo lavoro in sottrazione, scevro da dialoghi prolissi che spieghino ogni minimo dettaglio allo spettatore, che rende vicino a chiunque il labirinto affettivo da cui Amelia non riesce a uscire, ma è lo stile adottato dalla regia a elevare realmente il prodotto in toto. La scelta di ambientare quasi tutto il film all'interno di una casa resa spettrale da lunghe inquadrature claustrofobiche,l'illuminazione ricca di netti tagli obliqui in tipico stile espressionista o noir, i continui riferimenti a porte, serrature e azioni ad esse collegate insieme a una fotografia dai colori plumbei rappresentano al meglio la tensione che vivono madre e figlio riuscendo addirittura a rendere ogni elemento diegetico un simbolo della condizione mentale della donna. A suffragare questa visione metaforica definitivamente, anche per i più scettici, è la sequenza finale, una chiusura geniale del cerchio che rende chiara la natura di parabola oscura del lungometraggio, una parabola sull'ineluttabilità della sofferenza e della perdita all'interno dell'umana esistenza. Dolore e perdita risultano essere secondo Jennifer Kent nella vita reale quello che nei film horror sono i mostri o gli spettri, entità che vanno oltre il raziocinio ma che esistono eccome e che una volta entrati nella vita di una persona non la abbandonano più; non esistono paletti di legno o pallottole d'argento che possano farli sparire, ci sono solo angoli remoti in cui è possibile tenerli a bada, renderli inoffensivi e in questo caso è l'amore di una madre per il figlio a dare la forza necessaria ad affrontarli.

Una piccola parentesi doverosa la meritano senza fallo le interpretazioni puntuali ed emozionali dei due protagonisti Essie Davis e Noah Wiseman, così come i riferimenti metacinematografici al classicismo hollywoodiano e soprattutto al cinema delle attrazioni (si pensi ai numeri di magia di Georges Méliès) inseriti attraverso i film che la donna guarda durante la notte, delle chicche non solo per questioni di cinefilia ma l'inquietudine che provocano attraverso il loro accostamento alla discesa nei meandri più oscuri della mente di Amelia.
In conclusione Babadook si rivela un'esperienza che segna profondamente chi vi assiste, possibilmente senza pregiudizi, e regala un insegnamento tutt'altro che banale in tempi oscuri come quelli in cui viviamo, in cui sembra che persino l'amore sia un mostro che porta alla follia e alla morte.

mercoledì 18 gennaio 2017

IL PIANETA DEL TESORO: L'INCOMPRESA SPACE OPERA DISNEY

Nato da un'intuizione risalente addirittura al 1985 e già messa in scena, almeno in parte, da Antonio Margheriti con lo sceneggiato ad alto budget per la RAI L'isola del tesoro, Il pianeta del tesoro (Treasure Planet) è un film d'animazione prodotto dalla Disney diretto dagli artefici della rinascita della casa di Topolino tra gli anni 80 e 90 Ron Clement e John Musker (The Great Mouse Detective, 1986; Aladdin, 1992; Hercules, 1997). La pellicola richiede per il suo completamento molti anni di lavoro e soprattutto un budget spropositato per l'epoca, ben centoquaranta milioni di dollari, dovuto all'enorme impiego tecnologico richiesto per accoppiare alla perfezione il disegno tradizionale alla CGI. Il risultato viene apprezzato, in realtà neanche troppo, dalla critica ma il pubblico, ormai rapito dalla moda dei film realizzati completamente in computer grafica come Shrek (Andrew Adamson, Vicky Jensen; 2001), ne decreta un completo disastro al box office, una disfatta tale da far accantonare il progetto già avviato di un sequel e bloccare per anni i due cineasti.

La trama ricalca a grandi linee il famoso romanzo d'avventura L'isola del tesoro (Treasure Island) realizzato da Robert Louis Stevenson nel 1883 cambiandone però l'ambientazione: le avventure piratesche del protagonista vengono trasportate in un imprecisato futuro in cui la tecnologia si mescola a elementi retrò (si pensi alle astronavi a forma di velieri) e così l'isola diventa un pianeta da raggiungere attraverso un viaggio avventuroso nello spazio. Il protagonista Jim è un adolescente cresciuto con il mito del tesoro del pirata spaziale Nathaniel Flint, ha grande talento con i motori e la tecnologia ma anche altrettanta indisciplina e insicurezza, dovuti in gran parte all'abbandono subito dal padre quando era ancora un bambino. La sua vita subisce una svolta quando si impossessa casualmente della mappa per il tesoro su cui fantasticava da piccolo e così decide di salpare alla sua ricerca accompagnato da un amico di sua madre, l'astrofisico dottor Doppler, il quale assolda una ciurma capitanata dall'arcigna Amelia e di cui fa parte il cyborg John Silver, pirata con cui il giovane instaura un particolare rapporto.

Fin dalla scelta dell'ambientazione Il pianeta del tesoro dimostra di essere ben lontano dai canoni disneiani, tanto da ricordare sia per stile che per narrativa la più famosa delle space opera in live action: quel Star Wars (Star Wars: Episode IV - A New Hope, George Lucas, 1977) con il quale condivide un universo spaziale dalle tecnologie più disparate, numerose razze aliene multiformi e il viaggio di formazione di un giovane protagonista, poco incline alla disciplina ma dalle grandi potenzialità, durante il quale trova nel proprio mentore quella figura paterna che cercava. Attraverso questo paragone ho introdotto proprio il tema portante dell'avventura messa in scena dalla coppia di registi, quel rapporto padre-figlio che si instaura tra Jim e Silver. Nonostante i due sappiano di non potersi fidare l'uno dell'altro inizialmente (il precedente padrone della mappa, Billy Bones, prima di morire aveva rivelato al ragazzo di non fidarsi di un cyborg) stando a stretto contatto finiscono per affezionarsi a tal punto da mettere a repentaglio il piano del pirata di impadronirsi del favoloso tesoro, il sogno che per tutta la vita aveva inseguito a discapito di tutto e tutti. Certamente non è il primo rapporto di questo tipo che viene rappresentato al cinema e non solo ma la genuinità con il quale si sviluppa non può non catturare lo spettatore, grazie alle caratterizzazioni tutt'altro che banali dei personaggi, alla qualità delle animazioni e a sequenze di straordinaria potenza emotiva, come quella accompagnata dal più che calzante brano I'm Still Here, scritto e interpretato dal leader dei Goo Goo Dolls John Rzeznik.

Se la navigazione intergalattica e i personaggi rappresentati nel lungometraggio appassionano gli spettatori di tutte le età bisogna ammettere che il vero fiore all'occhiello resta l'aspetto visivo, un gioiello forgiato dall'enorme qualità dei disegni animati artigianalmente, della CGI sbalorditiva per l'epoca e sopra ogni cosa per la regia sopraffina, ricca di movimenti di macchina quasi impensabili per un film d'animazione; un risultato fortemente voluto dalla coppia Clement/Musker e per il quale hanno saputo aspettare il giusto grado di maturazione delle tecnologie occorse. Un'attesa ripagata da uno spazio vivo, di una tridimensionalità che trasuda vitalità da tutti i pori e illuminato da stelle e galassie realizzate con una tale vivida immaginazione da estasiare il palato del romantico sognatore che vive dentro ogni amante dell'arte, il tutto accompagnato dalle splendide musiche di James Newton Howard, la cui colonna musica richiama la musica per film della Hollywood classica (si pensi a Max Steiner) per poi fondersi con sonorità contemporanee e pop, proprio come l'universo narrato si compone per il 70% di elementi tradizionali e al 30 di quelli fantascientifici.
In conclusione Il pianeta del tesoro, nonostante lo status di cult conseguito negli ultimi anni, resta una delle opere maggiormente incomprese nel cinema d'animazione e non solo, causata da un cattivo tempismo a dispetto delle mode correnti e probabilmente anche dalla poca considerazione artistica allora attribuita dal grande pubblico alle produzioni animate, ritenute ancora semplici operazioni per bambini; un problema in realtà ancora attuale ma che inizia trovare spiragli di luce grazie al coraggio di pellicole come quella appena analizzata.

lunedì 16 gennaio 2017

REGRESSION: IL KALEIDOSCOPIO CHIAMATO MENTE

A distanza di ben sei anni dal discusso kolossal Agorà (2009) nel 2015 irrompe nelle sale la nuova fatica di Alejandro Amenábar, un ritorno al cinema di genere che lo aveva portato alla fama internazionale agli inizi della propria carriera: Regression. Nonostante (o forse anche proprio a causa di) attori di assoluto richiamo e l'enorme attesa nei confronti dell'ultima opera di un autore amato sia dai cinefili che dalla critica il film si è rivelato un enorme flop commerciale e, soprattutto, una enorme delusione per la stessa critica, che ha immediatamente decretato la morte artistica del cineasta spagnolo. Possibile che questi abbia davvero dimenticato come si gira un buon film? Insomma è veramente tanto noioso e blando il film che ho deciso di analizzare? Io ho qualche dubbio a riguardo e tra poco scoprirete che qualche motivo di interesse che ne giustifichino quanto meno una visione ci sono.

In una pellicola che attraversa vari generi mantenendo allo stesso tempo un impianto narrativo da thriller diventa controproducente rivelare troppo della trama, motivo per il quale mi limito a rivelare soltanto una breve sinossi: nell'ormai lontano 1990 il detective di una piccola cittadina americana Bruce Kenner (Ethan Hawke) si ritrova a indagare su un caso di abusi sessuali in famiglia, per la precisione del religiosissimo padre sulla figlia diciassettenne (Emma Watson), che si trasforma improvvisamente in un tassello di una misteriosa ondata di presunti crimini legati a sette sataniche su cui persino l'FBI aveva indagato.
Satanismo e film horror non è certo la combinazione più innovativa che si sia mai vista in sala e anzi richiama immediatamente pietre miliari quali Rosemary's Baby (Roman Polanski, 1968) o The Omen (Richard Donner, 1976), riferimenti passati che vengono volutamente sfruttati nella costruzione narrativa elaborata da Amenábar al fine di rendere più spiazzante possibile il twist finale. Proprio la presunta volontà di voler ingannare il pubblico con topoi noti a tutti per poi ribaltarli nel finale in stile M. Night Shyamalan è risultata essere uno dei punti deboli di Regression, soprattutto a causa dei fin troppi indizi disseminati nel corso dell'opera che lasciano presagire il risvolto finale e l'interpretazione di Emma Watson nel ruolo chiave di meneur de geste rende il tutto ancor più debole. Ora che mi sono liberato della parte meno riuscita del lavoro del regista di Abre los Ojos (1997) posso finalmente dilungarmi sugli aspetti più interessanti dello stesso. Apprezzata anche da gran parte della critica l'ambientazione appare da subito estremamente ben costruita, fedele non solo agli anni 90 e alle piccole comunità americane ma anche al cinema di genere di quel periodo, l'ultima stagione ancora vergine dagli influssi del digitale e del ritmo da videoclip. Oltre alla qualità nel calare la storia e lo spettatore nel giusto contesto spazio-temporale l'ambiente risalta grazie all'ottima fotografia, ricca di contrasti chiaroscurali e perfettamente adatta a rendere palpabile la presenza di un non ben definito male che infesta l'intera comunità americana, così come egregie risultano le musiche composte da Roque Baños.

Tutto questo lavoro purtroppo non è bastato a salvare la pellicola dai duri giudizi subiti e a mio avviso il motivo principale è dovuto all'eccessivo peso dato alla narrazione rispetto allo stile, che dovrebbe in realtà essere l'elemento principale di qualsiasi film di genere. La regia del cineasta nato in Cile si rivela superba, capace di creare momenti di suspense esasperante e soprattutto inquadrature visivamente imponenti, come ad esempio le visioni in cui appaiono i satanisti dal volto truccato. Proprio queste sequenze varrebbero da sole il prezzo della visione del lungometraggio grazie alla loro intrinseca bellezza estetica e alla capacità, insieme alle altrettanto superbe soggettive, di catapultare lo spettatore in quello che ho definito kaleidoscopio della mente, uno dei temi ricorrenti nel cinema di Amenábar nel quale la realtà non è mai ben definita, bensì risulta sempre essere filtrata dalla soggettività alterata dei protagonisti. Nel caso in analisi il detective Kenner, interpretato con efficacia dal mai troppo lodato Ethan Hawke, inizialmente appare un uomo estremamente razionale e impermeabile al clima di superstizione che investe invece il resto dei personaggi ma con l'approfondimento delle indagini e soprattutto con l'uso continuato della regressione sulle presunte vittime del complotto satanico anche l'uomo finisce per restare vittima di un processo simile, che lo porta a non essere più in grado di distinguere cosa sia reale e ad affidarsi ciecamente alla fede. Esemplare di questa vorticosa perdita di certezze è la sequenza in cui il protagonista torna nella centrale di polizia attraverso una soggettiva identica a quella dell'incipit in cui il soggetto con cui si identificava la mdp era il padre di Angela/Emma Watson, la prima figura a non sapere più cosa gli accada realmente.

In definitiva Regression merita a mio parere una visione, certo per molti di voi non resterà che una buona occasione sprecata ma ricca comunque di numerosi spunti e di una cura formale molto rara nel thriller o nell'horror.

domenica 15 gennaio 2017

SOURCE CODE: IL VALORE UMANO DELLA RIMEDIAZIONE

Reduce da un lungometraggio di debutto accolto con entusiasmo dalla critica ma rimasto all'interno della nicchia del cinema indipendente (Moon, 2009) Duncan Jones cerca e trova la conferma nel 2011 con Source Code, ulteriore passo all'interno della fantascienza questa volta però con un budget ben più cospicuo e il cast impreziosito da divi come Jake Gyllenhaal e Vera Farmiga. La seconda fatica del figlio di David Bowie si rivela un inaspettato successo commerciale oltre che uno dei migliori film dell'anno secondo molti giornali e riviste specializzate, tanto da permettergli di azzardare l'impresa di girare il blockbuster Warcraft, tratto dall'omonima serie di videogiochi, nel 2016, una scelta che capirete non essere dettata da semplici opportunità economiche proprio attraverso l'analisi della sua seconda pellicola.

Protagonista delle vicende narrate è il pilota di elicotteri dell'esercito statunitense Colter Stevens (Jake Gyllenhaal), il quale si trova, senza sapere come o perché, si ritrova improvvisamente non più in Afghanistan bensì su di un treno diretto a Chicago in compagnia di una donna, Christina, che sembra conoscerlo come Sean, un insegnante. Dopo otto minuti il treno esplode e l'uomo si risveglia questa volta in una specie di capsula dove gli viene spiegato finalmente il motivo della sua presenza sul treno: cercare di scoprire l'identità dell'attentatore che ha fatto esplodere il mezzo di trasporto attraverso una macchina, chiamata source code, che permette di rivivere gli ultimi otto minuti di vita di una persona. Il soldato è costretto a ripetere più volte questa manciata di minuti per poter adempiere il proprio dovere ma nel frattempo cerca risposte su ciò che lo ha portato nel source code e finisce per innamorarsi perdutamente della collega di Sean.

Esattamente come il precedente film con Sam Rockwell anche Source Code utilizza i canoni di uno dei generi per eccellenza del cinema americano, la fantascienza, per affrontare l'interiorità e il rapporto con la vita dell'essere umano ma nel farlo si affida a scelte narrative e stilistiche molto differenti. Le cesure più evidenti sono la presenza di più personaggi umani rispetto all'opera prima del regista britannico e un ritmo ben più vicino a quello del thriller o dell'action, due elementi che potrebbero far pensare al tipico avvicinamento alle logiche mainstream dopo un esordio indipendente ma che sono in realtà giustificate da motivi stilistici e poetici ben più consistenti. Mentre Moon rifletteva sull'essenza stessa della condizione umana e sulla difficoltà nel rapportarsi con l'altro, rappresentate con efficacia dalla solitudine del protagonista, la pellicola successiva lascia maggiore spazio all'impatto emotivo sull'io, come dimostrano i temi dell'amore per un padre orfano del figlio e quello totalmente irrazionale per una donna non solo sconosciuta ma addirittura morta. Proprio il valore del versante irrazionale dell'uomo finisce per prendere il sopravvento, al punto da mostrare di cosa sia veramente capace il dispositivo tecnologico da cui prende il nome il film e di annullare persino la morte, o meglio la morte del corpo, che diventa un involucro privo di valore rispetto alla mente e alle emozioni, come testimonia il fatto che gran parte del film si svolga in una specie di universo parallelo formato da pochi minuti vissuti soltanto da persone fisicamente già morte e non è un caso neanche che il vero corpo di Colter appaia soltanto a pochi minuti dalla fine del film.

A rendere davvero interessante l'opera girata da Duncan Jones è la scelta di prendere in prestito da uno dei medium più effervescenti nell'arte contemporanea, il videogame, molti dei suoi stilemi per poter dare maggior potenza e significanza ai temi appena descritti: i continui viaggi nel source code effettuati dal protagonista non possono non rimandare alla struttura a livelli tipica dei videogiochi classici (ovviamente non parlo dei cosiddetti open world o sandbox come la serie Grand Theft Auto) così come il fatto che continui a ripetere la stessa situazione nel tentativo di raggiungere un determinato obiettivo. L'acquisizione di caratteri da un medium diverso, la cosiddetta rimediazione, è un fenomeno che coinvolge ormai tutte le forme d'arte e il cinema ne è un esempio lampante, eppure non è affatto comune che questi scambi avvengano in maniera completamente consapevole e soprattutto con tanta coerenza da parte di un autore, dato che il videogame è il luogo per eccellenza in cui il corpo perde la sua predominanza in favore dei processi mentali ed emotivi, cosa che lo rende il media perfetto con cui potesse ibridarsi il lungometraggio in analisi. Ai grandi meriti di Jones vanno inoltre aggiunte le prove attoriali di elevato spessore, soprattutto quella di Gyllenhaal, e l'arguzia della sceneggiatura di Ben Ripley, mentre a mio modesto parere la colonna musica resta l'unico piccolo neo a causa di una aurea mediocritas che stona con le eccellenze appena descritte.

In conclusione Source Code rappresenta senza alcun dubbio una pietra miliare di quel cinema contemporaneo forgiato dai processi di rimediazione e dagli strascichi dell'attentato alle Twin Towers ma, cosa secondo me ben più importante, un'esperienza stimolante sia intellettualmente che emotivamente, una fantascienza così umana da far restare nel cuore dello spettatore i suoi personaggi.

giovedì 12 gennaio 2017

MARVEL'S DAREDEVIL: IL DIAVOLO CUSTODE PIÙ CINEMATOGRAFICO DELLA TV


A distanza di più di dieci anni (per l'esattezza dodici) dal tutt'altro che memorabile omonimo lungometraggio diretto da Mark Steven Johnson nel 2003 con protagonista un fin troppo sprecato Ben Affleck, il personaggio di Daredevil si aggrega al Marvel Cinematic Universe ma non attraverso una nuova avventura in sala, bensì con un serial a lui dedicato, messo in onda in streaming attraverso la piattaforma on demand Netflix e intitolato Marvel's Daredevil. Creator della serie è lo sceneggiatore Drew Goddard, noto per gli script di pellicole come Cloverfield (Matt Reeves, 2008) e The Martian (Ridley Scott, 2015) ma anche per aver diretto l'horror postmoderno Quella casa nel bosco (The Cabin in the Woods, 2012), un indizio forte della direzione poco televisiva e maggiormente vicina alla settima arte che analizzerò a breve. Nel momento in cui scrivo sono state prodotte due stagioni da tredici episodi l'una di durata variabile (tra i 48 e i 61 minuti), entrambe accolte dal plauso di critica e fan del fumetto d'origine oltre che da un notevole successo dal punto di vista delle visualizzazioni, tanto da aver permesso il lancio a breve di uno spin off dedicato al tormentato giustiziere The Punisher.

Mai come nella serialità televisiva dilungarsi sulla trama risulta controproducente, visto che gran parte del suo seguito viene raggiunto attraverso la capacità di catturare la curiosità del pubblico su ciò che verrà, quindi mi limito a fornirvi piccole informazioni prive il più possibile di spoiler. Protagonista assoluto è il giovane avvocato cieco da quando aveva nove anni Matt Murdock (un Charlie Cox che riesce a non far rimpiangere Affleck), il quale di giorni difende gli innocenti attraverso la legge con l'aiuto del suo migliore amico e socio Foggy Nelson e la loro segretaria Karen Page, mentre di  notte combatte da giustiziere mascherato arrivando dove il diritto sembra non avere abbastanza potere.
La domanda che potrebbe sorgervi spontanea è certamente legata al motivo che mi ha spinto ad analizzare nel mio blog dedicato al cinema un prodotto di serialità televisiva. La riposta è ben radicata nel contesto multimediale in cui oggi siamo immersi, lo stesso che porta qualsiasi forma d'arte a processi di rilocazione e rimediazione che rendono estremamente labili certi confini che fino a qualche anno fa sembravano muraglie invalicabili. Marvel's Daredevil è un esempio lampante di questa situazione: è un serial ma non va in onda su un normale canale televisivo, bensì in streaming on demand attraverso la rete; fa parte di un universo cinematografico condiviso, una creazione che di per sé è già ai limiti di due diversi media (cinema e tv), in cui spesso vengono sfruttati elementi formali e narrativi tipici della serialità da piccolo schermo e che trae le proprie storie da una terza forma d'arte, il fumetto; infine si pensi allo stile visivo della serie in analisi, che risulta estremamente figlio della settima arte in tutti i suoi caratteri.

Ora che ho "giustificato" la mia scelta è giunto il momento dell'analisi vera e propria. Ciò che salta subito all'occhio fin dall'episodio pilota della serie è il sostanziale cambio di rotta dal punto di vista delle atmosfere e dei toni rispetto all'MCU, dato che le avventure del diavolo di Hell's Kitchen si svolgono soprattutto di notte, tra strade ed edifici malfamati, sporchi e coinvolgono persone che sono ben radicate nella realtà attuale: i delinquenti e i bosso affrontati da Murdock non sono alieni dai poteri sovrannaturali o geni del male che bramano la conquista del mondo intero, sono semplicemente i burattinai senza scrupoli che tirano i fili del malaffare in cui viviamo tutti noi (in Italia forse ancor più che negli Stati Uniti messi in scena). Certo ci sono alcune doverose concessioni al fumettistisco, come i sensi sviluppati oltre la normale soglia umana del protagonista o l'invulnerabilità di Frank Castle/The Punisher, ma tutto diventa plausibile all'interno della cornice da vero e proprio neo noir nel quali si dipanano gli episodi. Persino il caratteristico humour delle produzioni Marvel targate Disney diviene più agrodolce, anzi spesso risulta essere una forma di difesa nei confronti della spietata realtà del quartiere newyorchese in cui si svolgono le vicende. Alla cura per la scenografia e la fotografia si aggiunge una regia che quasi mai rimanda alla semplicità del classico stile televisivo, tanto che basterebbe visionare le spettacolari sequenze di combattimento per pensare di trovarsi di fronte a una pellicola di genere ad alto budget, e che addirittura si permette vezzi di grandissima qualità estetica, come il meraviglioso piano sequenza del secondo episodio in cui Matt combatte un gruppo di russi per salvare un bambino rapito ambientato in un corridoio che non può non richiamare la sequenza più celebre di Old Boy (Park Chan-wook, 2003).

Di pari passo rispetto alle qualità visive del prodotto Marvel risulta anche il lato narrativo e la caratterizzazione dei personaggi, in particolare la psicologia del protagonista affascina e non può non portare a profonde riflessioni sul suo rapporto con la fede, il rapporto con il padre pugile e i dubbi che si fanno sempre più incessanti sulla reale caratura morale del proprio operato; temi che, insieme alla cura per le coreografie delle battaglie e all'oscurità delle atmosfere, richiamano le prime due stagioni del capostipite dell'universo televisivo dell'eterna rivale Dc Comics, ossia Arrow (Greg Berlanti, Marc Guggenheim, Andrew Kreisberg; 2012-). Perfino molti sbocchi narrativi hanno molto in comune con la serie dedicata al giustiziere armato di arco e freccia e una menzione speciale la merita il villain della prima stagione: il Wilson Fisk interpretato con la consueta sensibilità da Vincent D'Onofrio è tutt'altro che un macchiettistico boss della malavita come quello visto nel film del 2003, possiede un background psicologico e sentimentale ben approfondito e mai banale, che lo porta a essere un uomo tanto spietato quanto capace di provare una sincera amicizia verso il suo assistente Wesley e un amore che passa da un estremo all'altro per una curatrice di un museo. Una sorta di sintesi tra i Malcolm Merlyn e Slade Wilson impreziosita da una ricostruzione maggiormente sottile ottenuta soprattutto grazie al suo interprete.
In conclusione Marvel's Daredevil si rivela un'opera di elevato spessore per un pubblico molto vasto e composito, poiché può essere apprezzato dagli appassionati di cinema così come da quelli di serial televisivi o di comics americani, qualità che la rende a mio modesto parere una pietra miliare della rimediazione di cui vive l'arte contemporanea.