venerdì 20 gennaio 2017

BABADOOK: DOLORE E PERDITA COME MOSTRI NELLA VITA VERA

Girato in Australia nel 2014 ma arrivato in Italia solamente l'anno successivo, Babadook (The Babadook) rappresenta il primo lungometraggio diretto dall'ex attrice Jennifer Kent, già autrice del cortometraggio Monster (2005) che lo ha ispirato. In seguito alla presentazione al Sundance Festival il film ha ottenuto un successo straordinario di critica, con tanto di numerosi premi vinti, e la possibilità di essere distribuito in varie nazioni, cosa che lo ha portato a incassare quasi otto milioni di dollari a fronte di un budget di circa due.

Protagonisti della pellicola sono una madre, Amelia, e suo figlio di soli sei anni Samuel, i quali vivono un rapporto che definire tormentato sarebbe un eufemismo: la donna reprime da anni il dolore per la morte del marito proprio il giorno in cui è nato il loro bambino, a cui quindi non riesce a dare le attenzioni e l'affetto che vorrebbe e che meriterebbe, il tutto mentre il piccolo reagisce con comportamenti violenti a casa e a scuola. Ogni notte il giovane orfano chiede alla mamma di controllare che non ci siano mostri in camera sua, un po' come tutti i bambini della sua età, ma la situazione degenera quando trova in casa un libro illustrato su una figura mostruosa chiamata Mister Babadook. Samuel ne resta terrorizzato, al punto da far precipitare il già fragile equilibrio mentale di sua madre.

L'incipit dell'opera diretta dall'esordiente australiana mette subito in chiaro con che tipo di prodotto si troverà ad aver a che fare lo spettatore, ossia un dramma intimo di grande potenza, amplificata dalla tensione e da alcuni sequenze di forte impatto visivo tipiche dell'horror. Risulta veramente fondamentale questa premessa perché, soprattutto in Italia, una buona fetta del pubblico è rimasta spiazzata negativamente al momento della visione a causa di aspettative sbagliate magari causate da trailer fuorvianti, oltre che da scarsa abitudine all'autorialità; Babadook insomma è tutt'altro rispetto al tipico orizzonte d'attesa del pubblico generalista addomesticato a suon di azione, dialoghi e ritmi da cinema classico, figuriamoci poi la sorpresa che può scaturire se la pubblicità porta in sala persone convinte di assistere a una pellicola di mostri, sangue e jump scares. Questo non vuol dire che il film non incuta tale sentimento (le scene in cui appare la creatura del libro sono da manuale del cinema di genere) ma semplicemente che a spaventare risulta soprattutto la drammatica quanto ben plausibile condizione in cui vivono i protagonisti, le cui vicende appaiono tanto ben rappresentate da portare il pubblico a soffrire insieme a loro e a riflettere.

Cosa rende così viscerale, così emotivamente struggente il narrato della pellicola? Sicuramente l'ottima sceneggiatura fa la sua parte, specie grazie a un ottimo lavoro in sottrazione, scevro da dialoghi prolissi che spieghino ogni minimo dettaglio allo spettatore, che rende vicino a chiunque il labirinto affettivo da cui Amelia non riesce a uscire, ma è lo stile adottato dalla regia a elevare realmente il prodotto in toto. La scelta di ambientare quasi tutto il film all'interno di una casa resa spettrale da lunghe inquadrature claustrofobiche,l'illuminazione ricca di netti tagli obliqui in tipico stile espressionista o noir, i continui riferimenti a porte, serrature e azioni ad esse collegate insieme a una fotografia dai colori plumbei rappresentano al meglio la tensione che vivono madre e figlio riuscendo addirittura a rendere ogni elemento diegetico un simbolo della condizione mentale della donna. A suffragare questa visione metaforica definitivamente, anche per i più scettici, è la sequenza finale, una chiusura geniale del cerchio che rende chiara la natura di parabola oscura del lungometraggio, una parabola sull'ineluttabilità della sofferenza e della perdita all'interno dell'umana esistenza. Dolore e perdita risultano essere secondo Jennifer Kent nella vita reale quello che nei film horror sono i mostri o gli spettri, entità che vanno oltre il raziocinio ma che esistono eccome e che una volta entrati nella vita di una persona non la abbandonano più; non esistono paletti di legno o pallottole d'argento che possano farli sparire, ci sono solo angoli remoti in cui è possibile tenerli a bada, renderli inoffensivi e in questo caso è l'amore di una madre per il figlio a dare la forza necessaria ad affrontarli.

Una piccola parentesi doverosa la meritano senza fallo le interpretazioni puntuali ed emozionali dei due protagonisti Essie Davis e Noah Wiseman, così come i riferimenti metacinematografici al classicismo hollywoodiano e soprattutto al cinema delle attrazioni (si pensi ai numeri di magia di Georges Méliès) inseriti attraverso i film che la donna guarda durante la notte, delle chicche non solo per questioni di cinefilia ma l'inquietudine che provocano attraverso il loro accostamento alla discesa nei meandri più oscuri della mente di Amelia.
In conclusione Babadook si rivela un'esperienza che segna profondamente chi vi assiste, possibilmente senza pregiudizi, e regala un insegnamento tutt'altro che banale in tempi oscuri come quelli in cui viviamo, in cui sembra che persino l'amore sia un mostro che porta alla follia e alla morte.

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