lunedì 30 gennaio 2017

...E ORA PARLIAMO DI KEVIN: L'OSCURO AMORE TRA UNA MADRE E UN FIGLIO

Per il suo terzo lungometraggio l'acclamata regista inglese Lynne Ramsay sceglie di adattare per lo schermo un romanzo quanto meno controverso, We Need to Talk About Kevin di Lionel Shriver, dandogli lo stesso titolo (in italiano il meno incisivo ...E ora parliamo di Kevin) e presentandolo all'edizione del 2011 del Festival di Cannes. Nonostante il poco successo a livello commerciale la pellicola ha ricevuto il plauso della critica, soprattutto all'indirizzo delle interpretazioni dei due attori principali Tilda Swinton ed Ezra Miller, tanto da portare l'attrice statunitense a vincere numerosi premi e a essere candidata ai Golden Globe.

Protagonista assoluta del film è Eva (Tilda Swinton), una donna completamente distrutta che vive in una piccola casa fatiscente e che a stento riesce a trovare un piccolo impiego in un'agenzia di viaggi. Attraverso i continui salti temporali dettati dai ricordi della donna lo spettatore scopre che a distruggerne l'esistenza è stata la nascita del suo primogenito, Kevin (Ezra Miller), che fin da subito si mostra ostile alla madre e allo stesso tempo amorevole con il padre (John C. Reilly) bonaccione ma poco attento a ciò che gli accade intorno. Il rapporto non migliora neanche con la nascita della dolce sorellina Celia, anzi la nuova arrivata diviene un altro bersaglio delle crudeltà del ragazzo, il quale poco prima del suo sedicesimo compleanno compie una strage nel suo liceo (e non solo).

Fin dall'incipit We Need to Talk About Kevin si dimostra un'opera estremamente attenta al lato formale ed estremamente diversa dalle molte produzioni che hanno provato a portare al cinema tematiche tanto delicate. La scelta di una narrazione in cui presente e passato si alternano continuamente, in stile Nolan, rende subito chiaro allo spettatore più accorto che tutta la vicenda è vissuta dal punto di vista soggettivo della protagonista in una sorta di autoanalisi, un tentativo di carpire il senso di ciò che le è accaduto e soprattutto scoprire se la colpa non sia in realtà sua.
Una volta acclarato il punto di vista del narrato non può non risultare estremamente interessante e coraggiosa la caratterizzazione di Kevin: fin da bambino il co-protagonista (o antagonista) presenta caratteri mefistofelici degni del Damien di The Omen (Richard Donner, 1976), è assolutamente consapevole della sofferenza che infligge alla madre e lo è ancor di più quando si trasforma nel bambino perfetto non appena appare il padre. Molti recensori hanno trovato in questi elementi horror uno dei passi falsi commessi da Lynne Ramsay, accusata di aver reso il ragazzo poco credibile nella sua crudeltà esasperata, mentre a mio avviso risulta un'intuizione ben giustificata dalla fine ricostruzione del dolore di Eva che oltretutto sovverte le ormai stantie logiche che vedono separati come da un muro invalicabile quelle odiose categorie di cinema autoriale e di genere. A rendere ancor più indovinata la scelta della cineasta inglese è l'interpretazione del giovane Miller, il quale dona al Kevin adolescente uno sguardo finemente glaciale che non può non richiamare l'Hannibal Lecter interpretato da Anthony Hopkins, anche se in questo caso l'immedesimazione verso la figura malvagia è ben più complicata.

Vero centro della pellicola, al di là del titolo, resta sempre Eva, della quale lo spettatore riesce carpire la trasformazione provocatale dalla maternità che si conclude con una vera e propria implosione emotiva in seguito alla strage. La donna prima di restare incinta era estremamente passionale, innamorata follemente del marito, amante dei viaggi e soddisfatta del successo in ambito lavorativo. Una volta subentrato il figlio, già al momento della gravidanza inizia a mostrare insofferenza (la sequenza insieme in piscina con le altre donne in dolce attesa lo testimonia), sente il nuovo arrivato come una minaccia alla propria individualità e quindi tutta questa negatività sembra riversarsi proprio sul figlio, il quale conosce come amore materno il disprezzo. Ciò che traspare dai ricordi della protagonista è proprio il fatto che, sebbene ci siano stati vari episodi estremamente traumatici come quando spezza il braccio al bambino, il rapporto tra i due sia nato già malato e che quindi il dolore estremo che prova nel presente è dovuto soprattutto alla quasi certezza di essere colpevole esattamente quanto Kevin. Perché allora si ostina ad andare a trovarlo in galera e addirittura ad abbracciarlo? La risposta è la più semplice che possiate immaginare: perché lo ama. Certo l'amore tra il personaggio interpretato alla Swinton e il figlio non è esattamente idilliaco, non si mostra attraverso la dolcezza eppure è così potente da spingere i due in una spirale di male che sacrifica tutto e tutti fino a renderli praticamente identici nel loro vuoto esistenziale, esemplificato dall'asettico arredamento della stanza di Kevin e della nuova casa della madre.

Come accennato in precedenza il lato formale del lungometraggio merita una notevole attenzione, vista la cura eccezionale per le inquadrature, le scelte cromatiche, in cui domina incontrastato il rosso, il tappeto sonoro, che richiama continuamente la strage incombente proprio come il rosso, e il raffinato montaggio. La colonna musica realizzata dal chitarrista dei Radiohead Jonny Greenwood rende palpabile lo struggente mondo in cui è ambientata la pellicola, così come le canzoni sempre piuttosto allegre creano un inquietante contrasto con ciò che si vede. A mio avviso basterebbero i flashback sulla storia d'amore tra Eva e il marito e il contrasto che crea accostarli alle sequenze più inquietanti aventi protagonista Kevin a ripagare della visione.
In conclusione ...e ora parliamo di Kevin è un'esperienza di una potenza sia estetica che emotiva difficilmente dimenticabile, capace di far riflettere ma soprattutto di smuovere l'animo, proprio ciò che il cinema deve fare in tempi tanto disumanizzati come quelli in cui viviamo.

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