lunedì 23 gennaio 2017

CRASH: SCONTRARSI E SCOPRIRE DI ESSERE ANCORA UMANI

Oggi, nel pieno di quel web 2.0 che ha portato la democrazia nell'informazione, o almeno avrebbe dovuto, ma che ha anche permesso la circolazione mondiale incontrollata di disinformazione, per non dire vere e proprie idiozie, risulta molto facile determinare il pensiero diffuso, dare vita a mode o luoghi comuni che francamente fino a pochi anni fa sarebbero risultati talmente ridicoli da oltrepassare il grottesco. In questo groviglio di catene di Sant'Antonio del pensiero finiscono sempre più spesso prodotti artistici come film, serial televisivi o videogiochi che finiscono per essere osannati per oscuri motivi dettati dal sentito dire o allo stesso modo vengono denigrati, con tanto di campagne all'insegna dell'insulto gratuito da vero bullismo virtuale.

Una vittima illustre di tale situazione si è suo malgrado ritrovata a essere persino una pellicola come Crash, scritta e diretta da Paul Haggis nel 2004, vincitrice di prestigiosi premi in tutto il mondo, tra cui tre Academy Awards (compresi miglior film e miglior sceneggiatura originale) e considerata all'uscita una delle migliori dell'anno da moltissimi autorevoli critici. Lungi da me considerare verbo divino l'opinione delle riviste di settore (come dimostra questo blog ho spesso trovato interessanti film stroncati senza pietà dalle recensioni) ritengo però che la recente rivalutazione, o meglio svalutazione, diffusasi in rete verso il lungometraggio in questione ridicola per la sua mancanza di riferimenti concreti al profilmico e per la puntuale omologazione delle pseudo critiche attribuitegli. Badate bene, niente è perfetto a questo mondo e probabilmente molti di voi alla fine potrebbero anche trovarsi in completo disaccordo con me ma almeno createvi una vostra idea, scevra dalle campagne di sensazionalismo tipiche della parte peggiore dei social network.
Crash si presenta da un punto di vista narrativo come una composizione corale, simile ai lavori di Altman o a Magnolia (Paul Thomas Anderson, 1999), uno spaccato di vita di varie persone comuni. tutte residenti a Los Angeles e i cui destini finiscono per incrociarsi nel giro di circa trentasei ore: un poliziotto bigotto e amareggiato dalla vita (un Matt Dillon strepitoso), il suo partner giovane e ancora convinto dei propri ideali (Ryan Phillippe), un detective di colore (Don Cheadle) diviso tra un'ostentata freddezza e l'amore amore incondizionato per la madre, due ragazzi afroamericani che vivono di furti, il procuratore distrettuale (Brendan Fraser) e sua moglie (Sandra Bullock), un regista televisivo ancora tormentato dal colore della propria pelle, un fabbro ispanico (Michael Peña) ecc.

Come avrete capito sono molti e provenienti dai più disparati contesti etnici ed economici i personaggi utilizzati dal regista come sineddoche di una umanità sconvolta dai postumi dell'attentato alle Twin Towers, preda di un atteggiamento verso il prossimo che va ben oltre il razzismo che ha sempre imperversato gli Stati Uniti, una sorta di armatura indossata per reagire alla diffusa paura che chiunque possa essere un terrorista pronto a fare del male. Trovo molto superficiale definire il film come una racconto morale e moralista sul razzismo, un tema che certamente viene affrontato ma che rappresenta anche soltanto una delle innumerevoli facce con le quali si presenta quella condizione che ho appena descritto; insomma la xenofobia risulta una delle varie tipologie di diffidenze sfocianti nell'odio che caratterizzano il bastone che fa da sostegno unico a esseri umani alienati da una metropoli che è un vero e proprio non-luogo, così come lo è l'occidente scosso dal terrorismo. Come affermato dal detective Waters nella sequenza iniziale il contatto fisico diventa l'unico antidoto a questo male diffuso, l'unica prova concreta di quell'essenza umana che sembrava perduta e che invece risulta ancora vibrante, nonostante venga quotidianamente sommersa dalla melma dell'odio. Scontrarsi (crash in inglese) per sentire finalmente di non essere delle isole nemiche.

Haggis riesce nel compito per niente facile di tessere una ragnatela di esistenze singole, ognuna presa dalle proprie angosce e da tutta una serie di compromessi dettati dalla sopravvivenza, che finiscono per toccarsi, senza mai rendere eccessivamente tortuosa la sceneggiatura, aiutata da un uso eccelso del montaggio alternato e dei salti temporali, come nel flashforward della sequenza iniziale. Nonostante la poca esperienza con la macchina da presa la regia si dimostra efficace e sicura nel mescolare la tecnica classica a quella moderna, esattamente come in fase di sceneggiatura, concedendo allo spettatore anche inquadrature di grande bellezza estetica, come ad esempio la carrellata finale ad allargare il punto di vista sulla città degli angeli. Memorabili infine risultano le interpretazioni del cast, ognuno dei protagonisti riesce a trasmettere l'umanità estremamente sfaccettata di cui sono portatori senza mai risultare delle semplici maschere, anche se a mio parere svettano leggermente sugli altri Dillon e Cheadle con i loro ritratti di uomini accomunati dalla durezza mostrata in superficie a discapito della vera forza che mostrano nel privato, che li vede entrambi occuparsi senza alcun riconoscimento di genitori distrutti dalla vita.

In conclusione Crash si dimostra un'esperienza filmica che colpisce duro, non lascia indifferenti né alla vista né al cuore con la sua potenza formale ed emotiva ma soprattutto fa tutto questo permettendo allo spettatore di riflettere con ottimi spunti sulla condizione umana attuale, tanto da poter essere definito una delle pellicole che maggiormente rispecchia il cinema contemporaneo nato dal fantasma dell'11 settembre 2001.

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