venerdì 27 gennaio 2017

THE VISIT: IL MOCKUMENTARY D'AUTORE

In un mondo fatto di superomismo a tutti i costi come quello hollywoodiano sembra che non ci sia spazio per una delle caratteristiche che maggiormente distingue l'essere umano, ossia la sua tendenza a sbagliare in buona fede, la sua imperfezione e le sue numerose cadute nel percorso della vita. Nel rigido sistema del divismo americano al primo passo falso chiunque, persino il più grande rischia di tornare la nullità di partenza, il tutto in molti casi grazie al contributo del grande pubblico, il quale proprio come gli addetti ai lavori non sembra apprezzare la vera umanità nei propri idoli. Probabilmente per ragioni che niente hanno a che fare con l'arte io ho invece trovato sempre affascinanti quelle figure che, pur nella loro grandezza, mostrano quel volto umano caratterizzato dalla possibilità del fallimento e che troppo spesso finiscono in angolo dal quale è molto complicato uscire. Eppure vi sono anche coloro che quest'angolo dell'incomprensione, della negatività riescono ad abbandonarlo, dimostrando che il mito, tanto caro al cinema americano, dell'eroe che torna in piedi dopo innumerevoli tonfi e uno di questi è sicuramente M. Night Shyamalan. Il cineasta di origine indiana ha attraversato una parabola cinematografica quasi incredibile se non fosse vera, visto che tra la fine degli anni 90 e i primi anni del terzo millennio, ancora giovanissimo, si affermò come una delle più grandi promesse del cinema mondiale grazie al successo di The Sixth Sense (1999) e Signs (2002) mentre in seguito all'incompreso The Village (2004) ha inanellato un flop dietro l'altro fino al kolossal fantascientifico After Earth (2013). A questo punto vi starete chiedendo il motivo di questa filippica sull'autore anziché parlare subito del film da analizzare. Tralasciando la normale importanza che il contesto ha in dote in ogni opera d'arte mai come in questo caso i precedenti del regista risultano decisivi, dal momento che The Visit (2015), il film che ho deciso di analizzare, rappresenta una vera e propria rinascita per Shyamalan al cinema, in seguito al primo vagito di positività rappresentato dal serial televisivo Wayward Pines (2015), un nuovo capitolo zero che segna una cesura netta con il precedente kolossal fantascientifico e il suo milionario budget buttato al vento che ha conquistato sia la critica che, soprattutto, il pubblico.

Protagonisti della pellicola sono due ragazzi, la quindicenne Rebecca e il fratello tredicenne Tyler, i quali si apprestano a incontrare per la prima volta i nonni materni passando una settimana a casa loro. L'eccezionalità dell'evento, dovuta al fatto che loro madre era fuggita di casa subito dopo aver finito il liceo per stare insieme al padre dei due, fa sì che la più grande dei due decida di girare un documentario a testimoniarlo, anche se in realtà il suo reale scopo sembra essere quello di far riconciliare la famiglia. Al momento dell'arrivo gli anziani sembrano persone molto dolci, nonostante evidenti problemi legati all'età avanzata, eppure man mano che passa il tempo mostrano stranezze che diventano sempre più inquietanti.

Avrete già capito dalla breve sinossi quanto The Visit sia lontano dalla dimensione sci-fi di After Earth e il fatto che io non abbia citato nessun divo al suo interno ne testimonia anche le differenze produttive, dato che il film in questione è stato finanziato dalla Blumhouse di Jason Blume, reso famoso dai suoi horror a basso costo, spesso girati come mockumentary ma capaci di incassare centinaia di milioni di dollari. Proprio alla politica del falso documentario tipica di molte produzioni del nuovo re Mida dell'horror si adatta Shyamalan, cosa che gli permette di sfruttare da un punto di vista commerciale una tendenza ancora piuttosto forte e al contempo, dal lato artistico, di creare un'opera compatta, diretta, scevra dagli obblighi contrattuali dettati dai budget da Blockbuster e coerente con la propria poetica. Certamente molti lungometraggi che recentemente hanno scelto lo stesso espediente estetico-narrativo si sono rivelati mediocri,se non inguardabili, ma nelle mani del cineasta americano si rivela un mezzo estremamente efficace e i motivi sono molteplici. Il primo e più evidente è la qualità delle inquadrature e dei movimenti di macchina, mai tendenti a sballottamenti da mal di mare tipici di molti falsi documentari, che si rivelano perfettamente in linea con le abilità di chi la utilizza nella diegesi dando quindi un effetto ben più realistico e una dimensione metacinematografica di notevole fascino (un tema caro al regista): Rebecca con la sua camera digitale diventa un doppio di Shyamalan mentre il fratello con la fotocamera digitale agisce da seconda unità e le riprese vengono persino montate davanti allo spettatore attraverso un semplice pc portatile, proprio come farebbero dei ragazzi alle prime armi al giorno d'oggi, con tanto di discussioni tecniche sullo zoom o altri espedienti tecnici. Anche la creazione del clima di tensione e i momenti da sobbalzo sulla sedia acquistano ben altro valore, anzi l'autore si diverte a giocare proprio con le aspettative create nel pubblico dai tantissimi precedenti del genere, alle volte rallentando la comparsa dell'elemento conturbante mentre in altri momenti addirittura si permette di inserire momenti di pura comicità; una scelta audace resa totalmente azzeccata grazie a una elevata sensibilità drammaturgica e alla bravura degli attori, ottimi sia nel caso dei due ragazzi che della coppia di anziani.

A rendere infine la pellicola in tutto e per tutto made in Shyamalan è l'evidente dimensione fiabesca delle vicende narrate, data dalle continui citazioni di Hansel e Gretel, dal percorso di superamento dei proprio demoni da parte dei giovani protagonisti e dal perturbante che si insinua nel contesto familiare, unita al twist narrativo verso la fine della pellicola; i due veri e propri marchi di fabbrica del proprio autore che dopo tanti anni tornano a funzionare a dovere.
In conclusione The Visit incarna tutto ciò che il talento del proprio director aveva mostrato nei momenti migliori della sua carriera in una dimensione più contenuta, più umile ma impreziosita dallo stesso coraggio nel sovvertire le barriere di genere e nel sorprendere lo spettatore. In fondo i ritorni insperati sono quelli che colpiscono maggiormente il cuore.

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