sabato 20 marzo 2021

ZACK SNYDER'S JUSTICE LEAGUE: REDENZIONE E RESURREZIONE TRA DIEGESI E REALE

Era l'ormai lontano 2017 quando Justice League, a distanza di alcuni mesi dalla dolorosa rivelazione dell'abbandono della regia da parte di Zack Snyder a causa del suicidio della figlia Autumn. Data la mia passione per la cinematografia di questo controverso regista, peraltro nel pieno di una tesi di laura incentrata proprio sulla sua interpretazione di Superman all'interno della quasi centenaria mitologia del primo supereroe, mi precipitai al cinema con molta fiducia curiosità, legata anche al passaggio di testimone per la postproduzione a un cineasta e creator capace come Joss Whedon. La delusione fu piuttosto palpabile, fin dalle prime sequenze.


Mi perdonerete questa introduzione molto diversa rispetto ai miei precedenti articoli ma Zack Snyder's Justice League (Zack Snyder, 2021) rappresenta un'eccezione non solo all'interno del genere di pertinenza, dei blockbuster americani o del rapporto tra professionisti e fandom; rappresenta in primis qualcosa di molto personale per il suo autore, l'intero cast coinvolto nella sua travagliata produzione e persino per un semplice spettatore come me, che già in quel remoto periodo post-visione in sala cercava di esorcizzare il rammarico personale in una quanto più possibile oggettiva disamina di un lungometraggio dal quale trasparivano soltanto i resti, le rovine del cinema sia del director di 300 (Zack Snyder, 2006), sia dell'ideatore di Buffy (Buffy the Vampire Slayer, Joss Whedon, 1997-2003). Adesso è il momento di analizzare, però, la qualità e cosa ha da dire il director's cut dell'opera, a ben quattro anni dalla sua originaria data di distribuzione.


L'ossatura narrativa, il soggetto alla base della pellicola, rispetta in gran parte quanto visto nel 2017, sebbene con numerose modifiche fondamentali per la costruzione del racconto e l'aggiunta di personaggi precedentemente tagliati. Batman (Ben Affleck) e Wonder Woman (Gal Gadot), ancora provati dalla dipartita di Superman (Henry Cavill), cercano di assemblare una squadra di metaumani che possa difendere il pianeta dalla minaccia aliena annunciata da Lex Luthor (Jesse Eisenberg). Il reclutamento procede a rilento, con la sola eccezione dell'immediato consenso di Flash (Ezra Miller), ma il risveglio di tre potentissimi artefatti, le Scatole Madri, causato dalla morte del kryptoniano e il susseguente arrivo sulla Terra del temibile esercito di parademoni guidato da Steppenwolf (Ciáran Hindis) convince anche Aquaman (Jason Momoa) e Cyborg (Ray Fisher) a unirsi al team.


Da questo brevissimo sunto, che racchiude solamente gli Eventi che si dipanano lungo le circa quattro ore di Zack Snyder's Justice League, sembrerebbe di discutere del medesimo prodotto rilasciati al cinema ma, una volta lanciato il film sul proprio schermo domestico preferito, lo spettatore si trova dinanzi a un incipit che chiarisce immediatamente la paternità dell'opera e la distanza rispetto all'infelice cinecomic del 2017. Una prima sequenza, connessa direttamente a uno dei momenti chiave di Batman v Superman: Dawn of Justice (Zack Snyder, 2016), che chiarisce fin da subito il ritorno allo stile e all'idea epica di cinema supereroistico del regista in questione. Il titanismo, la dimensione perennemente in bilico tra umanità e divinità, fragilità e alterità rispetto all'umana condizione tornano al centro della caratterizzazione degli eroi nati dai fumetti DC. Persino l'inconsueto, specie per i blockbuster, formato utilizzato dal direttore della fotografia Fabian Wagner, totalmente incentrato sulla verticalità rispetto all'orizzontalità del formato panoramico, esalta la caratura semidivina dei protagonisti di questo terzo atto della tragedia attica iniziata con L'uomo d'acciaio (Man of Steel, Zack Snyder, 2013). Come ogni eroe tragico che si rispetti, Batman e soci vengono costretti da un Fato perlopiù avverso ad affrontare un percorso di presa di coscienza estremamente difficile, soprattutto per il trio di personaggi che non hanno potuto beneficiare degli effetti salvifici del sacrificio di Superman. Cyborg, Flash e Aquaman appaiono dunque come anime disperse, incapaci di trovare un proprio posto nel mondo e dilaniati da un comune rapporto a base di lutti e incomprensioni con i genitori: tre orfani di madre che, privi della luce irradiata dal faro Kal-El, vagano smarriti in un mondo a cui non sembrano appartenere.


Victor Stone, in particolare, diventa in questa versione del film non solo l'esempio più fulgido di questo gruppo di reietti, bensì anche il cuore di una delle grandi novità rispetto alla precedente filmografia snyderiana. Pur non avendo mai disdegnato una certa partecipazione emotiva nei confronti dei propri personaggi, il cineasta statunitense aveva spesso dato vita a figure più simboliche che realmente umane, delle allegorie viventi perfettamente aderenti al costante rimando verso la pittura e le sacre rappresentazioni delle sue inquadrature. Il suo ultimo lungometraggio, recuperando il notevole impatto emotivo messo in scena nel precedentemente menzionato primo capitolo della trilogia targata DCEU, mostra invece una costruzione dell'apparato emozionale, del background dei suoi eroi che diventa colonna portante dell'opera, relegando al sottotesto la simbologia messianica e mitologica. Cyborg, al netto del proprio corpo quasi completamente antropico e grazie anche alla sentita interpretazione di Fisher, regala allo spettatore il ritratto di un giovane uomo trasformato suo malgrado in uno di quei semidei che ho menzionato, incapace di accettare la propria condizione di diverso e, soprattutto, il concorso di colpa nella dipartita della madre, che tramuta spesso in risentimento verso un padre assente e il cui unico gesto d'amore pare essere stato proprio l'averlo reso un freak. Tutta la gravitas di questo novello Frankenstein (mi riferisco in primis alla versione del mostro realizzata da James Whale) risultava solamente accennata nel montaggio del 2017 e quasi unicamente per merito dell'affinità di Whedon nei confronti di tale tematica; in questo caso invece esplode in tutta la sua potenza empatica, rendendo quanto mai evidentea qualunque spettatore l'importanza per la settima arte della forma, in particolare l'editing.



Quando si parla di forma in un lungometraggio firmato Snyder ecco che questa si tramuta in parola chiave sia per i detrattori, che per i fan. La pellicola in essere si pone, per quanto concerne tale aspetto, un'interessante sunto delle due "fasi" che hanno contrassegnato la carriera del cineasta di Green Bay, complice probabilmente sia una certa maturazione raggiunta che la possibilità di assistere a un montaggio del tutto privo di freni inibitori dalla produzione. Da un lato tornano le manipolazioni ritmico-temporali tipiche dei primi lavori, soprattutto 300 e Watchmen (Zack Snyder, 2009), con un una riduzione dell'uso della camera a mano che aveva caratterizzato invece i precedenti capitoli della trilogia su Superman (con una piccola eccezione sul finale); dall'altro, però, emerge una compostezza dei movimenti di macchina, un'attenzione per la costruzione dell'atmosfera, del carico emozionale delle immagini e una dilatazione della diegesi quasi inedite per il suo cinema. La durata di ben quattro ore non nasce da un eccessivo ricorso al rallenti (come sicuramente affermerà la nutrita schiera che ostinatamente bersaglia il regista come il peggior criminale nazista), bensì da un equilibrio imperfetto e affascinante al tempo stesso tra il desiderio di fornire una personalità ben definita ai protagonisti (e persino agli antagonisti) e una scelta totalmente formale di creazione di un quadro d'insieme fortemente epico tramite attese, silenzi, God's Eye view e sequenze che rallentano fino a diventare veri e propri affreschi pompeiani su schermo. Un crescendo che sa prendersi i propri tempi e i propri spazi, resi ancor più incalzanti da un commento musicale estremamente aderente alle immagini da parte di Junkie XL, tanto da rendere finalmente giustizia a un momento che ha segnato, nel corso degli anni Novanta, la storia del fumetto, come la resurrezione di Superman. Un ritorno alla vita totalmente opposto a quello affrettato e freddo visto nel 2017; un ritorno alla vita scandito dalla sempiterna lotta tra umanità e alterità che grava sullo spirito di Clark Kent fin da Man of Steel ma che si risolve tra le maglie del potere scaturito dall'abbraccio delle donne della sua vita umana. Le pie Lois e Martha che accolgono il salvatore dal sepolcro per riportare finalmente luce e speranza a un'umanità orfana. 



Lutto e perdita permeano nell'arco di tutta l'opera le azioni, i sentimenti, i volti e persino i gesti di ogni singolo personaggio messo in scena. Lutto e perdita permeano in fondo anche la genesi e la travagliata storia di questo Justice League ma, allo stesso tempo, a emergere dalle tenebre della morte è, insieme al campione dei supereroi, la fiducia nel prossimo, quella capacità di resistere ai colpi e alle tentazioni di Male per poter fare del Bene, la speranza in un domani migliore. Tutte sensazioni anticipate dall'emozionante discorso di Bruce Wayne nel corso del funerale per quell'uomo/Dio che aveva odiato prima di amare e che diventano un cortocircuito incredibilmente toccante quando i titoli di coda riportano un semplice, conciso "For Autumn". Forse è questa la più autentica chiave di lettura di una trilogia intera, un tortuoso, lungo percorso di redenzione reso possibile dall'amore di padri, tutt'altro che perfetti, verso dei figli lasciati soli prematuramente.