martedì 20 novembre 2018

HARD BOILED: IL CULMINE DEL CINEMA DI JOHN WOO PRE-HOLLYWOOD

Per più di un decennio, tra la seconda metà degli anni Ottanta e la fine del millennio, il cinema action ha trovato la sua incarnazione più pura, capace di mettere d'accordo ogni tipo di spettatore e in qualsiasi parte del globo, in John Woo, autore di Hong Kong il cui linguaggio è ancora oggi ben radicato all'interno della stragrande maggioranza delle pellicole d'azione. La carriera di questo celebre regista potrebbe essere suddivisa in almeno tre macrosequenze, legate principalmente alle realtà produttive nelle quali si è trovato a lavorare: in particolare mi riferisco al trasferimento dalla madrepatria a Hollywood negli anni Novanta e il successivo ritorno a casa dopo sei lungometraggi americani. Oggi ho deciso di proporre all'attenzione l'ultimo film girato nell'ex colonia britannica prima del grande salto negli USA, Hard Boiled, diretto nel 1992 con buon successo in patria, anche se inferiore rispetto alle previsioni, ma soprattutto un vero e proprio boom in Occidente, dove riesce persino a surclassare il mito creatosi attorno a The Killer (1989).

Come in molti dei film di Woo protagonista è l'attore Chow Yun-Fat, stavolta nei panni non di un fuorilegge ma di un integerrimo sergente di polizia, Yuen detto Tequila, invischiato in un caso di contrabbando di armi. Nel tentativo di smascherare i propri bersagli l'uomo origina una sparatoria all'interno di una sala da tè con l'unico risultato di provocare la morte del suo collega e amico Benny insieme a quella di un infiltrato. Mentre il superiore del poliziotto tenta, invano, di allontanarlo dalla vicenda questi tenta di sorprendere i criminali all'interno di una fabbrica nella quale Johnny Wong (Anthony Wong), principale rivenditore clandestino di armi della città, ha appena eliminato la banda di zio Hoi. Nell'occasione Yuen si trova faccia a faccia con Alan (Tony Leung), astro nascente del crimine che si rivela in realtà un altro agente infiltrato nella malavita. I due si troveranno a dover collaborare per porre fine alle trame di Wong.

Quasi come a voler presagire il suo imminente spostamento verso una realtà produttiva e artistica completamente diversa rispetto a quella nella quale si è formato, John Woo crea attraverso Hard Boiled una sorta di summa del proprio percorso cinematografico, specie per quanto concerne quel periodo d'oro iniziato con A Better Tomorrow (1986). La scelta di porre sotto i riflettori un tutore della legge al posto di un criminale non modifica né la forma, né la poetica del regista, dimostrando ancora una volta come il confine etico tra i due fronti sia in realtà molto sottile, specie in frangenti di guerriglia urbana come le sparatorie tanto care a quest'ultimo. Proprio come nei precedenti lungometraggi non mancano i marchi di fabbrica dell'autore originario di Hong Kong, in primis i celeberrimi ralenti che, abbinati a un sapiente utilizzo del montaggio, conferiscono all'azione messa in scena un'essenza musicale, ritmica che le accomuna più a delle danze, delle coreografie rispetto a delle brutali uccisioni a suon di proiettili. Persino la completamente irrealistica onnipresenza delle stesse pallottole assume un ruolo chiave nel marcare la natura rarefatta, poetica delle sequenza action di Woo, in contrapposizione al tradizionale linguaggio in prosa del genere e del cinema narrativo classico in toto. Per il cineasta asiatico il racconto sembra dipanarsi maggiormente tra le traiettorie, i voli e il ritmo scandito dagli stacchi di montaggio delle suddette, lunghissime rappresaglie a suon di pistole e fucili che non nei dialoghi, i quali finiscono per divenire strumenti didascalici atti solamente a ribadire per l'ennesima volta ciò che già viene affermato con chiarezza dalla cinepresa, dalle armi da fuoco e dai corpi. Una impostazione narratologica dunque ben più affine a realtà teatrali quali l'intermezzo o la pantomima che non al romanzo, fonte di ispirazione principale per la narrazione del cinema classico, distaccandosi in tal senso dalla tradizione del proprio genere e non solo.
Persino dal punto di vista della poetica Woo resta ancora una volta fedele a se stesso e quindi unico all'interno degli schemi della classicità: l'amore tra il protagonista e la sua donna, elemento cardine della narrazione hollywoodiana, viene messo in secondo piano, quasi accennato solamente come specchietto per le allodole o per evitare interpretazioni omoerotiche, in luogo di un'analisi fortemente emotiva dell'amicizia virile, del legame che unisce due uomini all'interno di ambienti estremamente codificati dall'esaltazione del testosterone e dalla rimozione forzata degli slanci affettivi. Tequila e Alan non rappresentano solamente luci e ombre del mestiere del poliziotto, perennemente in bilico tra bene e male, ma anche due uomini profondamente soli, estranei a milieu che gli tarpano le ali e li costringono a condurre vite miserabili, sempre a rischio e nelle quali è impossibile intravedere una luce (proprio ciò che afferma di sognare il personaggio di Tony Leung). Diventa dunque evidente come l'intera trama a sfondo criminale e persino l'efficace analisi del dramma vissuto da tutti gli agenti sotto copertura non siano altro che traiettorie, variazioni utili al destino per poter mettere in contatto queste due esistenze tanto diverse quanto simili; un uomo e il suo riflesso in uno specchio costituito dal modo in cui affronta la realtà di tutore della legge (uno sfrontatamente, alla luce del sole, mentre l'altro nel buio, nascosto dietro infinite maschere). Il doppio, quella figura tanto cara a Hitchcock, De Palma ma anche allo stesso Woo, affascinato da esso dai tempi di The Killer a tal punto da girare negli Stati Uniti un'opera seminale in tal senso, Face/Off (1997).

Per quanto sembri paradossale per chiunque non mastichi la filmografia di questo autore o abbia delle riserve sul cinema action in genere, Hard Boiled rappresenta un abisso gnoseologico e linguistico circa le possibilità espressive e formali offerte dalla padronanza dei canoni, dalla capacità di ribaltarli e dalla visionarietà di un regista. Se si dovesse sintetizzare in circa due ore il John Woo pre-Hollywood direi che sarebbe piuttosto esaustiva la visione di questo film.

giovedì 15 novembre 2018

DEATH NOTE: LA CRISI DELL'UOMO CONTEMPORANEO NELLA SERIALITÀ ANIMATA

Fino a oggi mi sono sempre occupato solamente di lungometraggi, con l'unica eccezione rappresentata dalle prime due stagioni di Daredevil (Drew Goddard, 2015-), eppure adesso mi preme porre l'accento per la prima volta su un prodotto seriale animato, per la precisione uno degli anime giapponesi più noti anche in Europa: Death Note (2006-2007). Diretto da Tetsuro Araki questo adattamento del celebre manga omonimo (2003-2006) ideato da Tsugumi Oba e illustrato da Takeshi Obata rappresenta per me un ottimo banco di prova con questo tipo di produzioni (solamente nella mia tesi magistrale ho avuto l'occasione di analizzare numerose serie animate, anche se in quel caso di origine statunitense) ma soprattutto un'opera che dopo più di dieci anni dalla sua prima, trionfale messa in onda diventa sempre più attuale.

Protagonista dei trentasette episodi che costituiscono il serial è Light Yagami, studente modello nipponico dotato di un acume tale da aver aiutato più volte la polizia, all'interno della quale svolge un ruolo di rilievo suo padre, a risolvere casi intricati. La monotonia della quotidianità del ragazzo viene spezzata dal ritrovamento, apparentemente casuale, di un quaderno chiamato Death Note: una volta raccolto il giovane ne diventa proprietario e così conosce Ryuk, uno shinigami (divinità della morte) che ha lasciato cadere il suddetto quaderno sulla Terra. Questi spiega al giovane che l'oggetto rappresenta lo strumento tramite il quale i suoi simili possono uccidere gli esseri umani semplicemente scrivendovi il nome, a patto di conoscerne anche il viso. Ryuk spiega al nuovo possessore del Death Note le regole principali del suo utilizzo e Light decide di sua iniziativa di farne un uso tutt'altro che banale, ossia di renderlo lo strumento per cambiare il mondo uccidendo tutti i criminali del mondo. L'escalation di morti di questo tipo di persone finisce per preoccupare le autorità di tutto il globo, a tal punto da costringerle ad affidarsi a un misterioso investigatore del quale nessuno conosce la vera identità ma soltanto il nickname Elle. Questi si rende conto immediatamente che dietro alle uccisioni si cela una sola, diabolica mente e arriva addirittura a sospettare velocemente proprio di Light dando inizio a un'estenuante gara di astuzia tra i due.

Sebbene sia evidentemente distante dagli standard di longevità di gran parte delle più note serie animate nipponiche Death Note consta di una impronta narratologica molto forte e dunque soffermarsi oltre sul dipanarsi del racconto in esso messo in scena rischia di corrompere irrimediabilmente una eventuale prima visione, proprio come nei migliori thriller. Tra le numerose false piste, divagazioni e storie secondarie allestite in sede di sceneggiatura è certamente lo scontro, in certi momenti addirittura fisico, tra Light ed Elle il cuore dell'anime. Nonostante si trovino, specie inizialmente, su due versanti opposti è evidente l'ambiguità relativa alle presunte differenze che renderebbero il primo un criminale e l'altro un paladino della giustizia: entrambi agiscono spinti principalmente dal perseguimento di un proprio concetto di giustizia, sia l'uno che l'altro perseguono la caccia al nemico con metodi che sfociano quasi sempre nell'illegalità e forti di personalità estremamente peculiari finiscono per creare dei solchi di solitudine tracciati dalla diffidenza nei loro riguardi da parte anche delle persone più vicine. Non è un caso che questa coppia di nemici finisca con il collaborare in nome di una caccia al colpevole che assume connotati mitologici, simili alla lotta contro il male dei protagonisti di Dracula di Bram Stoker (Bram Stoker's Dracula, Francis Ford Coppola, 1992); una crociata tanto estenuante da costringere che si ritiene dalla parte del bene a perdere quasi ogni certezza etica. Esemplare di tale esiguità nella distinzione tra giusto e sbagliato è proprio la scelta di rendere protagonista delle vicende narrate Yagami, un ragazzo in piena fase di maturazione che, soggiogato dall'enorme potere ricevuto, finisce per crescere divenendo un adulto completamente avulso ai legami e ai sentimenti umani, sprezzante dei vincoli della società umana a tal punto da ritenersi un dio, un essere al di sopra dei concetti mortali di morale e asservito solamente a un cocktail di giustizia integralista ed edonistica volontà di affermare la propria intelligenza su quella degli altri uomini. Light appare una personificazione esemplare di una lettura apocalittica dei concetti di oltreuomo e volontà di potenza nietzschiani, specie per quanto concerne proprio l'indifferenza verso i limiti sociali e morali di quell'essere umano nel quale ormai non si riconosce più.

A ben vedere anche Elle si dimostra tenacemente avulso all'assetto socio-politico umano: non rivela la propria identità, vive in una sorta di isolamento autoimposto che lo esclude da ogni gruppo umano e intrattiene legami con il prossimo puramente formali o di convenienza per la risoluzione del rompicapo Kira, provocando in tal mondo l'incredulità o addirittura l'indignazione degli altri addetti alla cattura del killer di criminali. Il protagonista e il suo rivale costituiscono dunque due facce della medesima moneta, due esistenze profondamente sole e incapaci di trovare una definizione certa della propria essenza, perennemente in bilico tra l'umano e l'oltreuomo. Una declinazione simbolica e corporea di quella frammentazione dell'io che costituisce la condizione esistenziale tipica dell'uomo contemporaneo, la stessa portata sul grande schermo con straordinaria capacità immaginifica ed epistemologica da cineasti quali Christopher Nolan, David Fincher e soprattutto Michael Mann, la cui filmografia risulta costantemente incentrata proprio sul tema del doppio e che nel 1995 aveva diretto Heat - La sfida (Heat), apoteosi di tale riflessione resa concreta, palpabile dallo scontro tra Robert De Niro e Al Pacino, i cui personaggi (un ladro e un poliziotto) non possono non essere considerati precursori della coppia nata dalla mente di Oba. L'incontro in un ristorante trasformatosi in una vera e propria battaglia di intelletti tra Light ed Elle ricorda fin troppo l'indimenticabile e unica sequenza nella quale i due rivali della pellicola citata si incontrano, proprio al tavolo di un ristorante. La successiva introduzione dei due sostituti del singolare detective, Near e Mello, non fa che aumentare il gioco dei doppi e dunque confermare l'importanza della scissione identitaria del soggetto all'interno del mondo contemporaneo, incapace ormai di poter offrire agli spettatori persino semplici esempi di eroe e antagonista da cinema classico.

Forte di una complessa riflessione sulla natura dell'uomo in un contesto cronologico e sociale come quello attuale, sul concetto morale di giustizia in tempi tanto ambigui, tanto tumultuosi da decretare il successo politico e personale di figure per certi versi non troppo distanti dalle idee di Kira, Death Note rappresenta un'opera di particolare fascino all'interno dell'universo degli anime, anche in virtù di una impostazione formale decisamente debitrice del linguaggio cinematografico, come dimostrano le potentissime sequenze musicali nelle quali Light decreta la morte del prossimo con una gestualità da direttore d'orchestra, in sincrono perfetto con le straordinarie composizioni originali di Yoshihisa Hirano e Hideki Taniuchi, così come gli split screen in pieno stile Brian De Palma in alcuni dei momenti più tesi dello scontro Kira-Elle.

 

mercoledì 14 novembre 2018

GOODBYE DRAGON INN: UN COMMIATO AL NOVECENTO

Alle soglie del terzo millennio, per la precisione nel 2003, il taiwanese Tsai Ming-liang, attivo dai primi anni '90, realizza una vera e propria lettera d'addio a modo di intendere il cinema prettamente novecentesco e analogico, come se fosse già pienamente consapevole di trovarsi all'interno di una rivoluzione in divenire ma ormai scoppiata. Goodbye Dragon Inn, questo il titolo della pellicola, ottiene immediati consensi da parte della critica, venendo peraltro premiato anche al Festival di Venezia, eppure ancora oggi non gode di una distribuzione italiana ufficiale e per questo resta un prodotto estremamente di nicchia persino per gli appassionati della settima arte di matrice asiatica o comunque d'essai.

Come da tradizione per l'autore di Che ora è laggiù? (2001) l'esile traccia narrativa del film si riduce a una sorta di affresco che immortala le ultime ore di vita del cinema Good Fortune di Taipei, all'interno del quale viene scelta come ultima pellicola da proiettare il classico wuxia Dragon Inn (1967) di King Hu. Privo di un vero protagonista il racconto segue i non molti spettatori di questo ultimo spettacolo mentre vagano per l'edificio ormai in malora, qualcuno alla ricerca di prestazioni sessuali omoerotiche mentre addirittura due degli interpreti del film in programmazione assistono con nostalgia a quel loro glorioso passato.

Certamente apprestarsi alla visione di Goodbye Dragon Inn con l'aspettativa di trovarsi dinanzi a una narrazione di matrice classica, ossia rintracciabile nella costruzione tipica del romanzo ottocentesco, significa ritrovarsi estremamente spiazzati poiché di tutto ciò non vi è traccia in tutta la filmografia di Tsai e quest'opera non costituisce un'eccezione. Ciò a cui assiste lo spettatore è a tutti gli effetti un commiato nei confronti del secolo scorso e in particolare della sua concezione della settima arte attraverso un impianto formale costituito da una sequela di piani sequenza molto lunghi, spesso sconnessi da un punto di vista meramente cronologico, e privi quasi completamente di commenti musicali o dialoghi. Se proprio possiamo rintracciare una colonna sonora (badate bene che per colonna sonora si intende l'intero comparto audio del film e non soltanto la parte musicale) che possa tendere a una colonna musica allora questa sarebbe costituita dai dialoghi e dai brani provenienti da Dragon Inn, inseriti all'interno della pellicola a un volume solitamente riservato alle parole proferite dai personaggi principali della diegesi proprio per fare del lungometraggio proiettato uno dei personaggi stessi che popolano il Good Fortune. Proprio la sala viene messa in scena dal regista come un rudere, un edificio fatiscente che, anche grazie a un sapiente utilizzo dell'oscurità, ricorda le case infestate tipiche degli horror gotici e così i suoi frequentatori, sempre silenziosi, in movimento da una stanza all'altra quasi senza una meta o un vero scopo, assumono la sostanza di spettri, entità fantasmatiche che abitano un luogo in cui ormai la vita è assente. Non vi è più vita in questa sala cinematografica non perché sia davvero soggetta a una maledizione ma semplicemente perché l'idea stessa di visione dei film davanti a un grande schermo, insieme a centinaia di altre persone, pertiene a un secolo ormai concluso. La visione collettiva secondo Tsai è defunta insieme al Novecento per lasciare spazio ad altre forme di consumo del prodotto filmico, quasi ad anticipare l'attuale proliferazione dei dispositivi mobili come tablet e smartphone sui quali una larghissima fetta dell'utenza tende a godere del cinema, privandosi e privando la stessa settima arte di quelle modalità che un tempo erano insite nell'esperienza del cinematografo.

Come una vera profezia Goodbye Good Inn anticipa la deriva attuale di quello che molti studiosi chiamano cinema 2.0 o postcinema, ossia quella condizione per la quale l'esperienza della visione dei film oggi prescinde dalla originaria essenza collettiva all'interno di un edificio specificatamente adibito a questa funzione in favore di un rapporto singolare dello spettatore con l'opera cinematografica che può avvenire in qualsiasi luogo, grazie ai dispositivi portatili di ultima generazione e alla digitalizzazione delle pellicole stesse. Una riflessione portata avanti da un lungometraggio di raro rigore formale del 2003, ancora prima che un pioniere quale Michael Mann mostrasse come si potesse lavorare a Hollywood senza il vecchio simbolo della tecnologia analogica, la celluloide

venerdì 9 novembre 2018

SHAME: LA VERGOGNA DEL VUOTO NELLE IMMAGINI CONTEMPORANEE

Se oggi Michael Fassbender è un divo riconosciuto in tutto il mondo, amato sia dalle donne che dagli uomini, lo deve certamente a blockbuster come la saga degli X-Men o alla folgorante apparizione in Bastardi senza gloria (Inglorious Basterds, Quentin Tarantino, 2009) ma il suo talento trova una vera consacrazione internazionale nel 2011 con Shame, seconda opera dell'artista Steve McQueen con il quale aveva già collaborato per Hunger (2008). Nonostante il contenuto controverso e soprattutto le continue scene di nudo, persino integrali, il film si guadagna immediatamente il plauso della critica e un seguito da cult movie tra il pubblico, rendendo l'attore la star che tutti conosciamo e il regista inglese uno dei più apprezzati a livello mondiale.

La pellicola segue l'inesorabile decadimento di Brandon (Michael Fassbender), impiegato di successo in un'azienda di New York che dietro un'apparente esistenza invidiabile, scandita da una routine quasi robotica, nasconde una dipendenza incontrollabile verso il sesso, la masturbazione e la pornografia. Nella sua vita non c'è spazio per affetti o relazioni reali, solo momentanei incontri carnali e autoerotismo spinto verso perversioni sempre più estreme. Il flebile equilibrio dell'uomo viene definitivamente incrinato dall'arrivo a casa sua della sorella Sissy (Carey Mulligan), cantante evidentemente afflitta da una depressione accentuata dalla freddezza del fratello.

Più che il sesso, il cuore, la parola chiave della seconda opera di McQueen è "pornografia". Shame non racconta il rapporto di un uomo con il sesso o la ricerca di sempre nuovi piaceri; certo tutto questo trova un suo importante spazio ma ciò che il regista mostra (sottolineo mostra, verbo fondamentale all'interno del film) è l'inesorabile trasformazione di ogni soggetto in oggetto, in feticcio da acquistare senza difficoltà, consumare e gettare via dopo l'uso. Brandon è un uomo profondamente solo, ne è consapevole e dai litigi con la sorella si capisce come nel passato dei due qualcosa li abbia portati a una condizione emozionale gravemente deficitaria, così pur di evitare di scontrarsi con una sofferenza profonda al suo interno non può fare altro che affogare in una spirale di continua gratificazione erotica di donne-oggetti (a un certo punto persino un uomo) con le quali non ha mai veri rapporti sessuali. Non vi è complicità con questi partner occasionali, non sono visti dal protagonista come esseri umani e dunque rappresentano solamente l'ennesimo momento di masturbazione, non dissimile dalle quotidiane "sedute" nei bagni di casa o dell'ufficio. Il cineasta inglese sottolinea proprio la mancanza di umanità, la dimensione feticistica e consumistica della sessualità di Brandon e della sua intera esistenza con un ricorso continuo a piani sequenza estremamente distaccati emotivamente dal contenuto delle immagini, quasi a ricreare l'assenza di montaggio tipica della pornografia a basso costo, nelle quali domina la composizione il corpo di Fassbender, perennemente in scena e a fuoco mentre tutto il resto diventa solo uno sfondo opaco. Esattamente come nella visione edonistica del personaggio la macchina da presa sembra percepire soltanto la statuaria fisicità dell'uomo, tanto da mostrare allo spettatore senza alcuna remora persino il membro per diversi secondi, ma l'entrata in scena di Sissy, l'unico reale affetto di Brandon, rivela con evidenza le fragilità del protagonista e l'autore di 12 anni schiavo (12 Year Slave, 2013) lo mette in risalto attraverso un magistrale ricorso a superfici riflettenti che mostrano chiaramente il suo 'io frammentato, la sua vergogna. La vergogna proprio nei confronti di una esistenza fatta solo di superfici, di oggetti e sensazioni effimere per mascherare un vuoto incolmabile di legami, sentimenti, umanità. La vergogna per una contemporaneità così indissolubilmente legata a una filosofia pornografica che consuma persino chi all'apparenza risulta un vincente, uno "responsabile" come si definisce con finta fierezza Brandon per denigrare l'emotivamente instabile sorella.

Dietro la tematica controversa e quasi pornografica di per sé per una società superficialmente così puritana Shame nasconde dunque un ritratto devastante dell'uomo contemporaneo, prigioniero in una gabbia le cui sbarre sono le infinite immagini scevre di significante delle quali si circonda.

lunedì 5 novembre 2018

VIOLENT COP: IL NICHILISTICO ESORDIO ALLA REGIA DI UN COMICO

Da circa venti anni Takeshi Kitano, noto anche come Beat Takeshi, è considerato uno dei più importanti autori del cinema giapponese, amato da molti cinefili europei e presenza fissa ai festival più prestigiosi; eppure la sua carriera artistica comincia come attore prettamente comico e showman televisivo di grande successo in patria per produzioni demenziali. Soltanto nel 1989 e in fondo per una circostanza imprevista (l'abbandono di Kinji Fukasaku) il futuro cineasta esordisce dietro la macchina da presa per un film del quale avrebbe dovuto "solo" interpretare il protagonista: Violent Cop. Una pellicola agli antipodi rispetto all'immagine televisiva scanzonata del suo autore che riscuote buoni incassi e critiche favorevoli ma che soprattutto permette al mondo di far conoscere un nuovo Kitano, meno Beat e consapevole di avere talento tanto davanti quanto dietro la macchina da presa.

Azuma (Takeshi Kitano), protagonista assoluto del film, è un poliziotto di lungo corso, tra i pochi a non farsi corrompere dalla malavita locale ma anche un uomo estremamente violento, pronto a usare qualsiasi mezzo pur di punire i criminali e dedito a vizi tutt'altro che eroici. Dopo aver riportato a casa sua sorella da un ricovero per disordini mentali si trova invischiato in un caso di droga nel quale scopre avere un ruolo molto importante un suo collega e un potente boss, reso inarrivabile o quasi dalla protezione di un sicario chiamato Kiyohiro.

Non è esattamente il tipo di lungometraggio che chiunque avesse conosciuto Kitano con programmi televisivi come Takeshi's Castle si sarebbe aspettato questo Violent Cop, specialmente considerando che è stato proprio quest'ultimo a modificarne la sceneggiatura per eliminare gran parte dei momenti comici inizialmente previsti. L'esordio alla regia dello showman nipponico recupera e adatta alla propria sensibilità e all'ambientazione locale la rivisitazione che la Hollywood Reinassance aveva riserbato al poliziesco e al noir: mi riferisco in particolare al lavoro svolto da Don Siegel con Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo! (Dirty Harry, 1971), vero e proprio creatore di un tipo di neo-noir in cui il protagonista è un poliziotto che piega al suo volere la legge pur di farla rispettare. Azuma, proprio come l'iconico personaggio interpretato da Clint Eastwood, si avvicina molto più al concetto di giustiziere rispetto a quello di agente delle forze dell'ordine, ossia di un uomo che in solitaria combatte il crimine utilizzando i suoi stessi metodi poiché si rende conto di lottare contro nemici che non rispettano alcuna remora etica e che riescono a infettare persino le istituzioni con i loro infiniti tentacoli. L'atteggiamento violento e anarchico dell'agente dal volto monolitico di Kitano assume dunque l'aspetto di una diretta conseguenza della milieu nella quale è costretto a vivere, fin troppo corrotta per poter pretendere che la polizia rispetti le regole, ma è anche evidente come l'uomo provi un personale piacere sadico nel ritorcere verso assassini, stupratori e spacciatori i loro stessi metodi violenti. Il mondo ripreso dall'autore giapponese appare completamente privo di luce, completamente invischiato in un'oscurità impenetrabile nella quale persino le uniche due figure (apparentemente) innocenti finiscono per subire un destino degno della grande tragedia attica (la sorella di Azuma) o per rivelarsi in realtà i più corrotti (il collega del protagonista che si finge ingenuo e idealista per l'intero corso del film).

A una costruzione narrativa e poetica tanto coraggiosa quanto nichilista Beat Takeshi abbina una ricerca estetica altrettanto personale. Fin dalla sequenza di apertura il regista mostra quanto sia importante nella sua cifra stilistica il piano sequenza, la dilatazione temporale delle inquadrature che, coadiuvata da una ben calcolata povertà di commento musicale, crea un effetto straniante nello spettatore adatto ad amplificare la natura perturbante della storia messa in scena. Violent Cop non spettacolarizza l'azione fino a renderla assimilabile alla danza come John Woo perché non esiste morale o empatia nel suo universo. Il male ripreso dall'autore nipponico è banale, squallido e privo di qualunque fascino e per questo sceglie di portarlo sul grande schermo con movimenti di macchina minimi, persino in scene estremamente cinetiche come l'inseguimento a piedi e in auto tra le strette vie della città. L'unica eccezione a questo assetto linguistico rigoroso risiede, non a caso, nell'involontaria uccisione di una ragazza durante lo scontro tra Azuma e Kiyohiro, un momento di una tale oscurità e violenza grafica da riassumere in sé l'intero universo tenebroso della pellicola e i primi tratti distintivi di un autore in divenire.

giovedì 1 novembre 2018

SINISTER 2: IL DIABOLICO VIZIO DELL'ESPLICITAZIONE

Nel 2012 Scott Derrickson aveva mostrato attraverso il suo Sinister quanto l'horror a stelle e strisce fosse ancora vivo, libero dall'overdose di remake dell'inizio del terzo millennio e capace di leggere le derive contemporanee della settima arte e del complesso rapporto tra spettatori e immagini. Un film del quale ancora non viene riconosciuto il pieno potenziale ma che aveva comunque incassato molto bene al box office, permettendo al suo regista di entrare nelle grazie dei Marvel Studios. Ovviamente un successo del genere non poteva non stuzzicare l'interesse del produttore Jason Blum verso un seguito e così nel 2015 è giunto nelle sale Sinister 2, co-scritto ancora una volta dall'autore di Doctor Strange (2016) ma diretto da Ciaran Foy. A differenza del suo predecessore il lungometraggio ottiene discreti incassi al botteghino ma viene demolito dalla critica in tutto il globo, probabilmente anche per le alte aspettative dovute ai risultati sorprendenti della pellicola con protagonista Ethan Hawke.

Ambientato cronologicamente in un periodo non troppo futuro rispetto al prequel il film promuove al ruolo principale il personaggio del vicesceriffo anonimo (James Ransone) che aveva tentato di aiutare il romanziere Ellison Oswalt a venire a capo delle misteriose stragi familiare legate al culto di Bughuul, un demone che attraverso la rappresentazione della propria immagine entra in contatto con i bambini dei quali divora progressivamente l'anima. Proprio a causa dell'aiuto offerto al deceduto amico l'uomo ha perso il proprio lavoro e si mantiene come investigatore privato mentre continua a indagare sulla scia di morte causata dall'entità maligna, tentando anche di bloccarla dando fuoco alle case in cui sono avvenuti i delitti. Le sue indagini lo portano a entrare in contatto con Courtney (Shannyn Sossamon), giovane madre fuggita dal marito violento per salvaguardare i suoi due figli Dylan e Zach. Sebbene la donna sappia di vivere sulla scena di un efferato crimine è totalmente all'oscuro delle implicazioni demoniache dietro a esso e soprattutto del rapporto creatosi tra i due bambini e le presenze di quelli soggiogati in passato da Bughuul, pronti a trasformare uno dei due nel prossimo strumento di morte di quest'ultimo.

Molto spesso nella creazione di seguiti, siano essi cinematografici, televisivi o persino videoludici, una delle direzioni più praticate può essere riassunta nell'assioma "the bigger the better", ossia in una riproposizione sostanziale dei motivi estetici e narrativi del predecessore con un innalzamento quantitativo degli stessi. In parole povere una sorta di remake ingigantito e ambientato diegeticamente in un diverso spazio cronologico. Sinister 2 possiede il merito di tentare una strada differente, di cercare di affrancarsi dalla formula del prequel ma il grave difetto di fermarsi a metà del tragitto. Non essendo più presente la figura centripeta dello scrittore ossessionato dalla fama e dagli omicidi il film di Foy sembra voler percorrere il sentiero della discesa nella follia da un duplice punto di vista: quello da horror fantastico, quasi in stile Del Toro, legato alla fascinazione dei figli di Courtney verso le lusinghe dei bambini di Bughuul, e quello più terreno del mondo degli adulti, il quale si muove su territori più attinenti al thriller in bilico tra la detection dell'ex vicesceriffo e la fuga della già citata donna da un consorte orco, capace di utilizzare tutta la propria influenza economica e politica pur di continuare a seviziare la propria famiglia. Nel delineare questa duplice natura la pellicola perde naturalmente la compattezza del prequel, la sua capacità di agire per sottrazione e ribaltamento dei codici del genere di pertinenza ma soprattutto quella rarissima sottigliezza, raffinatezza con cui allestiva un discorso di notevole potenza metalinguistica e, in particolare, metacinematografica. In questo sequel il regista irlandese, ben conscio del potenziale emotivo e filosofico di tali tematiche, non abbandona la possibile lettura di riflessione sul cinema e sulle responsabilità morali sia di chi gira che di chi guarda e anzi amplifica la presenza di cineprese in Super 8, proiezioni, snuff movie e a essi aggiunge persino l'elemento multimediale tramite la radio, scopertosi ulteriore veicolo di contatto tra il mondo degli uomini e Bughuul. Come afferma puntualmente il protagonista il demone riesce ad agire sulla nostra realtà tramite la riproduzione della sua immagine, la proliferazione di prodotti audiovisivi che conservino traccia della sua esistenza e tramite questi riesce a sedurre le menti influenzabili delle sue vittime, i bambini. Appare chiaro l'atto di accusa o quantomeno di allerta verso la creazione di immagini violente e l'effetto di piacere smodato che possono produrre negli spettatori più giovani, un potere pornografico che privato di una adeguata educazione all'immagine, allo sguardo e alle sue implicazioni etiche ha portato a una crescente desensibilizzazione alla crudeltà e a una visione ludica della morte, come di qualcosa di estraneo alla situazione di vita quotidiana e scevra da conseguenze che affliggano quest'ultima.

Il problema di Sinister 2 risulta dunque non nelle intenzioni ma nella realizzazione, in una forma tanto mediocre e povera di scatti immaginifici da non riuscire a stare al passo delle proprie ambizioni, così come la sceneggiatura pare aver dimenticato quanto il cinema sia un'arte che racconta prima di tutto per immagini e che dunque l'ellissi verbale spesso risulta un dono, specie all'interno di una parabola metaforica e in bilico tra diversi piani del reale come la battaglia tra l'anonimo protagonista e il divoratore di bambini. Forse nelle mani di Derrickson sarebbe potuto arrivare sul grande schermo un prodotto meno titubante e più consapevole della forza delle immagini, come d'altronde dimostra la psichedelia estetica di Doctor Strange, ma non potremo mai saperlo.