mercoledì 29 gennaio 2025

NOSFERATU: DIONISIACO SALVIFICO

Pur senza seguire assiduamente le news legate al mondo del cinema o le dichiarazioni dei diretti interessati, è sufficiente una manciata di inquadrature di The Lighthouse (Robert Eggers, 2019) per comprendere quanta fascinazione nei confronti di Murnau nutra il cinema di Robert Eggers, tra i cineasti americani sotto la soglia del mezzo secolo più apprezzati dagli appassionati, sia di horror, sia di "arthouse". La perfetta chiusura del cerchio circa l'onnipresente reverenza verso il maestro tedesco non può che essere la realizzazione di un remake della sua opera più celebre, motivo per cui il 2024 si chiude negli States con l'arrivo in sala di Nosferatu, che a sua volta inaugura la stagione 2025 delle sale nostrane, con un non così scontato successo di pubblico e recensioni perlopiù positive. 


La pellicola, fedele quasi al 100% a quanto visto nel modello originario, vede la coppia di novelli sposini composta da Ellen (Lily-Rose Depp) e Thomas (Nicholas Hoult) Hutter alle prese con una forza soprannaturale che ne sconvolge le esistenze, specie quando si rivela essere in realtà il cliente con cui l'uomo deve firmare un importante contratto di vendita edile, ossia il sinistro conte Orlok (Bill Skarsgard), che intende trasferirsi dalla Transilvania a Wisburg per insidiare la giovane signora Hutter.


Sebbene gli ultimi anni cinematograficamente parlando siano contrassegnati in primo luogo dalla tendenza al remake, siano essi espliciti o nascosti dietro etichette fantasiose come reboot, requel, legacy sequel o addirittura omaggi, pare che pochi cineasti siano in grado di eseguire il compito senza scadere nella stanca reiterazione di quanto già visto o nel blando travaso di una traccia narrativa di base entro i confini degli stilemi più in voga al momento. Eggers, d'altro canto, con il suo Nosferatu mostra fin dalla sequenza d'apertura la volontà di operare una sintesi tra il rispetto, ai limiti della reverenza, nei confronti di un film che ne ha segnato fin dall'infanzia l'immaginario cinematografico e la centralità della propria poetica e del proprio stile, che chiaramente non è insensibile rispetto ad alcuni crismi del panorama attuale. La colonna musica, gargantuesca e minacciosa, così come alcune soluzioni di montaggio e l'uso insistito della profondità di campo a fini orrorifici chiamano in causa il lato più contemporaneo del genere, in special misura quella fetta che si è diffusa a partire dal successo delle prime produzioni A24 che qualcuno etichetta come "elevated horror" con una certa supponenza verso il concetto stesso di orrore filmico. Al contrario l'uso estremamente stilizzato e antinaturalistico di luci e ombre, la staticità della macchina da presa e l'attenzione nei confronti delle possibilità espressive di architetture e scenografie chiamano direttamente in causa l'operato dell'autore di Aurora (Sunrise: A Song of Two Humans, Friedrich Wilhelm Murnau, 1927), certamente con un approccio in parte postmoderno, che gioca con un repertorio di immagini ormai iconico per ottenere un effetto di raffinata nostalgia, ma al tempo stesso dettato da ragioni più prettamente narrative e poetiche.


Fin dal celeberrimo romanzo firmato Bram Stoker, Dracula e il vampiro tout court rappresentano un potente simbolo, in grado, come accade quando una creazione diventa mito, di adattarsi a innumerevoli interpretazioni, tra le quali quella più evidente fin dalle origini resta la reificazione di ciò che, in termini freudiani, si potrebbe delineare come rimosso o, come direbbe Nietzsche, dionisiaco. In un'epoca fortemente divisa tra dialettiche opposte (superficie/profondità, etica/costumi, progresso/conservatorismo ecc.) come quella vittoriana, in seno alla quale peraltro i primi vagiti letterari e artistici intorno al tema del subconscio sfoceranno negli studi della nascente psicoanalisi in territorio austriaco, un essere immortale, che si nutre del sangue dei vivi e mette in crisi qualunque appiglio razionale non può non simboleggiare l'insieme di tutto ciò che la socialità borghese e cristiana ritiene sconveniente, in primis il desiderio sessuale. Come già visto nel corso di The Witch (Robert Eggers, 2015), il regista americano mette in discussione tramite il soprannaturale le fondamenta repressive della cultura occidentale, con particolare attenzione alla situazione femminile, che subisce con maggiore forza i limiti imposti dalla società. Esempio lampante di ciò è proprio la sfera erotica, poiché nella mentalità tradizionale la donna svolge unicamente un ruolo di oggetto del desiderio maschile, finalizzato alla creazione di una famiglia, mentre le naturali pulsioni altrui vengono costantemente represse, al punto da essere addirittura considerate sintomi di malattia mentale quando espresse liberamente. Ecco che Ellen, questa volta parte attiva della relazione di Eros e Thanatos con il vampiro, diviene cuore di questo enorme insieme di spinte interiori e irrazionali che la moralità tenta di celare sotto al tappeto e in tal senso anche il finale, drammaturgicamente identico a quello di Murnau, si pone in scia alle rivendicazioni della potenza del dionisiaco nei confronti dell'apollineo di Eggers, dato che solamente attraverso la soddisfazione delle pulsioni il mondo può liberarsi dalla maledizione del desiderio represso. Persino Thomas, pur essendo privilegiato dal genere biologico, condivide con la consorte la tragica esperienza dello scontro con il Male a causa delle stringenti regole sociali, nello specifico legate alla mascolinità tossica e a una sorta di proporzionalità tra virilità e benessere economico.


Possono far storcere il naso le modalità con cui l'autore sposta tutto ciò che nella lunga tradizione di trasposizioni di Dracula è sempre stato sottotesto verso la superficie, con un didascalismo lontano anni luce dal lirismo di Herzog, ad esempio, ma che, a mio avviso, è perfettamente coerente con il cinema di Eggers, che fa proprio della reificazione del sotteso il fil rouge della propria filmografia. Nosferatu è dunque lo specchio del proprio regista, che piaccia o meno.

giovedì 2 gennaio 2025

PAST LIVES: ANIME GEMELLE MA NON IN QUESTA VITA/SOCIETÀ

In un panorama cinematografico in cui le major storiche annaspano sempre di più, sia qualitativamente, sia nei meri numeri al botteghino, oltre ai giganti dello streaming emergono anche realtà più piccole ma ricche di idee e volontà di imporsi, tra cui spicca A24. Con un'offerta che permette grande libertà ai registi e che ibrida gli orizzonti di attesa tradizionalmente associati all'arthouse da un alto, al genere dell'altro, la casa di produzione statunitense si è resa lo strumento ideale per rilanciare artisti messi in disparte da Hollywood, ma, soprattutto per dare voci a esordienti promettenti. Nelle vesti di distributore collabora anche alla prima esperienza alla regia di un lungometraggio di Celine Song, che dirige nel 2023 il semiautobiografico Past Lives, co-produzione tra Stati Uniti e Corea del Sud che, al netto di un budget di poco superiore a quello di un tipico lavoro indie, supera i 40 milioni di dollari al box office e ottiene il plauso unanime da parte della critica, condito da plurime nomination a Golden Globe e Academy Awards.


La pellicola segue, nell'arco di tre intervalli temporali di dodici anni, il rapporto tra Nora/Na Young (Greta Lee) e Hae Sung (Teo Yoo), fidanzatini di fatto nella pre-adolescenza in Corea, separati però dalla decisione dei genitori della ragazza di trasferirsi a Toronto, dove quest'ultima cambia anche nome. Proprio dodici anno dopo il trasloco intercontinentale, i due riescono a ritrovarsi grazie a Facebook e, nonostante la distanza e il lungo periodo trascorso senza parlarsi o vedersi, la complicità resta illesa, ma ormai ognuno ha una propria vita, specie la giovane, motivata a diventare una grande sceneggiatrice.


Nel cuore del suo concept drammaturgico Past Lives si inserisce senza alcun dubbio nel solco di una tradizione che annovera classici quali il ciclo della quattro stagioni di Eric Rohmer, la trilogia Before di Richard Linklater e In the Mood for Love (Wong Kar-wai, 2000) e molti altri epigoni più o meno riusciti, motivo per cui Song decide saggiamente di concentrare il proprio sguardo non sulla reinvenzione della ruota, bensì sull'offrire una prospettiva particolare e quanto mai contemporanea di questo tipo di racconto, resa possibile anche da trascorsi personali che ben si evincono da quanto accade sullo schermo. La cineasta canadese, nata però in Corea, nel mettere in scena una coppia che resta sempre in divenire, sempre sul punto di realizzare un amore che però finisce per fermarsi sempre alla potenzialità, pone l'accento su un tema che nel mondo attuale assume forse ancor più importanza rispetto agli esempi precedentemente illustrati, specie considerando le specificità di un mondo ormai fortemente globalizzato e in costante mutamento. Mi riferisco alla dialettica tra amore "romantico" e realizzazione individuale, tra abbandono al sentimento più irrazionale e contingenze quotidiane. Tutto certamente già sviscerato, fin dai tempi di Jane Austin e Goethe, ma in questo caso con i piedi ben saldi nell'era delle distanze azzerate solamente in teoria grazie a internet, i social network e i voli intercontinentali. Nora e Hae Sung, difatti, vivono il loro complicato rapporto in contemporanea alla crescita esponenziale della centralità del digitale nelle vite di tutti noi, saggiandone i grandi vantaggi, come ad esempio le videochiamate con cui si innamorano nuovamente a circa ventiquattro anni, così come i lati oscuri, dalla delusione cocente dell'impossibilità di conciliare i propri impegni nonostante l'apparente semplicità con cui ci si può spostare oggi fino al ruolo fondamentale che l'economia possiede persino nelle storie d'amore.


In maniera non dissimile da quanto visto nel mai abbastanza ricordato Like Crazy (Drake Doremus, 2011), l'autrice pone in evidenza quanto sia difficile conciliare il materialismo estremo alla base del nostro modello sociale con una lunga tradizione culturale che esalta invece la forza ben più dionisiaca dell'amore erotico, simboleggiato dal concetto coreano del inyeon a cui i personaggi del film fanno riferimento a più riprese. Un mondo in cui la paura della solitudine è il primo motore relazionale, due giovani innamorati si sposano prima del previsto per evitare che uno dei due venga espatriato e si vive in una città iconica come New York senza aver mai messo piede sulla Statua della Libertà, è in netta controtendenza con il concetto stesso di anime gemelle che si sfiorano nel corso di ogni esistenza fino ad arrivare a stare finalmente insieme e, di conseguenza, anche un'artista quale Nora trova maggiore sicurezza e aderenza al proprio io in una relazione poeticamente scialba ma indubbiamente autentica come quella con Arthur (John Magaro). Personaggio, peraltro, che permette a Song di ribaltare uno dei topoi del filone, ovvero quello del terzo incomodo, solitamente pieno di sé ed emotivamente freddo, che impedisce fino all'ultimo il ricongiungimento dei protagonisti. In questo caso, invece, lo scrittore con cui la donna vive da molti anni è l'esatto opposto, con le tante attenzioni che riserva all'amata, la sensibilità che dimostra quando Hae Sung arriva in America e persino una sorta di commento che sfonda i confini della diegesi proprio su quanto, anche solo da un punto di vista lirico, lui non abbia niente da offrire che possa rivaleggiare con il filo del destino che lega la consorte al suo primo amore. In tal senso la pellicola non schematizza la separazione tra due tipologie di sentimenti, anzi problematizza con rara delicatezza una questione che non è mai stata manichea e che lo è ancor di meno in un momento storico in cui siamo costantemente schiacciati da forze che mettono in secondo piano l'empatia e il bisogno innato che abbiamo di condividere le nostre esistenze con l'altro.


Past Lives è, dunque, il capolavoro epocale descritto dalla critica statunitense? Non per il sottoscritto, poiché ciò che difetta alla pellicola per arrivare ai medesimi livelli dei modelli precedentemente citati è una maggior personalità. In primis sul piano formale Song, pur ricorrendo a una qualità nella composizione delle inquadrature nettamente sopra la media e di grande fascino estetico, sembra trovarsi in una via media tra la fotografia straordinariamente estetizzante e sperimentale di Christopher Doyle nella filmografia di Wong Kar-wai e l'intimismo quasi documentaristico del succitato Like Crazy, tradendo probabilmente anche il fatto di essere agli esordi nell'ambito del lungometraggio. Anche la caratterizzazione dei protagonisti vive maggiormente delle straordinarie interpretazioni attoriali rispetto a una introspezione in sede di sceneggiatura, ciononostante basterebbe il piano sequenza conclusivo a rendere questa pellicola una visione imperdibile e un grande auspicio per l'avvenire di Song.