sabato 29 dicembre 2018

LOVELESS: L'ASSENZA DI UMANITÀ NELLA RUSSIA CONTEMPORANEA

Andrej Zvjagincev è ormai più che una promessa del cinema europeo e dopo l'exploit mondiale di Leviathan (2014) conferma il proprio talento nel 2017 con Loveless. L'ultimo, a oggi, film del cineasta russo ottiene un immediato successo mondiale, coronato da riconoscimenti in tutti i festival più prestigiosi, dal premio della giuria a Cannes passando per gli European Awards fino alla nomination per il miglior film straniero agli Academy. Una vera e propria consacrazione.

Ambientato nel 2012, nel pieno dei deliri per la profezia dei Maya, il lungometraggio mostra l'incrinarsi sempre maggiore del rapporto tra Zhenya e Boris, una coppia sposata prossima al divorzio. I due hanno un figlio di dodici anni chiamato Alyosha che ignorano completamente, privandolo di ogni segno di affetto e anzi costringendolo ad assistere ai loro continui litigi. Una mattina i due genitori si rendono conto che il ragazzo manca da casa e scuola da almeno due giorni e così si affidano alla polizia per rintracciarlo ma le forze dell'ordine fanno capire, senza giri di parole, che non possono e non vogliono fare niente per aiutarli e che quindi l'unico modo per imbastire una ricerca accurata ed efficiente è rappresentata da un'associazione di volontari ben organizzati. Questi ultimi si mettono immediatamente a lavoro per ritrovare Alyosha, dovendo però fare i conti anche con le continue sfuriate tra Zhenya e Boris.

Come accade sempre più spesso nel cinema contemporaneo la sequenza d'apertura si rivela un vero e proprio prologo, una sintesi di straordinaria efficace di tutto ciò che contengono i minuti successivi del film: le lunghe e silenziose inquadrature dei paesaggi innevati mescolati ai fatiscenti edifici che occupano la solitaria esistenza del ragazzo in procinto di sparire mettono in luce non solo l'estetica raffinata di Zvjagincev ma l'intera poetica sottesa alla pellicola. La quasi totale assenza di figure umane che possano animare le costruzioni di chiara origine sovietica richiama immediatamente le insistite vedute dei desolati e desolanti spazi urbani della filmografia di Michelangelo Antonioni, capace come pochi di esternare semplicemente attraverso l'occhio della macchina da presa l'horror vacui della società postindustriale in opere quali La notte (1961) e L'eclissi (1962). Persino lo squallore architettonico di edifici come la scuola di Alyosha o dell'enorme palazzone abbandonato dove amava nascondersi con il suo migliore amico abbinato alla bellezza quasi eterea delle enormi distese di bianco candido formate dalla neve sui prati e gli alberi della tundra russa riportano alla mente le violenze arrecate al paesaggio ferrarese dalle industrie e i suoi variopinti scarichi in Deserto rosso. Insomma Loveless guarda senza mai nasconderlo alla produzione del maestro italiano ma non come semplice imitazione calligrafica di matrice postmoderna, bensì per comunicare in maniera ancor più inequivocabile allo spettatore come al centro del film vi sia un vuoto, un'assenza diffusa e quasi programmatica di umanitas. I due genitori protagonisti della tragedia messa in scena, complici anche le ottime interpretazioni di Maryana Spivak e Aleksey Rozin, certamente sembrano fare di tutto per innervosire e lasciarsi odiare dal pubblico ma la verità è che in fondo rappresentano persone comuni, un uomo e una donna come ce ne sono a milioni oggi, assorbiti completamente dallo schermo dello smartphone o dal lavoro mentre creano invece un incolmabile vuoto affettivo intorno a loro. Persino il sangue del loro sangue finisce per essere continuamente messo in un angolo e riemerge nei loro pensieri solamente al momento della scomparsa ma mai per un vero sentimento di mancanza o di preoccupazione. Alyosha per sua madre è solo un errore che le ha rovinato la vita mentre suo padre pare averlo già rimpiazzato con il figlio che sta per avere dalla sua nuova compagna.
La medesima assenza di umanità all'interno del nucleo familiare composto dai tre si riflette in realtà in tutti i rapporti interpersonali che riguardano i protagonisti, dalle relazioni con i nuovi rispettivi compagni ai conflitti tra Zhenya e sua madre, così come assolutamente priva di pietas e qualsivoglia intenzione di adempiere al proprio dovere si rivela la polizia, interessata solamente a liberarsi di qualunque scomodo compito sul quale lavorare. Questo esteso oblio di qualunque forma di umanità appare una chiara accusa del regista verso l'intero apparato sociale del proprio paese, come testimoniano i frequenti riferimenti all'attualità politica veicolati da televisioni o autoradio. Sicuramente la Russia non è l'unica nazione afflitta da una disumanizzazione imperante di questi tempi ma l'insistenza della cinepresa sulle macerie della vecchia Unione Sovietica, così come la scritta sulla tuta nella sequenza finale, non lasciano dubbi sull'obbiettivo del cineasta.

Loveless alla luce di questa analisi può dunque essere considerato come una cinica quanto esteticamente impeccabile riflessione sulla condizione emozionale dell'uomo contemporaneo, dal contesto sociale più ristretto (la famiglia) fino all'universalità del mondo intero.
Un'ultima chicca: tutti i fan (come me) dei Bring Me The Horizon apprezzeranno la sequenza in auto durante la quale Boris infastidisce sua moglie alzando a palla il volume mentre si trova in esecuzione Sleepwalking, una delle hit della band di Sheffield che peraltro esprime molto bene il cortocircuito emotivo nel quale si trovano i due personaggi.

venerdì 28 dicembre 2018

INFERNO: LA FIABA SECONDO DARIO ARGENTO

Benché siano passati già sei anni dal suo ultimo film (Dracula 3D, 2012) Dario Argento resta uno degli autori italiani più riconosciuti sia in patria che nel resto del mondo, dove forse gode di una fama anche maggiore, data il solito e pessimo malcostume italico di denigrare le nostre eccellenze. Per la maggior parte degli appassionati della settima arte, così come per lo spettatore "casual", Argento è sinonimo di Profondo rosso (1975) o di Suspiria (1977) così oggi ho deciso di riportare all'attenzione una delle sue pellicole più controverse: Inferno del 1980. Concepito come secondo capitolo di una trilogia incentrata sulle luciferine Tre Madri e originata dal già citato Suspiria il film si rivela una cocente delusione per il cineasta romano sia da un punto di vista commerciale, a causa soprattutto della mancata distribuzione internazionale su larga scala, che critico, determinando una battuta d'arresto nell'affermazione mondiale dell'autore all'interno del circuito mainstream.

L'esile racconto messo in scena nel corso dei centosei minuti del lungometraggio ruotano attorno alla scoperta della leggenda delle Tre Madri, tre esseri infernali rinchiuse dall'alchimista e architetto Emilio Varelli in altrettanti edifici costruiti a Roma, New York e Friburgo. La poetessa Rose (Irene Miracle) compra da un antiquario proprio una copia del libro nel quale Varelli racconta il proprio rapporto con queste entità e si rende conto che l'antico palazzo nel quale vive rappresenta l'edificio americano nel quale è rinchiusa la Mater Tenebrarum, la più crudele del terzetto. Spaventata dalla situazione la donna chiede aiuto a suo fratello Mark, studente di musicologia a Roma, ma questi smarrisce la lettera inviatagli dalla sorella a causa della comparsa della Mater Lacrimarum (Ania Pieroni) durante una lezione. La missiva viene raccolta da Sara (Eleonora Giorgi), compagna di studi del giovane, che finisce per appassionarsi alla vicenda al punto però da essere uccisa nel suo appartamento insieme a un conoscente (Gabriele Lavia) al quale aveva chiesto protezione. Mark arriva a casa di Sara troppo tardi ma riesce a trovare alcuni frammenti della lettera di Rose che lo convincono definitivamente a raggiungere New York in cerca della sorella.

Dal mio, devo ammetterlo, piuttosto goffo tentativo di imbastire una breve sinossi di Inferno appare evidente come questi rifiuti categoricamente e fin dalla sua prima sequenza ogni pretesa di narrazione forte e di aderenza alla verosimiglianza. Se già Suspiria rappresentava una inesorabile discesa dal reale verso il sogno, o meglio l'incubo, con l'irrompere di elementi fantastici in un contesto verosimile fino a prendere il sopravvento nel suo seguito Argento abbandona definitivamente la forma narratologica classica per imbastire un percorso onirico, metaforico, ricco di suggestioni simboliche che appartengono prettamente al mondo della fiaba. Così come Cappuccetto Rosso o Hansel e Gretel, la coppia fratello/sorella formata da Rose e Mark compiono un percorso attraverso un luogo archetipico che li porta a discendere verso le viscere della Terra fino a dover affrontare un aguzzino proveniente da una dimensione altra rispetto a quella immanente, ovvero la Mater Tenebrarum e Varelli. Quest'ultimo in particolare assume il ruolo di vero demiurgo non solo di tutto ciò che accade su schermo ma persino degli ambienti nei quali si svolge l'azione, dei tempi e delle modalità della stessa, operando come un dio creatore o come un regista cinematografico. Dunque potremmo definire l'alchimista italiano un doppio dello stesso autore di Phenomena (1985), al quale lo accomuna la medesima passione per una ricerca e un lavoro creativo scevro dai vincoli imposti dai vincoli della logica e del metodo scientifico (spesso il cinema viene definito magia, proprio come molti caratteri magici sono presenti nell'alchimia), così come entrambi finiscono per dover subire in prima persona le conseguenze del loro operato, grandioso certamente ma anche doloroso (è importante ricordare quanto Argento sia stato preso di mira da attacchi moralisti per la violenza dei suoi film e anche le difficoltà vissute durante la produzione dello stesso Inferno).

Appurando la natura essenzialmente fiabesca e antirazionale della pellicola in analisi non solo perde ogni senso una critica verso le presunte incongruenze lamentate da molti detrattori ma soprattutto assume un valore tutt'altro che inutilmente virtuosistico l'enorme lavoro visuale svolto dall'autore, coadiuvato in alcune sequenze persino dal maestro Mario Bava per la creazione di alcuni effetti ottici. Proprio le influenze del regista di Terrore nello spazio (1965) risultano evidentissime nel ricorso a soluzioni cromatiche e luministiche assolutamente antinaturalistiche (si pensi alla presenza fortissima del rosso e del verde) e Argento le utilizza con grande padronanza della messinscena per evidenziare la discesa verso gli inferi operata soprattutto da Rose in una delle primissime sequenze, dato che i medesimi colori erano stati utilizzati da Bava nell'atipico peplum Ercole al centro della Terra per il viaggio nell'oltretomba del protagonista. Persino i momenti maggiormente assimilabili all'iperrealismo visivo dei gialli girati dal cineasta romano a inizio carriera presenti nel film vengono sempre traslati, privati di ogni aderenza al reale tramite inquadrature ardite come soggettive impossibili o raccordi altrettanto liberi dai vincoli di leggibilità imposti dalla grammatica classica. Molti definiscono questo linguaggio estetico barocco nella sua accezione volgarizzante di preminenza della forma sulla sostanza ma credo che nel lungometraggio il vero spirito barocco sia designato dalla vertigine di simboli e immagini provenienti dalla vastissima conoscenza del suo autore/demiurgo, alchimista capace di plasmare un piccolo universo di straripante inventiva libera dalle catene delle proporzioni di gusto classico.
Inferno è dunque l'apoteosi, la deflagrazione pura e incontrastata dell'intero mondo chiamato Dario Argento, per la gioia di chi ama il suo cinema o semplicemente la settima arte più immaginifica e per il rammarico e la noia di chi cerca un racconto forte.

mercoledì 19 dicembre 2018

A' L'INTERIEUR: UN INCUBO CHIAMATO VIOLAZIONE

Agli albori del terzo millennio, nel pieno del successo planetario di film ricchi di momenti di violenza esplicita quali Saw (James Wan, 2004) e Hostel (Eli Roth, 2005), anche il vecchio continente viene invaso da una orda di prodotti ancora più eterogenei ma comunque accomunati dalla medesima volontà di non nascondere nel fuori campo, come accadeva nella tragedia attica, le sevizie più efferate. All'interno di questo fenomeno europeo (e in realtà anche asiatico) spicca per qualità e quantità l'apporto della Francia, tanto da aver portato all'identificazione di una sorta di Nouvelle Vague del cinema estremo transalpino definita New French Extremity, etichetta in realtà piuttosto vaga ma adoperata con molto successo sia in ambito accademico che cinefilo. Tra le pellicole più note a essere stata appaiata a questa "definizione" vi è certamente A' L'interieur, opera prima della coppia di registi e sceneggiatori Alexandre Bustillo e Julien Maury risalente al 2007 ma arrivata solamente nel 2018 in Italia, ovviamente soltanto in home video. Il film, oltre ad aver goduto di un notevole successo commerciale a dispetto della sua natura indipendente, è tra i pochi esempi di tale ondata di cinema estremo francese ad aver convinto gran parte della critica mondiale, permettendo ai due autori di dirigere negli Stati Uniti Leatherface (2017).

Protagonista dei circa ottanta minuti del lungometraggio è la fotografa Sarah, reduce da un incidente automobilistico nel quale ha perso la vita il fidanzato ma da quale è riuscito miracolosamente a sopravvivere il bambino che porta nel suo grembo. Arrivata ormai alle soglie del parto la donna pare non riuscire a superare il trauma subito e nonostante sia arrivato anche il Natale allontana tutte le persone che le vogliono bene per poter restare sola in casa. Durante la notte riceve la visita di una donna misteriosa che conosce il suo passato. Inizialmente l'ospite indesiderato viene apparentemente messo in fuga dall'arrivo della polizia ma successivamente si introduce in casa e tenta di aprire il ventre di Sarah con delle forbici. La reporter riesce a salvarsi miracolosamente barricandosi in bagno ma non è che l'inizio di un vero e proprio assedio.

Stando alle parole dei due registi i principali riferimenti per la realizzazione di A' L'interieur sarebbero stati Dario Argento e John Carpenter e mai come in questo caso si può davvero credere alle dichiarazioni degli autori: il film non solo cita esplicitamente Phenomena (Dario Argento, 1985) e Halloween - La notte delle streghe (Halloween, John Carpenter, 1978) tra i tanti ma unisce la visionarietà e la dimensione fiabesca tipica del cineasta romano con l'ossessione di Carpenter per l'home invasion e il cinema d'assedio in generale, le cui regole di matrice classica vengono rilette dalla sensibilità tutta europea e contemporanea dei due registi, i cui sottotesti politici certamente non dispiacerebbero all'autore di La cosa (The Thing, 1982). Certamente la profonda conoscenza di questo filone dell'horror permette a Bustillo e Maury di tessere un percorso in cui la tensione cresce costantemente e lo spettatore viene coinvolto emotivamente dalla lotta per la sopravvivenza di Sarah, così come la scelta di mostrare all'interno del profilmico atti di violenza particolarmente efferati riesce con efficacia a colpire gli stomaci degli spettatori ma vi è un elemento che, quasi sullo sfondo, permea lungo tutta la sua durata la pellicola, ossia i costanti riferimenti alle sommosse nelle banlieue parigine. Come una sorta di basso continuo rimbalzano da apparecchi televisivi, dalla radio o attraverso le parole dei personaggi notizie circa le esplosioni di rivolta negli ormai archetipici quartieri popolari della capitale transalpina, abitato in maggioranza da immigrati africani o francesi di seconda e terza generazione in condizioni completamente opposte rispetto all'opulenza e alla bellezza architettonica del centro città. Autori come Mathieu Kassovitz, Luc Besson e molti dei registi che quest'ultimo ha lanciato attraverso la sua casa di produzione EuropaCorp hanno reso nel corso degli anni le banlieue un'ambientazione cinematografica immediatamente riconoscibile e connotata di caratteristiche ben definite, alla stregua del deserto nei western di John Ford o della Boston nei crime movie contemporanei, ma ciò che realmente interessa alla coppia di cineasti in questione è proprio il collegamento diretto tra questi sobborghi e la condizione di ghettizzazione delle minoranze etniche, costrette a sopportare una ormai atavica subordinazione rispetto alla Parigi dei quartieri storici e dunque portate quasi naturalmente a delle esplosioni di violenza come atto di ribellione. Anticipando di qualche anno l'attuale clima di sospetto nei confronti dello straniero, in parte acutizzato dalle massicce ondate migratorie provenienti dall'Africa, Bustillo e Maury individuano proprio in questo sentimento la vera origine della segregazione di questi sfortunati quartieri della capitale, a loro volta vera e propria sineddoche della condizione vissuta da tutti i migranti emarginati.
A' l'interieur si prospetta dunque come un incubo, un discesa attraverso un oscuro mondo onirico che utilizza la terribile vicenda vissuta da Sarah come simbolo degli orrori che scaturiscono dalla sensazione di vedere violati i propri spazi più privati e invalicabili: la casa, luogo in cui nasce e si aggrega il nucleo familiare, così come la propria nazione e infine il grembo materno, l'ambiente nel quale ha origine il miracolo della vita e trovandosi all'interno del corpo della donna risulta il più grande taboo per qualsiasi intervento esterno, specie per una società come quella occidentale nella quale risultano ancora ben evidenti le conseguenze antropologiche e culturali delle radici cristiane e del fortissimo culto della sacralità della gravidanza tramite la figura della Madonna. Proprio per poter rappresentare a pieno la rottura di quei vincoli percepiti come ontologicamente invalicabili i due cineasti scelgono di spezzare anche i taboo relativi al visibile mostrando senza alcuna esitazione momenti molto crudi. Questo non si traduce mai in una esibizione pornografica, di puro godimento visuale, della violenza ma semplicemente amplifica con grande efficacia la paura incontrollata di un intero paese, come in fondo dimostra la maestria con la quale si muove la cinepresa, mai tremolante come in molto cinema horror contemporaneo e capace di rendere tangibile l'angoscia messa in scena attraverso una sapiente gestione dei chiaroscuri sia nelle inquadrature più brevi che negli eleganti piani sequenza.

Consigliare A' l'interieur a chiunque è certamente un compito arduo visto l'altissimo tasso di violenza grafica ma nel caso voi aveste uno stomaco abbastanza allenato o vogliate assistere a un film duro e raffinato al tempo stesso allora fa al caso vostro.

sabato 15 dicembre 2018

ALIEN: COVENANT: CREO ERGO SUM

All'interno dell'ampio panorama dell'orrore uno dei posti d'onore viene certamente presieduto dalla saga di Alien, generata dall'omonimo film diretto da Ridley Scott nel 1979 e proseguita tra gli anni Ottanta e Novanta con tre sequel, ognuno diretto da un autore diverso e dunque foriero delle particolari poetiche di cineasti ben riconoscibili quali James Cameron, David Fincher e Jean-Pierre Jeunet. Ha rappresentato dunque una piccola sorpresa il ritorno di Scott nel 2012 in seno all'universo che ne ha decretato la fama mondiale con il prequel Prometheus, primo tassello di una trilogia che nelle intenzioni del regista inglese dovrebbe riallacciarsi narrativamente proprio al primo capitolo del franchise. La pellicola che ho scelto di prendere in considerazione oggi rappresenta il seguito del lungometraggio con protagonista Noomi Rapace e si intitola Alien: Covenant, per la regia dello stesso Scott e arrivato in sala nel 2017. Proprio la scelta di inserire nel titolo la parola Alien, almeno a mio avviso, può essere considerata la fonte di aspettative enormi da parte dei fan, in perenne ricerca di una riproposizione il più possibile fedele dell'ormai classico orrore spaziale vissuto dall'equipaggio della Nostromo quasi quarant'anni fa e per questo delusi da un lavoro solo in parte debitore del cult del 1979. Certo non si può definire il film in analisi in tracollo economico e in fondo anche la critica lo ha in parzialmente premiato, eppure appaiono lontani i tempi della Alien-mania, così come gli incassi da più di mezzo miliardo di dollari di Prometheus.

Ambientata a dieci anni di distanza dal predecessore la pellicola segue la missione di colonizzazione di nuovi mondi da parte di un gruppo di umani all'interno del quale spiccano in particolare il cyborg Walter (Michael Fassbender), il credente Oram (Bill Crudup) e la tenace Daniels (Katherine Waterston). Durante il lungo viaggio verso un pianeta giudicato ideale per creare un insediamento l'ipersonno dell'equipaggio viene interrotto da una tempesta di neutrini che danneggia gravemente l'astronave e provoca la morte di Jacob Branson (James Franco), capitano della spedizione e compagno di Daniels. Il posto del defunto viene assunto da Oram, il quale decide di mettere temporaneamente da parte l'itinerario prestabilito per visitare un pianeta potenzialmente abitabile individuato tramite la ricezione di un segnale audio misterioso. Purtroppo il nuovo mondo, benché ricco di vegetazione, si rivela una trappola mortale per i protagonisti a causa della presenza di parassiti alieni e soprattutto di David (Michael Fassbender), l'intelligenza artificiale vista in Prometheus e vero artefice della diffusione degli xenomorfi sul luogo.

Come ho precedentemente accennato questo Alien: Covenant è sicuramente legato tematicamente e narrativamente al primo episodio della saga di Ellen Ripley, non manca di easter eggs o ammiccamenti (la sequenza nella capsula medica con l'apparizione dell'alieno dallo stomaco di una donna della squadra ne è un chiaro esempio) e recupera persino il tema musicale portante composto da Jerry Goldsmith nel 1979 ma aspettarsi da questi uno di quei sequel-remake tipici dell'horror è un grave errore. L'ultimo tassello del franchise appare quanto mai come una evoluzione orrorifica del suo predecessore del 2012 e in generale una sorta di sunto dell'intera filmografia di Scott, da Blade Runner (1982) sino al più recente Exodus - Dei e re (Exodus: Gods and Kings, 2014). L'incipit del lungometraggio, ambientato nel passato, mostra i primi istanti di vita di David attraverso un dialogo con il suo creatore, l'imprenditore Peter Weiland (Guy Pearce), ambientato in un diafano spazio che ricorda le immaginifiche stanze neoclassiche viste nella parte finale di 2001: Odissea nello spazio (2001: A Space Odyssey, Stanley Kubrick, 1968). Il cyborg si mostra immediatamente incuriosito dal quesito per eccellenza, la domanda che imperversa l'esperienza umana fin dagli albori della civiltà: come siamo nati? Qualcuno ci ha creati? E se sì a quale scopo? Naturalmente l'intelligenza artificiale conosce bene l'identità del proprio fautore, così come sa di doverlo servire, ma non sa chi sia stato a creare il proprio genitore e soprattutto si chiede come mai debba asservirsi a una creatura evidentemente inferiore in termini sia fisici che intellettivi. Questa prima sequenza, in una manciata di minuti, espone l'intero sistema poetico che muove il cinema dell'autore de Il gladiatore (Gladiator, 2000). Le successive due ore di girato, la ricerca di una nuova casa, la lotta per la sopravvivenza e gli orrori celati dal misterioso pianeta un tempo abitato dagli Engineer non fanno che espandere e approfondire le stelle polari della ricerca filosofica di Scott attraverso le armi più congeniali della settima arte, la capacità di creare immagini e quella di smuovere intelletto e sentimenti degli spettatori tramite la sinergia tra le immagini stesse, le interpretazioni attoriche e una partitura musicale d'eccezione. I poli in questione possono essere chiaramente individuati nell'essenza dell'umanità, ossia ciò che contraddistingue l'uomo in quanto tale, e di conseguenza il suo rapporto con la vita di matrice artificiale. Per poter affrontare questioni di tale portata il cineasta britannico pone il suo sguardo principalmente su un solo personaggio, o meglio su di lui e sul suo doppio, ovvero David e Walter. I due androidi, interpretati con grande finezza nel determinarne le diversità tramite flebili sfumature mimiche e nel portamento, grazie al contrasto tra le sembianze fisiche identiche e l'opposta visione del proprio rapporto con gli uomini espandono e portano a compimento la riflessione avviata dall'autore in Blade Runner attraverso la dialettica Roy/Deckard affermando con decisione il vero carattere che distingue lo status di essere intelligente e civile, ossia la capacità di creare, di plasmare un qualsiasi prodotto tramite la propria inventiva. Parafrasando il celebre assunto cartesiano David arriva ad affermare che l'uomo, gli Engineer e lui stesso esistono in quanto esseri in grado non solo di pensare ma di creare qualcosa di nuovo e lo dimostra insegnando al suo simile a suonare e comporre un brano musicale con il flauto. Walter dapprima si mostra evidentemente affascinato dal carisma del suo predecessore, sebbene affermi che l'estrema umanità dimostrata da quel modello ne rappresentasse un difetto di fabbricazione eliminato negli esemplari successivi. Come nota David neanche il suo successore risulta del tutto privo di sentimenti date le attenzioni che ripone verso Daniels e dunque ciò che davvero distingue i due risiede in una questione di puro libero arbitrio: mentre Walter lascia intendere nel corso del film come sia una sua precisa volontà quella di difendere i suoi compagni umani, il suo doppelganger decide di propria iniziativa di utilizzare il dono della creatività per affermare la propria superiorità evolutiva rispetto all'uomo e punire la specie del suo altezzoso creatore dando vita a un'arma biologica generata unicamente per farla estinguere. Magistralmente Scott affida il dipanarsi di questo scontro etico/filosofico a tre sequenze ambientate tra le ombre taglienti della necropoli nella quale vive David, tra le quali spicca in particolare quella girata quasi completamente in piano sequenza in cui i due vengono inquadrati come due riflessi di uno specchio, annullando completamente le loro piccole differenze esteriori, trasformando così un dialogo in una sorta di soliloquio dello stesso cyborg a proposito della propria volontà di affrancarsi dalla schiavitù nei confronti dell'umanità tramite proprio la possibilità di creare, esattamente alla stregua di quanto fatto da artisti quali Richard Wagner e Percy Shelley, dei quali non a caso vengono a più riprese citati Ozymandias e l'Entrata degli dei nel Valhalla, opere esemplari circa il titanismo e la strenua lotta dell'individuo per sovrastare la massa fino a raggiungere lo stadio di divinità creatrice.

Alien: Covenant rappresenta in definitiva il culmine, almeno fino a oggi, di una riflessione iniziata circa quarant'anni fa da un artista britannico circa ciò che distingue l'uomo dal resto della natura e persino dalle proprie invenzioni, dalle straordinarie macchine che è in grado di creare. Macchine così raffinate da finire per divenire persino più umani degli uomini stessi, come Roy Batty e David, a tal punto umani da scegliere di regnare all'inferno piuttosto che servire in paradiso, parafrasando uno dei versi più celebri del Paradiso perduto di John Milton, il cui Lucifero diviene la vera matrice della ribellione dell'intelligenza artificiale impersonata da Fassbender.