Tra gli appassionati di settima arte non è certo passato inosservato lo strano caso dei classici mostri Universal, su cui la major statunitense sperava di poter imbastire un intero universo cinematografico, sul solco del MCU, a partire da La mummia (The Mummy, Alex Kurtzman) del 2017, che però si è rivelato un grosso fallimento, nonostante il coinvolgimento di star del calibro di Tom Cruise e Russell Crowe. Accantonato questo progetto i vertici della nota casa di produzione hanno deciso di virare verso lidi molto meno rischiosi economicamente e slegati drammaturgicamente, formando un sodalizio con una garanzia nella massimizzazione dei ricavi con budget irrisori come Blumhouse. Il primo risultato di tale strategia è stato l'eccezionale L'uomo invisibile (The Invisible Man), scritto e diretto da Leigh Whannell nel 2020, capace di generare grandi profitti, ma anche ottime recensioni, persino troppo poco lusinghiere a mio avviso. Visti i risultati Universal scrittura lo stesso autore di Upgrade (Leigh Whannell, 2018) per offrire una rivisitazione contemporanea anche dell'Uomo lupo, che arriva nelle sale di tutto il mondo nel corso di gennaio del 2025 con il titolo Wolf Man. Questa volta, purtroppo per il cineasta americano, il box office latita e la critica si divide tra detrattori e giudizi positivi ma mai vicini all'eccellenza.
Dopo un prologo ambientato negli anni Novanta, dove tra i boschi dell'Oregon un cacciatore (Sam Jaeger) si imbatte, insieme al figlio Blake (Zac Chandler), in una strana creatura feroce, il film si sposta nella San Francisco del presente, dove l'ormai adulto Blake (Christopher Abbott) vive insieme alla moglie giornalista Charlotte (Julia Garner) e la figlia Ginger (Matilda Firth). L'uomo, divenuto uno scrittore, vive un periodo di crisi lavorativa che affronta dedicandosi alle cure della piccola di casa, visti anche i numerosi impegni della consorte, che non sembra passare molto tempo con la famiglia. Proprio per rinsaldare il legame con l'amata, il protagonista coglie l'occasione della notizia del decesso del padre, con cui aveva interrotto ogni rapporto da anni, per organizzare un viaggio verso il piccolo paesino dell'infanzia con moglie e figlia, lontani dallo stress della vita quotidiana e immersi negli splendidi paesaggi del luogo.
Il licantropo, seppur con minore successo pop rispetto ad altre figure sovrannaturali come il vampiro o lo zombie, rappresenta un archetipo così radicato nell'immaginario collettivo da secoli, ben prima che George Waggner nel 1941 dirigesse il celeberrimo L'uomo lupo (The Wolf Man) con l'iconico Lon Chaney Jr., per cui ogni tipologia di società, distante l'una dall'altra nello spazio e nel tempo, ne ha dato una propria versione. Allo stesso modo sul grande schermo tanti autori hanno adattato tale mitologia alla propria personalità o poetica, dando vita al dolente gotico targato Hammer con L'implacabile condanna (The Curse of the Werewolf, Terence Fisher, 1961), così come alla rilettura postmoderna e femminista di Ginger Snaps (Licantropia Evolution, John Fawcett, 2000). Whannell opta per un'ulteriore versione rispetto alle succitate, ancor più strettamente connessa all'attualità e ad alcune tematiche che lo sceneggiatore di Saw - L'enigmista (Saw, James Wan, 2004) aveva già affrontato nei suoi lungometraggi da regista. A cominciare dalla sequenza d'apertura, appare evidente come il racconto voglia ancora una volta mettere in scena la disgregazione dei rapporti famigliari e l'incapacità di comunicare tra uomini, non limitandosi però all'ormai ben noto topos della dialettica tra civiltà e natura selvaggia, città e provincia, ma spostando il focus di questo tema su quanto questa atavica problematica si insinui anche nelle relazioni affettive più apparentemente progressiste. Blake, a differenza del violento e machista genitore, si occupa a tempo pieno della casa e della prole, lascia tranquillamente che sua figlia gli applichi il rossetto sulle labbra e cucina anche per la moglie, che sembra sostenere da sola da un punto di vista economico l'intero nucleo. Il ribaltamento degli stereotipi di genere potrebbe a prima vista espletare una sorta di sogno per qualunque semplicistica riduzione dell'American Dream 3.0, se solo no diventasse evidente, minuto dopo minuto, il disagio provato dal protagonista per una condizione che mette a dura prova quella mascolinità da lui ripudiata tagliando ogni cordone ombelicale con la figura paterna, ma che al contempo si insinua ancora oggi in ogni aspetto della società, fino a tramutarsi, letteralmente in un virus quando trascina i propri cari nel locus horribilis tipico della narrativa gotica in cui nasce l'idea della licantropia, solo che in questo caso non è una magione ottocentesca o medievale, bensì una foresta del tutto slegata dalle comodità e tecnologie moderne. Il posto ideale, insomma, dove la civiltà lascia il posto agli istinti repressi e, conseguentemente, le conquiste sociali di Blake finiscono in secondo piano rispetto all'istinto predatorio dell'uomo e a millenni di mascolinità tossica perpetrati dalle comunità umane. Simbolo, neanche troppo velato, di questo scontro è quello tutto fisico tra lo scrittore e l'ormai ex cacciatore nel momento in cui entrambi si trovano sotto gli effetti del morbo del lupo mannaro: facendo leva sugli ultimi bagliori di razionalità rimastigli, Blake uccide persino il padre, creduto già morto, pur di proteggere la sua famiglia, riuscendo in un solo colpo a recidere definitivamente ogni legame con il proprio passato, anche ovviamente da un punto di vista freudiano, e ad assumere quel ruolo di pater familias che finora aveva sempre relegato alla donna, con tutto ciò che comporta per un uomo cresciuto in un ambiente dal machismo conclamato.
La scelta di trasformare la licantropia in una sorta di infezione, metafora di quella insita in ogni maschio alla ricerca di un ruolo ben definito in una società sempre più liquida e (fortunatamente) lontana dagli schemi tradizionali, non si traduce in una manichea demonizzazione di Blake. Mantenendo quella tragicità tipica del lupo mannaro, molto vicina a quella degli eroi della tradizione teatrale greca dei vari Edipo, Oreste ecc., la macchina da presa non smette di provare empatia nei confronti del protagonista, che resta tale anche nel corso di una trasformazione che, invece di avvenire nel giro di pochi minuti o addirittura secondi, si rivela graduale e prolungata, facendo perdere progressivamente la ragione e il controllo di sé all'uomo a piccole dosi. Ecco dunque che il regista ci porta direttamente nei panni sempre più scomodi di Blake tramite sequenze soggettive in cui lo spettatore può provare quasi sulla propria pelle e con i propri occhi gli effetti di tale mutazione: udito sempre più sensibile, fame insaziabile, capacità di distinguere i colori sempre più animalesca e infine una totale incapacità di comunicare con gli umani. Quest'ultima caratteristica diventa centrale, poiché cos'è in fondo l'essere umano se non un animale sociale, in grado di condividere esperienze ed emozioni con i propri simili, specie quelli a cui tiene di più? La progressiva perdita di questa facoltà diventa il fulcro sentimentale della discesa negli inferi della famiglia Abbott, al punto in cui persino gli ottimi effetti speciali pratici che sottolineano il cambiamento in Blake impallidiscono dinanzi al dolore derivato dallo spezzarsi del profondo filo emozionale che connetteva l'uomo a Charlotte e ancor di più a Ginger, che a più riprese scherzava con il papà fingendo di saper leggere nella sua mente e nel suo cuore. Attraverso una narrazione estremamente asciutta, performance estremamente convincenti del cast e la vicinanza della mdp, che soltanto in rari casi si concede attimi di puro estetismo con alcuni campi lunghi di notevole gusto compositivo, la pellicola colpisce in pieno la componente più irrazionale dello spettatore, ricordandoci quanto orrore possa nascondersi in quelle condizioni fisiche che possono allontanarci dagli affetti a cui siamo più legati, tanto che lo stesso regista ha dichiarato di essersi ispirato a casi a lui vicini di malattie fortemente debilitanti come la SLA o l'Alzheimer.
Wolf Man in definitiva non raggiunge probabilmente gli straordinari risultati poetici, estetici e narrativi di L'uomo invisibile, eppure resta una visione così passionale e intima rispetto a tanto cinema americano, di genere e non, da non lasciare indifferenti, in special misura chiunque abbia avuto la sfortuna di vivere sulla propria pelle l'esperienza del decadimento fisico e psicologico di una persona amata, proprio come dovrebbe fare un buon esempio di cinema a tema licantropi nella nostra contemporaneità.